“Ad Aleppo noi viviamo come se ci fosse un terremoto continuo”

Oggi in tutte le chiese d’Italia si raccolgono fondi per le persone colpite dal terremoto del centro Italia. I vescovi italiani hanno indetto questa giornata, quale strumento efficace per venire incontro, utilizzando i canali capillari della Caritas, alle necessità causate dal terremoto.  È il gesto più concreto, vista l’eccezionale gara di solidarietà degli italiani che ha reso al momento perfino superflue altre forme di donazioni di cibo o vestiario,  o di altri interventi. Quindi tutti siamo caldeggiati ad aderire, donando durante le celebrazioni oppure direttamente ai parroci.

In questa giornata mi torna in mente la lettera scritta da  Aleppo da padre Ibrahim, che ha visitato Rimini già in diverse occasioni, facendoci partecipi del dramma di Aleppo con la sua toccante testimonianza di umanità e di fede. In quel dramma, in quella situazione terrificante (il link precedente ci porta al suo intervento al Meeting di due anni fa, ma poi padre Ibrhaim, tornò a Rimini chiamato dal Portico del Vasaio), per la quale ci siamo mossi per inviare aiuti anche recentemente, padre Ibrahim dimostra di avere a cuore il dramma dei nostri fratelli italiani colpiti dal terremoto. Merita di essere letta integralmente perché permette di imparare cosa vuol dire essere “cattolici”: avere un cordone ombelicale che ci lega al mondo intero, all’umanità diffusa nel mondo intero. La propria appartenenza a Cristo genera un’apertura, che permette, sotto le bombe di un nemico terribile, di ricordarsi e prendersi carico  delle vicende di persone che vivono in una situazione oggettivamente molto più agevole della propria.

Il senso del nostro obolo per i terremotati, acquista così piena dignità e può generare una novità profonda nella nostra vita, divenne segno efficace della costruzione di un mondo nuovo, dove nessuno è estraneo. Così ci insegna questo frate francescano, che si erge come figura di uomo a pieno, capace di vincere il male, di non essere sconfitto nella istruzione e di testimoniare un cuore aperto all’umanità intera:

“Mi si strazia il cuore a condividere le sofferenze della mia gente qua ad Aleppo ma quello che è successo ultimamente in Italia, cioè la morte di centinaia di persone e di tanti altri coinvolti nel terremoto, mi ha aperto nuove ferite. Li sento come se fossero i miei parrocchiani. Dal primo istante in cui ci è giunta la notizia degli eventi catastrofici del terremoto abbiamo offerto le S. Messe, le nostre preghiere, le sofferenze, la fatica dei nostri sacrifici quotidiani per gli italiani deceduti, per i loro familiari ed amici.  Abbiamo fatto questo perché siamo uniti… siamo un solo Corpo…, non è per caso che siamo membra di un solo Corpo: è una scelta fatta dal Signore e una grande responsabilità di carità e di comunione.”

 

 

Ecco la lettera integrale di padre Ibrahim.

 

Aleppo, 14 settembre 2016

Carissimi amici,

con grande amarezza nel cuore abbiamo accolto la triste notizia del terremoto in Italia. Da subito abbiamo offerto le S. Messe, le preghiere,  le sofferenze e le fatiche per le anime dei morti, per i feriti, per i familiari ed amici delle persone e delle famiglie colpite. Continuiamo a pregare per tutti voi.

Ad Aleppo noi viviamo come se ci fosse un terremoto continuo che non accenna a finire, in una crisi assurda che dura da più di cinque anni; continua la nostra via crucis e la lunga agonia del popolo siriano.

È un’agonia lenta, a questa parte del Corpo mistico della Chiesa manca sempre di più il fiato, le forze declinano, consumato dalla flagellazione e dai colpi.

Il periodo passato, in particolare, è stato di infinita tristezza per le atrocità e i danni subiti a causa delle bombe e dei missili che  hanno continuato a cadere senza tregua sulle abitazioni e sulle strade.  Nelle visite alle case danneggiate notiamo danni sempre più ingenti, causati da armi sempre più sofisticate e in grado di distruggere sempre più in profondità e qualità…

La sofferenza tocca sempre più da vicino gli abitanti di Aleppo, compresi i cristiani.

Per rendervi partecipi, vi racconto tre fatti che ci sono accaduti in questo periodo.

George Haddad, uno dei nostri martiri ad Aleppo
George Haddad, uno dei nostri martiri ad Aleppo

Il 15 di agosto, nel giorno della festa dell’Assunta, George Haddad, un giovane trentenne sposato con un figlio piccolo di sette anni, con la sua giovane famiglia era andato a far visita agli suoceri. Erano tutti seduti tranquilli in casa, sembravano al riparo da possibili attacchi, quando improvvisamente un missile è esploso sulla strada causando tanta distruzione e morte. Una scheggia del missile ha colpito il cuore del giovane, causandone la morte istantanea.

Ha così lasciato una giovane moglie e un bambino di sette anni.

 

George Haddad, uno dei nostri martiri ad Aleppo

Il 25 agosto, in pieno giorno, un missile è caduto su un edificio abitato a Jabrieh, una zona affollata in prevalenza da famiglie povere.

L’edificio bombardato a Jabrieh che ha provocato altri 5 martiri
L’edificio bombardato a Jabrieh che ha provocato altri 5 martiri

Il missile, con grande capacità di distruzione, ha provocato la morte di cinque persone, parecchie decine di feriti e danneggiato decine di case.

 

Il 26 agosto, Bassam, un bambino di 8 anni,  mentre giocava con i suoi amici nel giardino della chiesa, è stato colpito da una pallottola alla testa.
Era figlio unico di due giovani coniugi.
Da subito i medici hanno diagnosticato la morte cerebrale del piccolo,  i suoi genitori però non riuscivano ad accettare, a capacitarsi, sperando in un miracolo dal cielo. Il bimbo è rimasto per giorni inchiodato al ventilatore meccanico, morto ma con un cuore che palpitava.

La mamma, nonostante non riuscisse a distaccarsi dal figlio disteso immobile nel letto del reparto di Terapia Intensiva, il lunedì 29 agosto è venuta con suo marito alla Messa.

Mamma Kinda mi diceva che “questa croce è veramente pesante per lei…”, le ho risposto che questa croce non era soltanto sua ma di tutta la Chiesa di Aleppo e che la portavamo insieme, con le mani distese in preghiera non solo per Bassam ma per tutto il paese che vive ormai come fosse anch’esso in stato di morte.

Dopo giorni interminabili di massima sofferenza, il 30 agosto, verso il tramonto, è arrivata la notizia che il cuore di Bassam si era fermato. Il fermarsi del cuore è stato un segno di misericordia nei suoi confronti ma soprattutto per i suoi genitori che erano ormai inchiodati con lui al letto, col cuore straziato.

Il giorno dopo, giorno del funerale, è stata per me una lotta terribile contro il caos e la disperazione che tentavano con tutti i mezzi di regnare nel cuore della madre, del padre e di tutta la gente.

Ho passato la mattinata seduto di fronte ai genitori, accanto alla salma, per prepararli a vivere con serenità il funerale, come momento di preghiera e di comunione con il loro figlio.

E’stata una lotta difficile anche con i gruppi scout che facevano a gara a organizzare grandi manifestazioni per le strade, facendo rumore e suonando. E’ stata un’ardua battaglia con i molti parenti che pianificavano di portare la salma lungo le strade, danzando come se fossero a  una  festa di nozze, per manifestare il dolore e la disperazione…

Alla fine, il Signore della pace ha prevalso e abbiamo potuto celebrare il funerale con calma, in un atmosfera di profondo raccoglimento e di preghiera.

Nell’Omelia, di fronte a una grande folla che gremiva la chiesa, ho parlato dell’immagine di Dio, che si riflette attraverso la vita di Gesù, di un Dio tenero, buono, misericordioso e innamorato dell’uomo, che pensa al bene ultimo degli uomini e ben sa come fare per farli giungere a questo bene, anche attraverso il male che esiste nel mondo.

La celebrazione del funerale del piccolo Bassam
La celebrazione del funerale del piccolo Bassam

Questa immagine del Dio buono, ho detto, viene demolita in modo sottile e qualche volta invece in modo diretto dal nemico, soprattutto nei momenti più drammatici come può essere il funerale dei propri cari. Sono tentazioni terribili contro la fede in un Dio buono, che nonostante sia Onnipotente, non impedisce il male legato alla libertà dell’uomo ma può far nascere il bene dal male, la vita dalla morte.

Così, nonostante tutta la tristezza e l’agitazione iniziale, durante il funerale ci è stata donata una pace che poteva venire soltanto dall’alto. Durante le condoglianze, al termine della giornata, si è riusciti perfino a strappare dei sorrisi dal volto dei genitori e dei familiari di Bassam.

Il funerale passato in preghiera con uno spirito di raccoglimento è stato un miracolo, accolto e testimoniato come tale da tutti i presenti: è stata una testimonianza della risurrezione di Cristo.

Così  è Aleppo: una città di distruzione e di morte… Non sono sicuro che esista ancora…

Ogni giorno accadono storie come queste, dolori di genitori che perdono i figli o di figli che perdono i genitori. La gente è sempre sotto shock e soffre tantissimo.

Noi frati ci facciamo carico della croce quotidiana della gente, una croce che diventa sempre più pesante.

Passiamo le giornate nel dolore e nella fatica, fra le visite agli ospedali, l’accompagnamento dei moribondi, la celebrazione dei funerali, le visite alle case danneggiate e alle famiglie senza tetto.

Il cuore però è attento ad una sfida assai difficile, quella di custodire la fiamma ardente della fede seminato con il Battesimo nel cuore di ogni fedele di Aleppo, in mezzo a questa grande tempesta che soffia da più di cinque anni e che rischia di distruggerla continuamente.

Grazie dal cuore… un grazie ripetuto da noi sempre in forma di preghiera, per tutti voi che pensate a noi, che pregate per noi e che continuate a sostenerci con tutti i mezzi possibili.

Mi si strazia il cuore a condividere le sofferenze della mia gente qua ad Aleppo ma quello che è successo ultimamente in Italia, cioè la morte di centinaia di persone e di tanti altri coinvolti nel terremoto, mi ha aperto nuove ferite.

Li sento come se fossero i miei parrocchiani.

Dal primo istante in cui ci è giunta la notizia degli eventi catastrofici del terremoto abbiamo offerto le S. Messe, le nostre preghiere, le sofferenze, la fatica dei nostri sacrifici quotidiani per gli italiani deceduti, per i loro familiari ed amici.

Abbiamo fatto questo perché siamo uniti… siamo un solo Corpo…, non è per caso che siamo membra di un solo Corpo: è una scelta fatta dal Signore e una grande responsabilità di carità e di comunione.

Nel nome della mia gente, dei parrocchiani e in modo speciale dei nostri ragazzi, vi ringrazio per le preghiere che fate per noi.

Continuate per favore con insistenza a pregare: vogliamo vincere la guerra con la preghiera…

Un grande saluto pieno di affetto e di carità da parte nostra ad ognuno di voi.

Uniti nella preghiera.

Che il Signore vi benedica.

Frate Ibrahim

 

1 commento su ““Ad Aleppo noi viviamo come se ci fosse un terremoto continuo””

  1. Non passa giorno senza l’arrivo di terribili notizie da Aleppo e, spesso, giungono appelli e richieste di preghiere. Tutto questo mi commuove e mi preoccupa, come rimanere insensibili davanti alle foto dei bambini, o alle parole piene di misericordia e di pace di p. Ibrhaim? ma c’è qualcosa di politicamente ed eticamente scorretto, che nessuno dice e io ti sottopongo, perchè voglio confrontarmi con te: la storia non ci insegna che, nella maggior parte dei casi, la pace si fa DOPO che qualcuno ha vinto la guerra? Se Assad e Russi sono più forti (non dico abbiano ragione, il gazzabuglio del medio oriente supera grandemente la mia capacità di giudizio…) i padri di quei bambini che muoiono sotto le bombe non avrebbero il DOVERE di arrendersi? Di ribellersi ai ribelli, se davvero sono “civili inermi”? Sarà il mio un pragmatismo becero, ma il Giappone si è arreso incondizionatamente non dopo Hiroshima, ma dopo Nagasaki, quando è stato evidente che la forza, non le ragioni, del nemico non potevano essere contrastata nemmeno dall’eroismo dei Kamikaze… Fino a quando ad Aleppo continueranno ad appellarsi al mondo intero, senza dichiararsi sconfitti? So che è una domanda scomoda e semplicistica, ma io me la pongo: quali connivenze (con l’ISIS?) e quali affari impediscono alla popolazione di scendere in strada e consegnarsi alle truppe governative? Perdendo magari la vita, nelle probabilissime “purghe”, ma salvando i propri figli?

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