Amare la complessità

Io non so niente
ma mi sembra che ogni cosa
nell’aria e nella luce
debba essere felice

Credo che se c’è una cosa che insegna la vicenda del piccolo Charlie, sia proprio questa: imparare ad amare la complessità.

Le semplificazioni e le battaglie in nome di certezze preventive hanno generato interventi in rete, ed anche sui giornali, di cui non si avvertiva onestamente il bisogno.
In una vicenda in cui i colpi di scena si avvicendano a cadenza quotidiana (tanto la vicenda medica e giuridica è intricata per chi non possieda la cartella clinica di Charlie), occorre prudenza e attenzione vigile. Ultimo, tra i colpi di scena, è la richiesta dei medici del Great Ormond, l’ospedale dove è in cura Charlie, di riaprire la questione, rivolgendosi all’Alta Corte inglese per riesaminare il proprio giudizio alla luce delle richieste dell’ospedale Bambin Gesù del Vaticano. (Si legga qui). E speriamo che si aprano davvero speranze, per quanto la luce sia flebile.

Bisognerà seguire la vicenda dunque, ora per ora, per capire di più e meglio.

È sempre più chiaro che la grossolana mole di certezze che, da una parte come dall’altra, ha caratterizzato il dibattito è veramente inappropriata e sbagliata come approccio.

E mi ci metto dentro anche io (che pur mi son preso del “Pilato”, “traditore” e quanto altro potete immaginare di bassissimo e nefando, per aver osato avere dubbi e cercare di riflettere). Malgrado il lunghissimo post di un paio di giorni fa, frutto di giorni di letture e riflessioni, ancora molto sfuggiva. Il post è stato però l’occasione, quale onesto tentativo di comprendere, per risposte e approfondimenti importanti, di cui ringrazio i lettori (e invito a leggere i commenti, preziosi in coda al precedente articolo).

Mi sfuggiva ad esempio la lunga intervista a Colombo che avevo letto e apprezzato ma non adeguatamente interiorizzato e fatta mia. Oggi molti amici si chiedono quali siano le coordinate (sia mediche, che etiche, che teologiche) della questione. Credo che l’intervento di Colombo dia il contesto giusto e vada preso come linea maestra per ogni successiva discussione. Bisogna avere la pazienza di leggerlo tutto fino in fondo (in particolare al punto “3” senza fretta. (Si legga qui)

Anche l’intervista al  dott. Cesana su Il Foglio, permette di comprendere  quanta prudenza occorra avere. Si rompono dunque anche schemi consolidati, nel panorama del “mondo cattolico” tra i cosiddetti “battaglieri”, e fedeli alla linea, e le “colombe” (categorie idiote per il mondo cattolico, dove la più grande battaglia è quella dell’agnello immolato, ovvero Cristo). E meno male che gli schemi si rompono.  (Si legga qui Cesana)

Il problema vero è riconoscere e dare credito a quelle “scintille di resurrezione” di cui parlavo nell’articolo precedente, vero aspetto interessante e pertinente (resurrezione da non ridurre a una “posizione per cui combattere”). Scintille presenti nell’attività di tanti medici, tra cui la dott.ssa Parravicini, ma attestata anche dalla bella lettera di Valeria Bertilaccio.

Ma perché questo accada occorre amare la complessità. Non ridurre la realtà al “già saputo”.

Ma a quale condizione è possibile amare la complessità?

C’è solo un modo per potersi addentrate nella realtà senza aver timore che questa ci porti via speranza, vita, valore. Occorre “credere” che la realtà sia densa di significato, comunque si ponga, in ogni suo aspetto. Un “credere” che diventa esperienza ragionevolmente fondata nell’incontro con Cristo, laddove si scopre che il Logos si è incarnato ed è la stoffa di cui è fatta la realtà (“la realtà invece è Cristo”, San Paolo).

Pertanto, se proprio all’interno di media cristiani si sono aperte battaglie grossolane (e tardive, ci ricordano amici che vivono a Londra), – magari da parte di tanti ingenuamente- è per poca fede e non per urgenza della fede. La battaglia che la realtà ci chiede, per uscire dal vortice del nulla, è un’altra.  È la domanda di esistenza, di vita, dell’esserci. È la preghiera perché Charlie  e la sua famiglia si salvino (dalla morte, prima che non dai tribunali).  Lo aveva capito perfettamente Giorgio Gaber, a cui ieri abbiamo dedicato, con gli amici del Centro culturale Il Portico del Vasaio, una serata conviviale di ascolto e di riflessione. In Io e le cose afferma “Io non so niente / ma mi sembra che ogni cosa / nell’aria e nella luce / debba essere felice.”

Per il resto, prima di brandire “casi” come armi per sostenere una propria idea, occorre passione per capire, certi che la realtà non tradisce.

E questa è la fede che ho imparato da Giussani che in fin di vita sostenne, “la realtà non mi ha mai tradito”.

I nuovi complessi problemi etici che si sono aperti da tempo, potranno generare nuove soluzioni di pensiero, solo a partire da questo, laico e di fede (ovvero pienamente razionale), approccio.

È per questo preziosa l’ “altra parte” del dibattito. Quella fatta di ricerca, richieste di chiarimento, lettura appassionata, attenzione ai dati. Una ricerca che ha portato a nuove e più consapevoli domande che oggi richiedono  risposte decisamente urgenti.

L’intensificazione di questo lavoro di “presa di coscienza” è sicuramente generativo di una nuova speranza.

 

 

2 commenti su “Amare la complessità”

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