Bauman e gli uomini connessi ma non soli

Come sappiamo, è morto, all’età di 91 anni, Zygmunt Bauman, il grande intellettuale che, seppure già di ampia notorietà, in questi ultimi tempi ha dimostrato una capacità di sguardo profetico rispetto alla società occidentale così acuta e pervicace, da poter raggiungere il grande pubblico. Notevoli, in particolare, le assonanze che Bauman ha avvertito con le parole e la figura di papa Francesco, uomo visto come lanciato oltre la crisi del post moderno.

Quello che mi colpisce in Bauman è il fatto che il vecchio “vizio” della filosofia occidentale (conoscere l’ “intero”), sembri rinascere, arricchito da una sensibilità per i movimenti della società, fin nei suoi aspetti più legati al costume, alla vita quotidiana, alle dinamiche economiche o di evoluzione tecnologica, con insolita freschezza.

La sua analisi della (ovvia ma drammatica) fragilità dei rapporti tra uomini senza legami, perseguita come progetto sociale ed oggi potenziata dal virtuale, già l’avevo percepita come illuminante, in una sua intervista collocata alla fine di un drammatico documentario relativo alla vita in Svezia (Qui puoi leggere il mio articolo, mentre purtroppo il filmato è stato rimosso dalla Rai).

Ma leggo proprio questa sera, al mio rientro dopo un’appassionata chiacchierata, a cena con amici, su temi vari, l’articolo di commiato di  Repubblica, che  propone, all’interno della pagina in rete, un’intervista video (in inglese con sottotitoli in italiano) e che potete leggere e vedere qui. Nel filmato di 10 minuti, il grande tema della attuale migrazione dei popoli  è legato da Bauman al tema della contemporaneità.

Bauman sostiene che modernità e migrazioni siano inscindibili (non vi sono queste senza l’altra). La modernità genera trasformazioni, che a loro volta generano spostamento di popoli, di quegli uomini cioè che non rientrano nell’ordine (generato nel disperato tentativo di  controllare il caos) e che dunque devono andarsene. Ma al minuto 3, 45 il giudizio diventa drammatico. I migranti “diasporici” (come sono quelli attuali) tendono a non integrarsi, a convivere con due e tre identità contemporanee (di cui essi stessi diventano portatori), destinate a non integrarsi affatto.

Sottolineatura che mette in luce il carattere epocale e drammatico dell’attuale movimento dei popoli, non risolvibile dunque né con un giudizio di chiusura (“fermiamo i flussi con i muri”, giacché la migrazione è tutt’uno con la modernità), né con un giudizio di generica apertura (di stampo “buonista”, – Bauman mette in luce il carattere drammatico e di “dis integrazione” che questo fenomeno ha in sé). Una impossibilità di integrazione che è generato e genera la società delle incertezze. Questo l’ultimo affondo terribile: si crede che la “società della incertezza” sia generata dall’immigrazione (e l’immigrato diviene capro espiatorio, utile alla politica di basso respiro), ma al contrario questa ne è un effetto. Baumann parla in tal senso di “ambiente dell’incertezza” (minuto 4,15 circa e seguenti) come connotato proprio della modernità. Gli immigrati sono “l’avamposto del grande ignoto”. E Bauman prosegue, affermando: “il grande ignoto è lì, nel cyber spazio”, inafferrabile. E qui sembra aprirsi una dimensione più ampia, capace di abbracciare anche il grande tema dell’assenza di legami, della solitudine, del virtuale.

Riflessioni che mettono in luce uno sguardo, quello di Bauman, capace di analizzare il dato singolo nell'”intero” della vita dell’uomo, della società e dei destini dell’umanità. Le numerose dinamiche dell’esistenza contemporanea (migrazioni, incertezza, crollo di evidenze, vita virtuale, capitalismo, individualismo, assenza di legami, ecc.) trovano una singolare coralità di visione, seppure non (ancora – e sarà lunga a venire-) una risposta fondativa

Decisamente un pensatore con cui è  essenziale  entrare in dialogo.

Dialogo decisamente piacevole per chi, come il gruppo di amici di questa sera, ama trovarsi a ragionare di queste cose senza lasciarsi schiacciare dal peso delle idee,  ovvero uomini “connessi ma non soli”, desiderosi di costruire nuovi “legami fondativi”, certi – per dirla alla Bauman – che “l’indipendenza non sia la felicità” ed  “alla fine porti ad una completa, assoluta, inimmaginabile noia”.

 

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