Magistra vitae o magistri ideologiae?

Da Ariminol del 24 ottobre 2003 (pag.12)

 

Che ci azzecca padre Pio, con Mazzini e Mussolini? Nulla o ben poco. Tuttavia chi avesse ascoltato la conferenza del prof. Sergio Luzzato, tenuta il 6 ottobre scorso all’interno del ciclo “Tra le pieghe della storia”, quarta edizione di “Magistra vitae?”, avrebbe scoperto che un filo rosso lega i tre personaggi e non solo. Questo filo o cappio che stringe in una morsa letale la ricchezza degli eventi, abbraccia anche Silvio Berlusconi, Karol Woytila, e tanti altri…

Già perché ultimamente per un’ ampia parte dell’intellighentia, tutto parte dal grande incubo dell’Italia di oggi: Silvio Berlusconi. E’ il grande tormentone, impossibile liberarsene. Una fobia. La stessa fobia che sembrava aleggiare durante l’incontro con Luzzato.

Semplice e accattivante il percorso proposto.
In questo tempo in cui impera il berlusconismo, non possiamo non interessarci del corpo (body history è la branca della storia in cui è specializzato Luzzato, ordinario a Torino per storia contemporanea). L’imprescindibilità dello studio del corpo nella storia è data proprio dal fatto che oggi Berlusconi (ma non solo lui) utilizza con grande perizia la sua immagine fisica per comunicare (teatralità, presenzialismo, culto dell’immagine).

1. “Per un italiano secondo me, (…) il primo corpo con cui fare i conti, -diciamo pure-, negli anni 90 , -se si può dire-, in cui da cittadini abbiamo vissuto l’avvento di un personaggio, che ha anche un corpo che lui considera forse comunicativo, e che molti italiani considerano comunicativo, forse carismatico, come il corpo di Silvio Berlusconi, (pausa)..no… cioè non so quanti di voi hanno ricevuto due anni fa durante la campagna elettorale questa specie di fotoromanzo che si chiama una storia italiana, era una cosa istruttiva per chi si occupa di storia. C’erano sessantatré foto di Berlusconi, solo nella copertina (…) Negli anni 90 interessarsi ai corpi forse aveva anche questo significato laterale, parallelo… inconfessabile per chi vuol far della storia un esercizio professionale nel senso che questo non ci deve fuorviare (…) ma è inutile nasconderci il fatto che nel rapporto tra politica e religione i corpi contano. Per me il primo corpo con cui fare i conti è sembrato quello di Benito Mussolini.”

 Facile il passaggio a Mussolini; più complesso invece quello a Mazzini (fatto imbalsamare, fatto raro per un politico, dai suoi). Passaggio complesso ma non assente. Infatti questa pratica altro non è che una ricerca di esaltazione del corpo (morto o vivo che sia), similare a quel secolare culto dei Santi proprio della Chiesa. Ecco allora la necessità di andare all’origine, fino a giungere a chi la santità l’ha “inventata”: studiamo dunque padre Pio. Per dire fondamentalmente che è un impostore e che questo culto necrofilo del corpo risulta una pratica propria delle culture e delle democrazie non mature (vedi l’uso dei regimi socialisti asiatici di imbalsare i vari Lenin, Mao…) Queste culture immature, non fiduciose della forza delle idee, cercano fondamenti superiori nell’eternizzazione dei corpi. La Chiesa è maestra di questa arretrata pratica, aggravata da sconcertanti e utilitaristici voltafaccia. E si cita padre Gemelli, il quale sentenziò l’inaffidabilità di padre Pio, che oggi invece la Chiesa pone sugli altari della Santità.

Il tutto infarcito di riferimenti all’attualità, a dispetto della dichiarata impossibilità per uno storico di dare giudizi sul presente dovendo esso limitarsi a registrare quel che è stato. Riferimenti all’attualità che in realtà, come è giusto, abbondano ma secondo un copione un po’ rigido. Già perché vanno tutti in un senso ben preciso. Si pensi al giudizio su Giovanni Paolo II, il quale è visto come eretico ed un po’ demoniaco, essendosi permesso di affiancare al vero Cristo, la figura di padre Pio intesa come “alter Christus”. Infatti un sacerdote che ha le stigmate è l’icona dell’alter Christus: celebra l’incarnazione di Cristo nel pane e nel vino, e nel frattempo sanguina dalle reali ferite di Cristo. Giovanni Paolo II sarebbe complice di questa deviazione teologica, avendo affermato del santificato che “egli è stato pane spezzato”. Frase che in realtà è assai meno esplosiva di quanto non creda Luzzato, se si tiene conto che per la teologia cattolica il cristiano, ogni cristiano, appartenendo alla Chiesa, appartiene al corpo mistico di Cristo e quindi è “pane spezzato”. Eppure Luzzato, che credente non è, vuol tuttavia catechizzarci, correggendo il papa stesso. All’interno del medesimo schema ecco l’altro giudizio su Giovanni Paolo II: con padre Pio e con le altre sue iniziative massmediatiche, egli si permette di inseguire l’audience e dunque di far male alla Chiesa, preferendo le masse a coloro che comprendono l’autentico cristianesimo.

“Se papa Woytila avesse un po’ più tempo farebbe santi tutti qua dentro; come Lei sa papa Woytila ha fatto più santi lui da solo che tutti gli altri nella storia della Chiesa. Il fatto che li abbia fatti a destra e a sinistra, al centro, dietro…Comboni era una specie di Che Guevara dell’Ottocento, Escrivà de Balaguer era una specie …di … scegliete voi l’esempio (…). Da questo punto di vista le ricorderò una cosa molto significativa e molto grave che ha detto papa Woytila il 2 maggio 1999, quando padre Pio è stato beatificato (…) ha detto una frase che alla sue orecchie di cattolico non mancherà di echi, ha detto “egli è stato pane spezzato” (…) Di Cristo è giusto che ve ne sia uno solo. Quando papa Woytila dice “egli è stato pane spezzato”, dice una cosa molto grave perché si assume la responsabilità di sostenere (…) che padre Pio, fino a prova contraria, se è stato pane spezzato, vuol dire che è stato unto dal Signore e che è stato un secondo Cristo. A me la cosa non mi riguarda (…) non sono credente (…) però che per inseguire i grossi numeri, i dieci milioni che guardano Castellitto alla televisione, un papa abbia bisogno di dire che padre Pio è stato pane spezzato, ecco… io, se fossi voi, se partecipassi alla comunità ecclesiale alla quale lei partecipa, qualche domandina me la farei.”

Forse si riferisce a quell’élite cattolica che nel corso del Novecento, inseguendo una presunta modernità, aveva ridotto ad un silenzio mortificante il popolo cattolico, disfatta di cui si era ben accorto lo stesso Paolo VI?

Infine, il mal celato schema della conferenza entra prepotente nella politica con gli immancabili riferimenti ironici all’onnipresente Berlusconi: si cita “una storia italiana”, il rapporto pubblico/privato; si ironizza sull’assonanza tra la “casa sollievo della sofferenza” e la “casa delle libertà” e così via.

“Non ci dimentichiamo che padre Pio ha fondato la “Casa sollievo della sofferenza” (…) e non ci dimentichiamo che l’ha chiamata “Casa sollievo della sofferenza”, ora la “casa” ci ricorda la “Casa delle libertà” e questo personalmente non mi piace, però il sollievo della sofferenza è qualcosa che difficilmente non si può condividere.”

Che ci azzecca?
In realtà l’ordito che viene presentato è piuttosto chiaro e si allontana assai dal tema dichiarato (trovare esperienze emblematiche ed esemplari di ricerca storiografia): è l’espressione della lotta militante di una cultura laica decisamente stanca ed esangue.

“Ma veniamo al ciclo di quest’anno, si intitola tra le pieghe della storia, sono pochi exempla di temi e modalità di ricerca (…) la scelta è caduta su alcune esperienze che noi giudichiamo esemplari…”

Così si guardano i modelli della religiosità cristiana come modelli da imitare e da ripulire della loro scoria trascendente, superstiziosa e fideistica, cosa che inspiegabilmente non è ancora riuscita alla società secolarizzata di oggi. La quale invece sembra, con il berlusconismo, imitarne gli aspetti più esteriori ed esecrabili.
La lotta è dunque lunga, ma i suoi cultori non demordono, impegnandosi per la verità più a dissacrare che a ragionare, più ad insinuare il dubbio che a ricercare spunti per illuminare e capire la storia. Con nauseante ridondanza si afferma la propria incapacità di cogliere verità, si sbeffeggiano le certezze troppo simili a regolette che dovrebbero semplificare la storia, si ostentano dubbi e sospetti, più che domande, dietro ai quali poi si nascondono giudizi caustici e dogmatici su uomini, religione e politica.

A questo punto nasce spontanea una considerazione sul punto di domanda a fianco del titolo “Magistra vitae?”: se la storia non è maestra, l’alunno in fondo ha diritto all’autoapprendimento. E’ significativo che in questa foga distruttiva la prima vittima sia appunto la storia, nella sua specifica struttura epistemologica. Lo stesso Luzzato ammette di provare un senso di smarrimento e di oscurità che rende fosche le sue stesse tesi interpretative, cosa che non stupisce giacché si sostiene che solo chi è istintivamente nemico ed estraneo ad un evento, lo possa studiare con onestà intellettuale.

“(questa prospettiva) è tenebrosa perché alcune delle cose che io dico non le ho capite neanch’io, cioè. credo che lo storico abbia il dovere di cercare di porre delle domande e dare delle risposte, ma il primo dovere dello storico è quello di complicare le cose, starei per dire confondere le idee (…) Non è un caso che personalmente mi capiti molto più.”

Al contrario, l’esercizio proprio di ogni lettore di storia, oltre che dello studioso, è quello di immedesimarsi, simpatizzare, penetrare (entrare dentro) l’evento, sforzandosi di superare ogni barriera, compresa quella, a volte così complessa ma per questo ancor più affascinante, del tempo.

Ma questa, forse, è un’altra storia.

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