È sconvolgente questa semplice e poco conosciuta notizia diffusa da il sussidiario.net.
Un giovane dicissettenne torturato e ucciso in Arabia Saudita, la migliore alleata degli Stati Uniti e dell’Occidente della regione …
Si accusa l’ISIS giustamente di orrori e di inciviltà (senza seriamente intervenire e lasciando morire migliaia di persone inermi), ma nulla si dice di questo paese.
Allo stesso tempo, si induce in Occidente una paura indifferenziata e generica nei confronti dell’Islam, alzando barricate, le cui vittime sono semplici cittadini, uomini come noi, mentre rimangono indisturbati i fautori e finanziatori dell’odio, e propugnatori delle realizzazioni politiche islamiche più terrificanti.
Se occorrono tanti chiarimenti sulla questione gender, al di là delle rassicurazioni del ministro Giannini, qualche problema ci deve essere. È del 15 settembre appena scorso una circolare del MIUR che in sostanza ammonisce i Dirigenti scolastici a non confondere la difesa delle diversità, la lotta alla violenza sulle donne, ecc. con l’introduzione di “ideologie gender”. Vero che si afferma che si rende necessaria la precisazione a causa di comunicazioni massmediatiche non corrette. Troppe grida, poco informate e poco serie – diciamoci la verità – sono emerse dal mondo cattolico in tal senso (complici i social e WhatsApp). Ma è altrettanto vero come si sia assistito in questi anni ad una strana e inopportuna “caccia all’omofobo” (sport particolarmente attraente per qualcuno, se poi il presunto omofobo è cattolico) o all’introduzione di iniziative a dir poco ambigue.
La Giannini, ammonisce:
La finalità del suddetto articolo (ndr: la circolare per intero è consultabile sul sito del mistero) non è, dunque, quella di promuovere pensieri o azioni ispirati ad ideologie di qualsivoglia natura, bensì quella di trasmettere la conoscenza e la consapevolezza riguardo i diritti e i doveri della persona costituzionalmente garantiti”.
E tuttavia episodi quali quelli sopra genericamente citati, tra cui anche l’introduzione di schede dove scompare la denominazione “padre” e “madre”, al posto di “genitore A” e “B”, fanno essere particolarmente sospettosi.
In particolare, la direzione che spesso viene a realizzarsi pare essere il contrario di quanto la legge intende stabilire. In nome di una difesa del diritto a vivere la propria sessualità in chiave non convenzionale, si assiste infatti ad una sorta di livellamento della dimensione della mascolinità e della femminilità. È sacrosanta la difesa del diritto alla differenza (e dunque anche della scelta di vivere la propria sessualità secondo la propria indole), laddove questa non tocchi dimensioni più alte (diritto dei figli, ad esempio). Tuttavia questa difesa non si ottiene azzerando le differenze. Risulta persino lapalissiano: per difendere le differenze, occorre non eliminare le differenze (come invece la scheda di fatto compie).
La Giannini ha ragione nel dire che le disposizioni della Buona scuola non introducono ideologie gender, e pur tuttavia dentro le tante, a volte fumose definizioni espresse, si possono insinuare percorsi ambigui e ambivalenti, da parte di chi scalpita (e sono tanti) perché questa ultima battaglia, così alla page, si realizzi (giacché purtroppo solo di questo si tratta, più che non di reale coscienza civica sensibile a fasce sociali o culturali non tutelate).
Nella circolare, in realtà vi sono spunti interessanti (in mezzo a tante considerazioni che lasciano trapelare un campo di battaglia apertissimo, rispetto al quale chi lo sta combattendo più tenacemente ci sta dicendo che non c’è nessuna teoria gender, nessuna battaglia, nessun problema… Insomma,” Va tutto bene!”, – come in film americano, o come direbbe un politico per rassicurarti e…)
Gli spunti interessanti sono in particolare due.
Da una parte, come si diceva, si riconosce con forza il diritto alla differenza e alla propria identità. E nelle citazioni, emerge certamente la questione femminile (violenza e discriminazione), la questione relativa alla differenza sessuale, ma emergono anche le differenze di ogni tipologia, tra cui quelle culturali e quelle religiose. E si parla esplicitamente di ebraismo, di islamofobia e (finalmente) anche di cristianofobia.
Infine, connessa e a integrazione delle azioni di cui sopra, è la Collaborazione con l’Alleanza Europea per il contrasto all’“Istigazione all’Odio” (in sede internazionale “Hate Speech”). L’istigazione all’odio, così come definita dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa è espressione di tutte le forme di diffusione ed incitazione all’odio razziale, alla xenofobia, all’antisemitismo e ad altre forme di intolleranza, espressione di nazionalismi, discriminazione nei confronti di minoranze, di migranti. Altre forme di discriminazione sono la misoginia, l’islamofobia, la cristianofobia e tutte le forme di pregiudizio circa l’orientamento sessuale e di genere.
È un passaggio importante, per quanto riferito soprattuto al richiamo del Consiglio europeo, perché nelle nostre scuole e nella nostra società i tratti di una profonda cristianofobia sono ben evidenti. Tratti evidenti di un’intera società sempre più in conflitto (un conflitto che ha un sapore quasi psicoanalitico ed edipico) con le proprie radici. Talvolta questi atteggiamenti diventano invasivi e preoccupanti. Occorrerà essere consequenziali anche su questo punto, oltre che sugli altri.
Il secondo passaggio importante è quello finale. Dopo aver richiamato il ruolo decisivo dei genitori nella scelta dell’educazione da impartire all’interno dell’istituzione (e dunque un obbligo di informazione e di consultazione, oggi spesso purtroppo disatteso per disattenzione anche da parte delle famiglie), si dice:
“le famiglie hanno il diritto, ma anche il dovere, di conoscere prima dell’iscrizione dei propri figli a scuola i contenuti del Piano dell’Offerta Formativa e, per la scuola secondaria, sottoscrivere formalmente il Patto educativo di corresponsabilità per condividere in maniera dettagliata diritti e doveri nel rapporto tra istituzione scolastica autonoma, studenti e famiglie”.
Questa opportunità offerta ai genitori, consentirà di scegliere la scuola dei propri figli dopo aver attentamente analizzato e valutato le attività didattiche, i progetti e le tematiche che i docenti affronteranno durante l’anno che, in ogni caso, dovranno risultare coerenti con i programmi previsti dall’attuale ordinamento scolastico e con le linee di indirizzo emanate dal MIUR.
È qui torna l’annosa questione dell’autonomia delle scuole. In una struttura come quella attuale, con scarsi o inesistenti elementi di autonomia delle scuole, (mancanza dovuta in primis dall’impossibilità di reclutare il corpo docenti in maniera libera e flessibile), i genitori non hanno reale possibilità di scelta. Troppo spesso i piani di offerta formativa sono documenti poco esplicativi delle linee educative che la scuola intende portare innanzi. E tutto si risolve in una firma di carattere burocratico, apposta distrattamente dai genitori, alla faccia delle buone intenzioni della Buona scuola.
Occorre una svolta più coraggiosa, per cambiare la scuola. Una svolta più democratica dove valori e proposte educative si possano confrontare in un sano confronto (ed anche competizione), senza tentazioni di imposizioni ideologiche.
Sono allergico alle feste, ai convenevoli, a tante cose… Per cui il mio compleanno lo dice Facebook, mentre io di solito lo taccio.
Devo però riconoscere che l’augurio di un caro amico, Francesco Giuseppe Pianori, mi ha fatto lasciare tutto e mettermi a scrivere qui.
Ecco cosa ha scritto sulla mia bacheca Facebook:
Auguri di Buon Compleanno, Emanuele. “E mentre, lieve, l’ombra cede al chiaror nascente, fiorisce la speranza del Giorno che non muore” Passano gli anni, si susseguono i giorni e il compimento si avvicina. Il tempo non ci è nemico…
Un inno che ho recitato mille volte durante le Lodi, ma che non ho mai pensato di correlare a quel segno del passare degli anni che è il compleanno.
È proprio vero, il tempo non ci è nemico, è l’approssimarsi del compimento. “Noi siamo fatti per conoscere chi ci ha fatto”, cosa mai può farci paura? E posso dire con orgoglio che adoro invecchiare, mi piace percorrere questa strada, più in fretta possibile, certo della meta e gustando ogni passo, anche quelli dove inciampo brutalmente.
E così anche scorrere semplicemente le centinaia di auguri sulla bacheca, uno ad uno, alcuni di sconosciuti, altri di carissimi amici, tanti dei propri alunni, fa percepire (grazie al post di Pianori) la verità di quelle parole del don Gius, dedicate al suo amico Angelo. L’unico vero significato lieto del festeggiare il proprio compleanno.
«Carissimo, è la prima volta ch’io ti faccio gli auguri per il tuo compleanno. È la prima volta che ne so la data. E nel compiere questo lieve atto di amicizia provo una gioia così grande, ch’io mi meraviglio di me stesso. Immagini se tu non fossi nato, quale meravigliosa cosa di meno ci sarebbe al mondo? Una meravigliosa cosa che c’è perché è tutta un dono. Il compleanno è il giorno in cui fisicamente si sente l’amore di Dio che ci ha fatti, potendoci non fare: «prior dilexit nos»: ci si sente «fatti», con stupore. È il giorno in cui si adora nostro papà e nostra mamma: lo strumento sensibile. Crea tante altre cose meravigliose! È un augurio così violento, quasi lo facessi a me stesso. Sento la tua gioia, di trovarti tra i tuoi monti. Auguri anche di goderti tanto anche questi».
C’è qui tutto il segreto del fascino della filosofia che insegno; mi sovviene la scoperta della nozione tomista dell’ esse ut actus, della perfezione dell’essere nel suo semplice porsi, una ricchezza infinita nel semplice atto di esistere.
Lieti perché ci siamo. Ecco perché è bello farsi gli auguri.
Ha fatto discutere al Meeting un’affermazione forte di padre Douglas, il quale, in sostanza, ha identificato l’Islam con il “male”. In particolare risulta decisamente stridente, se messa a confronto con il resto della sua testimonianza e poi con la testimonianza di padre Ibrahim. L’espressione è stata commentata dal moderatore don Stefano Alberto (don Pino), che ha sostenuto “noi sappiamo che occorre distinguere, lo dico pensando ai miei grandi amici musulmani, ai tanti uomini di buona volontà…”, rispetto al qual commento padre Douglas ha applaudito, confermando il cuore del suo intervento: non l’amarezza e la distinzione (per quanto forti e sbattute in faccia a noi per una giusta provocazione a vincere l’indifferenza), bensì altro, come si può ben ascoltare dal video dell’incontro che vi propongo qui sotto (Padre Douglas dice esplicitamente “non voglio incitare all’odio contro l’Islam”). Medesimo contenuto che poi, con toni differenti, ha espresso padre Ibrahim.
Nessuno ha chiuso gli occhi di fronte alle violenze inaudite che islamici stanno perpetrando, ma nessuno se ne è lasciato determinare, in un gioco perverso di contrapposizione, di causa ed effetto, che non può che alimentare l’orrore, vero obiettivo dell’Isis, come di Al Qaeda e ancora prima dei Talebani (tutti abbondantemente finanziati o “tollerati” dall’Occidente laico ed economicamente rilevante, mentre scorreva il sangue di cristiani ed islamici, vittime innocenti dell’orrore).
Una sottile, ma resistente, cecità potrebbe farci indugiare su quella semplificazione (del tutto comprensibile e che porta un suo richiamo importante), che invece in alcun modo deve indurci a contrapporre ad un banale “dialogo tra idee”, un altrettanto banale “scontro tra idee”. Occorre sostare sul punto centrale dell’incontro: la possibilità di un confronto reale tra uomini diversi. È, d’altro canto, questa tutta l’esperienza del Meeting fin da quando è nato nel 1980 e non per nulla si chiama Meeting per la pace e l’amicizia tra ipopoli. Fin dall’inizio, proprio anche grazie ai rapporti nati col don Gius, furono invitati buddisti, protestanti, islamici, ebrei, ecc….
Qualcuno invece oggi sostiene, anche sulla stampa e in forma autorevole, che il Meeting abbia intrapreso una linea “buonista e dialogante”. Ma è solo un “non vedere” che porta a giudizi così superficiali.
Per capire il passo compiuto dal Meeting, che va nella direzione di un approfondimento e di una conferma delle sue origini, è bene tornare all’articolo pubblicato da don Carron su Corriere della Sera all’indomani dei fatti tragici di Charlie Hebdo. Carron scriveva: “Quando coloro che abbandonano le loro terre arrivano da noi alla ricerca di una vita migliore, quando i loro figli nascono e diventano adulti in Occidente, che cosa vedono? Possono trovare qualcosa in grado di attrarre la loro umanità, di sfidare la loro ragione e la loro libertà? Lo stesso problema si pone in rapporto ai nostri figli: abbiamo da offrire loro qualcosa all’altezza della domanda di compimento e di senso che essi si trovano addosso? In tanti giovani che crescono nel cosiddetto mondo occidentale regna un grande nulla, un vuoto profondo, che costituisce l’origine di quella disperazione che finisce in violenza. Basti pensare a chi dall’Europa va a combattere nelle file di formazioni terroristiche. O alla vita dispersa e disorientata di tanti giovani delle nostre città. A questo vuoto corrosivo, a questo nulla dilagante, bisogna rispondere”.
Le prime parole che mi sono state raccontate dell’incontro sono state “ha vissuto la violenza, teste mozzate, donne uccise, e sotto il regime dei talebani, questo diventava uno spettacolo allo stadio e a nessuno – nemmeno lui – si ribellava. Lui vi partecipava. Poi, vinto dal dolore e dalla paura, è venuto in Italia pieno di pregiudizi contro gli infedeli, ma ha visto qua un modo diverso di vivere. Ci ha raccontato di una vacanza con un suo compagno di corso (scuola militare) e con la sua famiglia e del rispetto per lui. Poi ha incontrato un prete, infine ha incontrato gli amici della scuola di comunità, ha conosciuto chi era Giussani…”.
Lui è (e resta) musulmano, ma la sua vita è cambiata perché il suo animo si è ribellato a quel dolore e perché ha incontrato un’umanità diversa. L’ha incontrata in famiglie e amici cristiani. Ed ora lotta contro ogni fondamentalismo. Troppo poco? Appare tale, ma qui, e solo qui, c’è la radice, fragile ma efficace, per un cambiamento, per una vita nuova. In primis per quei duecento giovani che lo hanno ascoltato in vacanza a La Thuille e si sono accesi perché hanno visto come Cristo possa cambiare il cuore di un uomo, qualunque fede e posizione umana abbia. Nulla è impossibile, nemmeno che un cuore segnato dall’odio cambi.
Incuriosito, ho trovato questo articolo di Tempi, dove Farad mette a fuoco l’ipocrisia di questi regimi ultrareligiosi, e ben si evince che il problema consiste non in “troppa” religione (islamica in questo caso) ma in “poca” e distorta. Ho trovato anche un’intervista televisiva a Farhad che riporto qui sotto. Farhad mette a fuoco anche l’origine del suo cambiamento e i toni si assimilano a quelli che ho sentito raccontare dai ragazzi riminesi.
Si può continuare a discutere se esista un Islam buono o se vi sia solo un Islam cattivo, se sia riformabile oppure no… Ma questo è un problema loro. Il problema nostro è essere noi stessi. Anzi riscoprire noi stessi perché, come popolo e come singoli, ci siamo persi.
Lasciarsi colpire da questa vita nuova, che ha affascinato quegli amici musulmani, e viverla così pienamente da renderla contagiosa. Non solo. Non abdicare nella vita civile, lottare, dove e quando si può, perché l’Europa resti ancorata a quell’origine pienamente umana e cristiana, da cui è nata. Questo il grande compito di oggi. Qui rinasce quella civiltà che ha colpito Farhad mediante la vita quotidiana di un amico, di tanti amici.
Ps: “Nulla è impossibile” è l’esaltazione della categoria della possibilità, ovvero della razionalità intesa come capacità di apertura (e di lettura corretta) di fronte alla realtà. Quei ragazzi hanno fatto un’esperienza di profonda razionalità, incontrando un uomo. Torneranno scuola con una marcia in più, se manterranno viva questa esperienza.
Pps: Spulciando l’archivio, poco dopo aver scritto questo articolo, ho trovato questa pagina della Voce , che avevo curato. Era il 4 novembre del 2010 e si era appena concluso il Meeting tenuto al Cairo da amici mussulmani. Cliccate qui.
Qualche giorno fa, ha fatto scalpore la notizia della denuncia di una donna bianca dell’Ohio, unita con la sua compagna, per aver ricevuto lo sperma di un afro-americano, anziché, come richiesto, di un donatore caucasico. Come spiega il Corriere della Sera, un banale errore nella lettura del numero che la banca del seme ha commesso insensatamente (fialetta 330, al posto della fialetta 380). Un banale errore di lettura…
Jennifer Cramblett e Amanda Zinkon avevano trascorso un anno a scegliere il donatore per poter diventare genitori e la scelta era caduta proprio su un uomo bianco perché le due donne vivono in una cittadina poco tollerante con gli afro americani, dove i bianchi rappresentano il 98% della popolazione. Attendevano una bimba bionda con gli occhi azzurri, ma è nata una bambina di razza mista
Ma la vicenda, che ha risvolti – è inutile negarlo – che lasciano affiorare uno strisciante e capillare razzismo tale da far rabbrividire (ambiente bianco, disagio nell’allevare un bimbo nero, e via dicendo), per quanto le due donne affermino che amano la loro bambina, nasconde aspetti ben più importanti.
Vi è uno stridore, uno senso di spaesamento che non va censurato.
Al di là di come la si pensi su questi temi, occorre chiedersi se non vi sia un vizio d’origine, un più radicale equivoco, un’insufficienza di ragioni e di verità nelle scelte, nelle strutture, nell’intera dinamica messa in atto da questo nuovo settore dell’industria medica.
Domandiamoci: ma è giusto selezionare il seme – e dunque l’aspettativa delle caratteristiche del figlio – nel modo che mostra l’immagine qui sotto? Non vi è forse qualcosa che non torna e che non c’entra nulla con la maternità e la paternità? Il figlio, questo mistero che non dipende da me, che non è frutto della mia biologia, ma esito totalmente imprevisto, quand’anche atteso, del mio amore per una donna (che non è come mi aspettavo, che compare nella vita come un elemento del tutto nuovo all’orizzonte), è ancora lì, davanti a me, capace, con la sua novità assoluta e incontenibile, di ridare speranza alla nostra vecchia civiltà?
Lo vedo ancora, offuscato dal mercato delle banche del seme?
I nostri figli non ci appartengono, sostiene la saggezza popolare (sono un dono del cielo, dicono i vecchi), e Gibran utilizza la metafora poetica dell’arco e della freccia.
I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie dell’ardore che la Vita ha per sé stessa.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e non vi appartengono benché viviate insieme. (…)
Voi siete gli archi da cui i vostri figli come frecce vive,
sono scoccati lontano.
Queste news diventeranno sempre più frequenti, così come le pratiche sempre più sbrigative. Entrambe denunciano un deficit che sta all’origine. È una carenza ontologica, una mancanza di senso, un vuoto dell’Essere, che non può essere colmato in questo modo.
È cercare dove non si trova, evitare la ferita lacerante e dolorosa di una mancanza che – proprio essa, che noi disdegnano – è l’unico punto di speranza per un nuovo inizio.
Si può discutere su tutto. Si può partire (e finir chiusi lì) da scontri di idee e di opinioni. Ma il Meeting come l’ho vissuto io, fin dal 1980, il primo, è sempre stato il realizzarsi di qualcosa di impossibile, la sorpresa di una umanità rinata e che prende forme inaspettate. È quanto poi ho sempre scritto sul tema, ogni qual volta ne ho avuto occasione (come ad esempio nel 2010)
Fermarsi al cambiamento delle forme oggi, a mio modesto avviso, sarebbe ben poco segno di saggezza e di “giudizio culturale”, (pur così tanto millantato).
Al Meeting ho imparato che la verità è sempre un avvenimento... e questo non è mai venuto a meno.
Questo articolo di Tracce supera tutte le discussioni che, come ogni anno, si sviluppano intorno all’evento. Per comodità lo riproduciamo qui di seguito. È la storia di Alejandra, volontaria del Meeting, intervistata anche alla Rai (vedi qui il servizio)
«Vado lì, al compimento della vita»di Alessandra Stoppa 07/09/2015 – Meeting 2015, pranzo dell’ultimo giorno. Tutti a tavola per un’amica: Alejandra. Due settimane di lavoro volontario, un tumore incurabile e un’inspiegabile gioia di vivere. «Sono qui per sperimentare la gratuità. La cosa più simile al divino»
Ultimo giorno di Meeting. Ora di pranzo, nella mensa dei volontari. Alla tavolata si continuano ad aggiungere posti, fino a che non c‘è più spazio e si fanno doppie file. Ogni volta che arriva qualcuno, Alejandra, emozionata come una bambina, chiede di presentarsi. Nessuno conosce nessuno. C’è un solo punto in comune, ed è lei, che i più hanno incontrato da pochi giorni o da poche ore. La bellezza di Alejandra, la sua letizia, li ha convocati tutti qui senza calcolarlo. Al pranzo gente che non si è mai vista racconta la propria storia, canta, domanda, s’interessa all’altro con una familiarità che non si spiega e fa dire all’ultima arrivata, rimasta in piedi e di sasso: «Questo è il Paradiso».
Alejandra Diez Bernal, 48 anni, di Madrid, ha lavorato gratis al pre-Meeting, occupandosi dell’accoglienza dei volontari, e poi ha continuato a servire tutta la settimana, in mezzo alle altre duemila maglie blu. Lei scoppia, brilla di vita. «Forse questa è la mia ultima estate. E quel che volevo era venire al Meeting. Poter aiutare a costruirlo». Da più di un anno è malata di un sarcoma sinoviale, un tumore raro e aggressivo.
«Perché sei al Meeting?», le ha chiesto a metà settimana una giornalista tv: «Credo che la risposta più giusta sia perché Dio vuole». Ha in testa le parole della presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, nell’incontro con i volontari: «La coscienza giusta per stare qui è la gratitudine a Dio di poterci essere, perché non si può darlo per scontato». «Per me è proprio vero», dice Alejandra. L’anno scorso aveva già i biglietti per partire, quando le hanno trovato una metastasi al polmone e ha dovuto subito iniziare la chemioterapia. «Poi sembrava che il tumore si fermasse, invece no, è andato avanti. Così anche quest’anno, fino all’ultimo, non sapevo se sarei potuta partire. Allora, davvero, ogni istante sono cosciente di essere qui perché Dio vuole. E questa è la prima ragione, la ragione principale».
Alejandra lavora nella finanza, è una funzionaria del Governo di Madrid, in un ambiente dove la competizione è molto alta. Il lavoro da volontaria è stato, come dice lei, «un cambio di chip»: «Il mio modo di vivere non era per nulla gratuito. Al Meeting scopri quanto sia grande sperimentare la gratuità, perché è la cosa più simile al divino: Dio dà tutto».
Solo pochi mesi fa, non era così felice. Non voleva parlare della sua malattia, non voleva nemmeno che gli amici le facessero domande. Ma a maggio, durante gli Esercizi spirituali della Fraternità di CL in Spagna, un incontro le ha cambiato la vita. Un dialogo con don Julián Carrón, che racconta così: «Vado da lui e gli dico: “Carrón, sono Alejandra, non mi conosci ma voglio dirti che sono molto grave…”. E mi sono messa a piangere. Lui mi risponde: “E qual è il problema?”. Io ho pensato che non capisse più lo spagnolo. Gli ho ridetto: “Carrón, sto per morire, e ho molta paura…”. Lui, guardandomi negli occhi, con uno sguardo pieno di pace, mi dice: “Alejandra, qual è il problema? Tu vai al compimento della vita. Tu vai prima di noi, sei davanti”. E poi aggiunge: “Io verrei con te, ora”. Io lì ho visto che per lui era vero, che diceva la verità. Ero sotto shock, perché mai nessuno mi aveva parlato così. Tutti mi dicevano: “Non ti preoccupare, tranquilla, la scienza va molto veloce…”. Era la prima volta che incontravo qualcuno che era la Resurrezione fatta carne, e che mi diceva: “Alejandra, siamo stati creati per andare lì”».
Guarda il titolo del Meeting, che è scritto ovunque in Fiera: «Io ho incontrato un uomo che ha un desiderio grande, un desiderio che coincide assolutamente con quella domanda: “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?”. Ho visto un amico che vuole veramente “andare lì”, al compimento della vita. Per lui la mancanza è di vedere Dio. Noi possiamo fare tutto, passare la vita, dimenticandoci di quel che è vero. Ed io per questo sono venuta al Meeting: per collaborare a costruire questa cattedrale che mi aiuta a vivere».
Un consiglio: dopo aver letto, ascoltare, con calma, questo pezzo dei Mumford & Son. Chiude dicendo “sei fatto per conoscere chi ti ha fatto”. Al Meeting è carne… non solo poesia.
PS: personalmente lavorare e presentare in questi mesi (e al Meeting) gli scritti di Marta e vedere come la vita le fiorisca attorno, non solo allora, mentre malata scriveva, ma ora, a 5 anni dalla sua morte, fa dire lo stesso dell’amica Alejandra. E in tanti amici possiamo dire di vedere la medesima realtà davanti ai nostri occhi. Torneremo presto a parlare di tutto ciò.