Il cuore vuoto e il cuore chiuso

Il Meeting 2017 procede nel cammino verso l’approfondimento del carisma di Giussani, riconosciuto sempre più decisivo per approcciarsi al presente. Un carisma, che, come ben delinea la mostra – brevissima ma di notevole chiarezza – che si trova sul retro del banco dell’ International Meeting Point, non coincide con alcune “forme di presenza” o alcuni giudizi ma con l’immedesimazione completa, totale e appassionata con Cristo, vissuto come “stoffa dell’essere”, come radice di cui ogni cosa vive. E dunque fonte di giudizio libero e appassionato su tutto.

Un giudizio che si compie grazie all’aiuto dell’ “altro”, del diverso, di colui che non ti aspettavi.

Questa libertà è quanto Giussani ha vissuto ed ha tentato di insegnarci. Una libertà che nasce da una dimensione di rapporto con il Mistero, quasi fosse una “mistica” incarnata nella storia.  Non a caso, il momento topico del meeting 2017 può essere identificato, ad oggi, nell’incontro tra due monaci, ovvero due uomini che di mistica se ne intendono. Ebbene in questa “mistica” si può trovare la radice per una nuova passione per la Polis, una passione capace di superare vecchie forme, lontane davvero un millennio.

Lunedì scorso si è parlato dell’amicizia tra don Giussani e Abukawa, il monaco buddista del Monte Koya, il più profondo centro spirituale del Giappone (interessante leggere l’articolo sul Quotidiano Meeting dove un’appassionata orientalista scopre casualmente che nella sua Rimini sarebbe venuto colui che, per incontrarlo, dovette raggiungerlo in Giappone, dove peraltro aveva trovato misteriosamente le stanze costellate di foto del Meeting di Rimini). Quel Giappone così ostile ai valori cristiani, come ci è stato ricordato dal film Silence recentemente. È proprio con Abukawa che oramai da trent’anni nasce e si conserva un’amicizia profonda e intensa, per nulla limitata dalle “differenze culturali”.

L’incontro del 21 (lunedì scorso) tra l’abate generale dei Cistercensi, Mauro Giuseppe Lepori, e Shodo Abukawa – Lepori ha ereditato tale amicizia da don Giussani – è stato un approfondimento eccezionale di qual sia il compito del cristiano, di fronte alle sfide del nuovo millennio.

Liberi da ogni formalismo, hanno pregato assieme (in una forma rispettosa del credo di ognuno, senza sincretismi), hanno relazionato e testimoniato il valore di un incontro tra uomini che si fonda sul comune rapporto con il Mistero, come bene ha sintetizzato Alessandro Caprio sul Quotidiano Meeting (pag 1 e pag. 3). (Ma è assolutamente imperdibile la visione dell’intero incontro cliccando qui.)

In particolare Lepori ha posto alcune sottolineature che risultano decisive per il futuro della Chiesa e dell’uomo contemporaneo, così restio ad abbracciare una tradizione che considera un peso, un intralcio, una sorta di residuo che funge da zavorra nel suo confuso errare verso una realizzazione, che pure gli appare sempre più una chimera. Giudizi che possiamo considerare sciagurati, e che tuttavia stanno lì, inamovibili e rocciosi. Tanto più rocciosi, quanto più l’uomo, ferito, sanguina e ansima, straziato dal dolore di un’esistenza che appare sempre più vuota. Eppure, sempre più chiaramente, questa situazione emerge come una grande risorsa, da cogliere per il bene di tutti.

Lepori ha letto il contenuto di una calligrafia, realizzata da Abukawa e portata a lui in dono, in cui si afferma una vecchia espressione di Kobo-daishi, il fondatore del Buddismo Shingon: “Tutti quelli che vanno a trovare un grande maestro o una persona virtuosa, hanno il loro cuore vuoto. Ma grazie all’incontro con lui, tutti saranno salvati e torneranno sulla strada di casa con il loro cuore pieno di soddisfazione”.

Lepori ha colto, a partire di qui, la grande dicotomia che abbiamo di fronte oggi. Oggi si tratta di scegliere, se avere “un cuore chiuso o un cuore vuoto” (Lepori ha più precisamente detto che “l’alternativa a un cuore vuoto è un cuore chiuso”).

Questa espressione, lapidaria e fulminante, nasconde un chiarimento essenziale di fronte a  tutta la fatica della chiesa e dell’uomo di oggi. Il grande compito rispetto a cui il papa sta incoraggiando instancabilmente  l’umanità intera. Esortazione che lo rende l’unica autorità morale del presente, come più osservatori hanno affermato.

La via di uscita, oggi, non è un cuore pieno. Bensì sostare sul quel vuoto, non temerlo, condividerlo con l’uomo d’oggi, cercare chi avverte questo smarrimento di fronte al Mistero, per ritrovarsi di fronte alla dimensione ultima della vita, sostare di fronte a quel Tu che unico può riempire la vita (Giussani ci insegnò: “Io sono Tu che mi fai”).

Se non raggiungiamo questo livello ultimo e profondo (per questo si parlava di mistica, non si fraintenda con uno spiritualismo), oggi nessuna risposta “della terra di mezzo” può apparire significativa. Il cristiano, come d’altro canto ha ben chiarito Costantino Esposito con il suo momento “Profeti del nostro tempo”, ha l’occasione di comprendere più pienamente la sua fede, potremmo dire se stesso, la propria identità (che non si identifica con quanto già costruito, ciò di cui Vittadini in maniera provocatoria ha detto di “non sapere che farsene”) in un mondo che crolla. Il nichilismo dell’uomo contemporaneo, vissuto come grido, è la grande opportunità perché l’uomo torni a vedere Cristo, e non sue propaggini, sue conseguenze, sempre e comunque insufficienti.

Seguendo la suggestione di Lepori si può dire che fare cultura oggi (rendere la fede cultura) è soprattutto costruire “relazioni che rendano eterne quelle costruzioni” (di mura, di idee, di valori) che la storia sta spazzando via. Costruire ciò che le rende eterne, cosicché quand’anche venissero spazzate vie le idee, le mura, i valori, nulla cambierebbe perché ne sarebbe mantenuta l’origine. Si comprende bene il carattere invincibile di tale posizione. Quand’anche l’ISIS facesse crollare San Pietro, non saremmo perduti, se (e solo se) vivremo questa dimensione.

È la strada. La nuova ed antica strada, in un momento di ricostruzione di civiltà (una ricostruzione i cui frutti probabilmente, in termini di “strutture” la nostra generazione non vedrà, come d’altro canto la generazione di S.Agostino non vide la societas christiana ).

È decisamente un approfondimento notevole, che chiarisce, distilla, precisa tutta la vita di CL, riprendendo tutti gli instancabili interventi del Gius per correggere un percorso che oggi si adagia con sempre maggiore docilità sulla linea maestra dell’esperienza viva e sorgiva nata da lui, dopo tanti “tentativi ironici”, preziosi ma per definizione da definire e correggere sempre. Oggi più che mai.

Possiamo dire che dalla “mistica” di Lepori (e Abukawa) e dal “cuore francescano” di Pizzaballa (che ha approfondito il tema del Meeting), nasce un nuovo impegno nel mondo, una nuova passione per la Polis, resa possibile da quell’agilità del cuore (espressione sempre di Lepori, in un successivo dialogo) che può rendere il nostro impegno libero di riconoscere i bisogni dell’oggi, in quanto libero da qualsivoglia schema. È quella ingenua baldanza che il Gius ci ha insegnato e che oggi riguadagniamo, scoprendoci con il cuore vuoto e ferito (come d’altro canto ogni uomo del XXI secolo) di fronte al grande Mistero che costituisce ogni cosa e che prende forma in maestri, talora impensati, talora perfino lontani, e diventa via e metodo nel grande alveo della nostra madre Chiesa.


Un Meeting che ci immerge in un tempo appassionante, dove la sfida è già vinta, ma tutta da riguadagnare.

Un Meeting dove il “popolo di Cl” in maniera massiccia comprende le nuove sfide, come attesta la presenza selettiva agli incontri che toccano questi nodi decisivi. All’incontro con Lepori la sala non ha potuto contenere la folla, che ha riempito all’inverosimile anche la Hall Sud, mentre le visualizzazioni su Youtube già hanno raggiunto  ben 2.800 visualizzazioni. Allo stesso modo, ed anzi superiore, una folla sterminata era presente all’incontro con Pizzaballa, anche qui ben oltre la capacità di contenimento della sala, a cui si aggiungono 5450 visualizzazioni su Youtube.

Da questo Meeting esce un popolo pronto e sensibile alle sfide del cambiamento d’epoca.


 

Meeting 2017: la riscoperta del proprio inizio

Papa Francesco ha descritto, in anticipo, l’effettiva prima giornata del Meeting 2017. Così si legge nel suo discorso di saluto:

Come evitare questo “alzheimer spirituale”? C’è una sola strada: attualizzare gli inizi, il “primo Amore”, che non è un discorso o un pensiero astratto, ma una Persona. La memoria grata di questo inizio assicura lo slancio necessario per affrontare le sfide sempre nuove che esigono risposte altrettanto nuove, rimanendo sempre aperti alle sorprese dello Spirito che soffia dove vuole.
Come arriva a noi la grande tradizione della fede? Come l’amore di Gesù ci raggiunge oggi? Attraverso la vita della Chiesa, attraverso una moltitudine di testimoni che da duemila anni rinnovano l’annuncio dell’avvenimento del Dio-con-noi e ci consentono di rivivere l’esperienza dell’inizio, come fu per i primi che Lo incontrarono.

(…)

Quello sguardo sempre ci precede, come ci ricorda sant’Agostino parlando di Zaccheo: «Fu guardato e allora vide» (Discorso 174, 4.4). Non dobbiamo mai dimenticare questo inizio. Ecco ciò che abbiamo ereditato, il tesoro prezioso che dobbiamo riscoprire ogni giorno, se vogliamo che sia nostro. Don Giussani ha lasciato un’immagine efficace di questo impegno che non possiamo disertare: «Per natura, chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita […]. Ma, a un certo punto, la natura dà al bambino, a chi era bambino, l’istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi. […] Deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto! Se non diventa problema, non diventerà mai maturo […]. Portato il sacco davanti agli occhi, […] paragona quel che vede dentro, cioè quel che gli ha messo sulle spalle la tradizione, con i desideri del suo cuore: […] esigenza di vero, di bello, di buono. […] ,Così facendo, prende la sua fisionomia di uomo» (Il rischio educativo, Milano 2005, 17-19).

È la descrizione di questa prima giornata di Meeting, dove si rinnova lo stupore per una compagnia capace di generare giudizi nuovi e dotati di realismo. Giudizi da parte di chi ama la realtà e non la piega a giudizi preconfezionati.

Così, in particolare Luciano Violante, nel suo intervento delle ore 19, ha ribadito per ben due volte la sua stima e ammirazione per questa “strana compagnia”. Dapprima sostenendo che il Meeting è rimasto l’unico luogo dove si può parlare confrontandosi su valori, ovvero mettendo in gioco ideali che valgono per la vita (“confrontarsi e costruire tra persone diverse è uno dei grandi risultati del vivere”).  Poi, interrompendo il suo discorso ampio e articolato su democrazia e cambiamento d’epoca, affermando: “Vedete, voi siete una cosa straordinaria, perché siete una comunità (…) non avete delegato la vostra vita a un terzo, siete voi i protagonisti”. 

È notevole, e sorprendente, questo incontro di un uomo che, proveniente dalla tradizione della sinistra (e precisamente comunista, una provenienza che ben si avverte nelle sue analisi, alcuni profonde e geniali, altre che possono essere discutibili), trovi realizzato il suo desiderio di costruire una socialità nuova nella compagnia cristiana, riconoscendola come unico luogo rimasto oggi capace di questa coesione, di questo comune sentire in cui ognuno può essere protagonista. È impressionante la cordialità genuina con cui Violante parla ai giovani e meno giovani di questo popolo, in particolare nei momenti informali, come è accaduto oggi (quasi per caso) con una decina di riminesi, dimenticando lo scorrere del tempo e gli impegni precedentemente presi. Una forma di incontrarsi che è consueta al Meeting, che ne costituisce la sua stessa storia.  Una storia costellata di questi grandi incontri tra diversità che si scoprono vicine e cordiali (per citarne alcuni: Tarkovskij, Evtuschenko, Testori, i monaci buddisti, Joseph Weiler,  Wael Farouq, Bertinotti, Violante).

È un Meeting che non si sottrae alle sfide dell’oggi, come accaduto durante l’incontro sull’intelligenza artificiale e sulle sue affascinanti e inquietanti prospettive. Un Meeting che si confronta con l’attuale governo, portando il primo ministro Gentiloni a slanci di orgoglio nazionale di non poco conto e di cui occorre ritrovarne il significato più autentico (e non semplicemente retorico).

Il Meeting c’è e ripropone l’autentico messaggio cristiano, ovvero quello di un amore sconfinato per la realtà intera, senza alcuna pregiudiziale ma con la certezza che Cristo salva.

Domani, lunedì, (oggi per chi legge), tra i 4 o 5 eventi che personalmente giudico di rilievo, il must  sarà l’ incontro tra l’abate Lepori e il monaco buddista Shodo Habukawa (vedi programma). Un’antica amicizia tra persone di differente cultura, iniziata con don Giussani e oggi più viva che mai.

Buon Meeting!

Barcellona, il Meeting e quel che accende la speranza

Il terrorismo è tornato a colpire. Siamo alla vigilia di un evento, qual è il Meeting di Rimini,  che da quasi 40 anni si colloca al centro della storia e dei cambiamenti epocali che hanno contraddistinto questo passaggio di millennio. L’inizio della settimana riminese non può non essere segnato dalle domande, dalle inquietudini, dal bisogno di trovare una strada che gli eventi di Barcellona sollevano.

In uno scambio di battute tra amici, in margine alla pubblicazione del breve ma significativo volantino di Comunione e Liberazione uscito dopo l’attentato di Barcellona, riferendosi al passo, “È più che mai necessario testimoniare l’amore alla vita che abbiamo conosciuto”, Marco ha esclamato: “è il motivo per cui continuiamo a fare il Meeting”.
Credo che nella semplice battuta di Marco ci stia tutto il Meeting. Una dimensione ancora oggi così ignota a tanti, anche assai prossimi all’evento riminese, da scoprire e riscoprire (parafrasando il titolo del Meeting: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”).

È l’origine del Cristianesimo. È l’origine del movimento di CL, nella figura oggi più che mai attuale di don Giussani. È quella  instancabile e indistruttibile passione per la vita e per la realtà, senza infingimenti, senza sovrastrutture e senza progetti, se non quell’ Uomo (Cristo) che ha fatto nascere una scintilla di speranza (“faccio nuove tutte le cose”) in tempi non certo migliori e più facili dei nostri.

Certo, è facile equivocare un evento che tratta di tutto (perché nulla è escluso dallo sguardo rigeneratore di Cristo, dalla politica alla storia, dalle scienze alla poesia, senza dimenticare, arte, filosofia, economia…) e su cui ognuno può porre il suo sguardo selettivo. Da sempre il Meeting ha subìto, sui media in particolare, uno sguardo ridotto tale da generare assurde polemiche, contro cui recentemente abbiamo avuto anche l’occasione di controbattere divertiti (per la banalità delle posizioni espresse). 

In genere sui media – in particolare a metà degli anni ’80- è la politica a farla da padrone (allora il Meeting era craxiano, ricordate?) e qualcuno misura l’evento solo a partire da quello. Poca cosa. D’atro canto, non si può che scrollar la testa a legger ancora oggi l’articolo su La Repubblica, laddove si colloca il Meeting tra le varie feste di partito o sindacali (“Fra Imola e Rimini, la Romagna protagonista dei raduni politici di fine estate. Cl parte per prima con il suo meeting.”). Una semplificazione che non coglie la realtà dell’evento, ovviamente. Un po’ come confrontare una processione con un Gay pride o una sfilata per la pace con un comizio di partito. Cose diverse.

D’altro canto lo stesso atteggiamento – cieco a quel che CL e il Meeting sono in se stessi – lo denota chi oggi tira per la giacchetta il movimento  perché si starebbe collocando troppo poco a destra, rispetto ad anni fa. Come se non fosse cambiato nulla nell’Italia attuale. Come se il movimento si fosse identificato con uno schieramento o con una soluzione politica. Come se nella letteratura cristiana non esistesse un documento, assai amato dentro il movimento, che proclama che il cristiano è “senza patria” (Lettera a Diogneto).

Da questo punto di vista, la libertà dalla politica che vuol dettare l’agenda e costruire una sua patria a chi invece è libero (venga questa agenda da destra come da sinistra, che sia quella di chi comanda, come quella di chi vorrebbe comandare), ben la esprime Vittadini con la sua intervista al Corriere. Giudizi che potranno essere veri o sbagliati, ma che indicano un criterio di libertà e realismo interessante. Peraltro di forte pertinenza rispetto ai rischi di semplificazione e banalizzazione che il dibattito politico in Italia sta correndo da qualche tempo (nell’articolo si parla dell’illusione di un “uomo solo” – di nome Renzi, o Berlusconi o Grillo, non importa – che possa risolvere i problemi dell’Italia).

Certo, per chi fisicamente non sarà presente in fiera in questi sette giorni (la stragrande maggioranza degli italiani, ovviamente), restano i media, che riferiscono del Meeting come di un “raduno politico”.  Siamo di fronte a quanto oggi troppo spesso accade nei dibattiti (e non solo in quelli dei media, ma anche tra la gente). Una sorta di terrore della differenza, della complessità e della ricchezza della realtà. Ancora una volta siamo vittime di una semplificazione funzionale. Sui media, si tratta di semplificare la realtà in caselle pre-digerite, perché possa essere assimilata da persone dall’intestino pigro. E così al destrorso si conferisce l’idea di una meeting “festa dell’unità”, al sinistrorso si conferisce l’immagine di un meeting sempre pronto a seguire il grande capitale, al “pro life” si offre l’idea di un meeting disattento ai temi etici, ecc. Il tutto con pezzetti di realtà, ben isolati dal tutto. L’esito è quello di solleticare l’istintiva insofferenza che una situazione di crisi rende così viva  nelle persone e dunque farsi leggere. La vittima è la realtà, ma non solo. Vittima è anche la speranza, quell’inizio di vita che affiora, soffocato dal clamore e dall’iracondia.

Invece quel “tutto”, ovvero quell’ “altro” di cui parlavamo prima, resta la cosa più interessante e la risposta veramente pertinente ai grandi drammi dell’oggi. Drammi e problematiche che, sfogliando il programma del Meeting, si ritrovano in abbondanza. Quell’ “altro” da riguadagnare per possederlo realmente e non lasciarsi trascinare nell’orbita di una cultura della morte.

È un cammino che sta accadendo nel mondo intero attorno al movimento ed alla Chiesa. Significativa (ed anche divertente nella sua vivacità e semplicità), a questo proposito, la presentazione della Bellezza disarmata, il testo di don Julian Carron, attuale guida di CL, proprio a Barcellona, la città martoriata dai “cultori della morte”.

Dialogando con Pilar Rahola, giornalista di La Vanguardia, atea e protagonista di tante battaglie civili spesso lontane dalla tradizione cristiana, si trova un punto di interesse comune fondamentale, che la stessa giornalista ha sottolineato, scrivendo un articolo all’indomani del suo incontro con Carron. Così si è espressa su La Vanguardia“In alcuni passi del libro, Julián parla della fine dell’Illuminismo, un Illuminismo che ha operato bene nel porre la ragione al centro dell’universo umano, ma male nel credere che questo fosse l’unico motore possibile. Certo è che, dalla mia posizione di non credente, sono d’accordo con lui: l’Illuminismo ha fallito nel suo intento di porre la ragione come misura e soluzione di tutto. Per questo motivo in questo momento di profondo smarrimento, con ideologie totalitarie che ci minacciano e democrazie in pieno naufragio, la parola di Gesù torna a essere un’idea luminosa.” E conclude dicendo: “Termino con una provocazione: che i cristiani escano dall’armadio. Forse non tutti abbiamo una fede come la loro, ma la loro fede rende tutti migliori.

Ma merita di essere ascoltato per intero il video dell’incontro.

E buon Meeting a tutti coloro che vogliono uscire dall’armadio delle loro ideologie !

 

 

 

Un Meeting che traccia la strada: cambiamento di pelle, ma non genetico

È veramente poco interessante, come sostiene Renato Farina su il Giornale, la discussione sui media relativa ai presunti o reali “nuovi corsi” di CL (“Non ho nessuna voglia di spiegare la nuova pelle e ripetere le vecchie palle su Cl”). Ciò che manca in questi dibattiti – interni o esterni che siano  – è quanto lo stesso Farina ricorda alla fine del suo pezzo (“Polemiche mediatiche ogni volta diverse, ma qui è il posto dove si rinnova l’unica domanda seria: che cosa vogliamo farne della nostra vita?”). Fuori di questo semplice riconoscimento vi è ideologia, ovvero la sostituzione alla realtà di proprie interpretazioni riduttive, generalmente legate a un progetto o un interesse specifico. Un esercizio quanto mai comune, purtroppo, e decisamente anti giussaniano.

Chiarito ciò e superate le polemiche da mercato rionale (anche se targate Repubblica), così come quelle su presunte modalità migliori di affrontare problemi di complessità geopolitica irrisolta da mezzo secolo (vedi crisi di Cuba), si può tornare a parlare di un Meeting che in tanti hanno definito tra i più belli di sempre per ricchezza di spunti e di proposta.

Provo semplicemente a raccontare il “mio Meeting” come ho sempre fatto, fin da quando scrivevo per La Voce, senza alcuna pretesa ovviamente di interpretare il “messaggio del Meeting” (se mai vi è un qualcosa di simile).

Parto dalla testimonianza del 19 agosto di monsignor Camillo Ballin, Vicario apostolico dell’Arabia del Nord, durante l’incontro Vivere da cristiani. Il vescovo ha chiarito come si possa vivere e affermare che l’altro è un bene anche in una condizione difficilissima e di grandi limitazioni di azione. È la risposta ad una domanda che in tanti prima del Meeting avevano: come si può dire “tu sei un bene per me”, quando l’altro non ti sopporta, non ti vuole, agisce per sopprimerti?

Mons. Ballin dichiara di “non aver mai convertito nessuno” (ha raccontato che i pochi che, arabi, avevano chiesto di battezzarsi erano in realtà spie mandate dal governo per farlo cadere in trappola, e ha ricordato che chi abbandona l’Islam in quei paesi è destinato alla morte -), ma ha testimoniato una fede interamente vissuta  e ha definito  la loro terra come una terra ricca poiché  “noi mandiamo nei vari paesi del mondo una ricchezza molto più grande dell’esportazione del petrolio, mandiamo discepoli di Gesù Cristo” (ndr: cliccando su questi link si rimanda alla posizione esatta del video. In questo caso, mons. Ballin prosegue fino a commuoversi mentre racconta quanto grande sia la sua gioia allorché incontra in quelle terre un cristiano che riesce a testimoniare con la propria vita la bellezza della fede). Una posizione, quella del prelato, che (senza nascondere alcun problema e negare le necessarie azioni) spazza via ogni tentazione di contrapposizione e di polemica, -o di lamento -, per affermare un positivo possibile da subito e per giunta con chi è nemico.

http://https://youtu.be/5nMRN6i3FrA?t=48m53s

È proprio la testimonianza dei cristiani sofferenti per la propria fede nel mondo a guidare, già da anno scorso,  la posizione da tenersi nei confronti dell’Islam  ma anche nei confronti delle sfide che si vanno aprendo su tutto il mondo. Ed è la posizione di chi vive, con una tenacia che ha dell’incredibile, la speranza della fede in maniera incrollabile.

Prima di giungere all’esplicitazione più diretta del tema del Meeting, facciamo un rapido passaggio sull’incontro, sempre del 19 agosto, che aveva a tema i rapporti di Guardini e Giussani con la modernità. Sono interessanti, infatti, alcuni chiarimenti  di argomenti che non possono essere ridotti a mito, come purtroppo, ascoltando alcuni dibattiti recenti, pare accadere. Ci riferiamo alla banalizzazione e idolatria di un’età stupenda come il Medio Evo – (vedi quanto afferma qui Borghesi) – che merita la considerazione e l’analisi articolata della storia e non di una vulgata di segno uguale ed opposto rispetto a quella illuministica.

L’incontro sul tema del Meeting, ricco di riferimenti personali e con una toccante conclusione, è con lo scrittore Luca Doninelli, tema chiarito però in maniera rapida ed estremamente efficace anche dalla docente russa Tat’jana Kasatkina, Direttore del Dipartimento di Teoria della Letteratura presso l’Accademia Russa delle Scienze, la quale, esplicando il tema del Meeting rispetto alla letteratura (l’incontro era La Vita Viva. Leggendo gli “Scritti dal Sottosuolo” di Dostoevskijha chiarito la dinamica dell’altro come essenziale per il respiro dell’io. In un successivo incontro informale, la Kasatkina ha offerto una sorta di fondazione teoretica di questa affermazione. Ha specificato che l’uomo, in quanto uomo, non vive del suo istinto ma della libertà. Tuttavia vivere nella libertà risulta difficile, scomodo, disagevole. Pertanto ecco affiorare la necessità di sostituire l’istinto con parametri di comportamento fissi, regole morali o modelli culturali che determinano sé e la società. In questo modo però si disperde nuovamente la libertà (ciò che vi è di più autenticamente umano), accomodata in consueti schemi, ripetuti meccanicamente. Ciò da cui ci si era liberati, la rigidità meccanica dell’istinto, torna in forma diversa. L’altro, dunque, con la sua forza dirompente, è l’opportunità del rifiorire della libertà. L’altro, con cui entro in scontro, mi obbliga al cambiamento, sempre scompagina le mie misure, ed è l’ occasione per recuperare la dimensione della libertà, della scelta, del mettersi in gioco. Ovvero la dimensione autentica dell’io. Una dimensione sempre drammatica e che Dostoevskij descrive persino come infernale. Durante l’incontro su Dostoevskij, la Kasatkina aveva magistralmente delineato la dialettica dell’io e dell’altro, a questo punto dell’incontro fino alla conclusione (5 minuti), punto complesso e tutto da meditare, che ci porta completamente all’interno della famosa frase evangelica “ama il tuo nemico”.

Non difficile dunque comprendere perché l’intervento di Antonio Spadaro, che ha descritto la geopolitica del papa, intesa come geopolitica della Misericordia, risulti centrale, e programmatica, in più di un passaggio. Spadaro, che ha candidamente confessato che “le cose che dico non le ho ancora capite” e il cui intervento merita molteplici analisi, ha parlato di superamento del Costantinismo, ovvero la grande utopia di costruire il Regno di Dio sulla terra, propria poi di tutto il Medio Evo, ma anche di tante forme di presenza dei cattolici nella società fino all’altro ieri (il suo riferimento è stato al “partito” dei cattolici). È questo il passaggio più delicato e che sicuramente farà più discutere, ma la precisazione di queste affermazioni e la riflessione che seguirà nei prossimi mesi saranno sicuramente decisivi per tutta la Chiesa e la società intera.

In questi passaggi, qui sommariamente delineati, si avverte la presenza del respiro della storia, di prospettive cioè che si vanno aprendo a dimensioni, universali, tali da abbracciare l’umanità intera. È la stessa vibrazione che, nell’incontro con don Giussani, ha generato quel cordone ombelicale che ci lega al mondo e che a sua volta ha fatto nascere il Meeting.

Dove porti questa dimensione di cambiamento epocale non lo sappiamo. Certamente sarebbe folle non accettare la sfida che abbiamo di fronte, in nome di una presunta fedeltà al movimento, individuata in certe forme e in certi temi, quando in questi 60 anni siamo stati capaci di una crescita e maturazione impressionante, attraversando fasi tra loro decisamente eterogenee.

Se è vero, come tutti ammettiamo e gli ultimi papi incessantemente hanno ripetuto,  che siamo non “in una epoca della crisi, ma all’interno della crisi di un’epoca”, non possiamo rimanere fermi, pena l’afonia, ovvero l’incapacità di parlare all’uomo di oggi, oppure pena il destino di costruire un piccolo residuo della storia, destinato a tradire la vocazione “cattolica” (universale) dell’incontro con Cristo.

Non son certo queste le “minoranze creative”, di cui si parlava qualche anno fa…

Occorre invece avere coraggio. Lo stesso che Giussani ebbe entrando nelle scuole, armato solo di Cristo e della ragione. Il coraggio che il papa riconosce al Meeting, proprio all’inizio del suo discorso di saluto.

Ed è proprio il papa, che CL convintamente segue, che indica l’unica realtà capace di “tenere” di fronte a questa situazione drammatica:  l’esperienza di Cristo, presente in una comunità umana prossima e visibile, e che si manifesta in una sorta di abbraccio, come ascoltiamo ripetere incessantemente sia dal papa che da CL.

Cristo: una presenza “altra” che rigenera la vita.

Ma questo non è ciò che sempre ci ha detto don Giussani?

L’eredità di don Giussani e il Meeting 2016

In questo Meeting 2016 c’è un punto chiaro che non deve essere confuso, in mezzo a letture superficiali o addirittura tendenziose. Letture che è destino vengano riproposte a Rimini a fine agosto, ogni anno, in gran copia, fin dalle prime edizioni. Polemiche che passano come un soffio, mentre quel che resta è l’evento che si riproduce in fiera ogni anno e che continua a determinare una prospettiva di novità unica nel panorama culturale italiano e internazionale. Qualsiasi polemica che non riconosca questo dato  originario (la natura sorprendente ed esuberante del Meeting) è destinata a rimanere superficiale ed epidermica.

Lo ha ben capito, comprendendo anche ciò che non si può capire dall’esterno e rispettando questo orizzonte non definibile, Dario Di Vico sul Corriere della Sera. Il “cambiamento di pelle” del movimento di CL e del Meeting nasconde in realtà una profonda continuità, che Di Vico, giustamente, dichiara non facile da definire e descrivere per un cronista, ma che egli stesso rispetta e legge come un percorso fedele alla Chiesa e al desiderio di Giussani di accettare le sfide del presente. Sorprende invece come non sia compresa da alcuni tra le vecchie generazioni di Cl, che si lasciano andare ad isteriche reazioni sul web, non degne del carattere realistico e virile che da sempre il movimento ha insegnato ai suoi aderenti.

Quella continuità, elemento di così difficile comprensione dall’esterno (ma anche l’elemento più interessante per tutti coloro che al Meeting vi abbiano fisicamente messo piede), è il cuore della questione.  Si tratta del Cristianesimo inteso come compagnia presente di Cristo all’uomo (nell’ora e nell’istante), che don Gius ha sempre richiamato (e che qui viene ripreso persino, ad esempio, nel quarto video della mostra sui 70 anni della Repubblica).

In realtà è come se tante persone aderenti al movimento dovessero ancora “vedere” il cuore del movimento stesso, essendosi fermati ad alcuni aspetti, a modelli e schemi, 25 anni fa rilevanti e validi, ma che oggi ovviamente non tengono più (e che anche allora risultavano troppo poco per don Gius, sempre pronto a rilanciare e richiamare oltre). Cambiati i tempi, cambiano le risposte. Unica risposta che non cambia è Cristo, ma questi non è una formula, una modalità, una determinazione culturale. È una presenza viva, ora e oggi. E questa presenza, nel movimento di CL, come nella Chiesa intera, è più che mai operante.

La necessità di chiarificare il senso di vecchie e nuove battaglie, e di capire dunque più a fondo la proposta di don Giussani – irriducibile ad una interpretazione (Carron non interpreta Giussani, ma lo segue, potremmo dire, sine glossa) –, è emersa con forza durante l’incontro Romano Guardini e Luigi Giussani in dialogo con la modernità, che ho commentato sinteticamente per il Quotidiano Meeting di sabato a pag 11 (commento che qui potete leggere).

Gli interventi hanno messo in luce come Guardini e Giussani abbiano intuito, forti della consapevolezza che Cristo – logos della realtà, centro del cosmo e della storia – è una presenza personale, viva, incarnata nell’unità dei credenti e non in discorsi o interpretazioni etico-dottrinarie, la pertinenza della sfida della modernità per un incremento della fede (e dunque dell’umano). Di fronte all’indifferenza della cultura o delle persone del proprio tempo, entrambi hanno proposto Cristo stesso, denudato da tutti gli orpelli inessenziali, liberi da ogni forma precostituita, forti solo dell’esperienza di Lui. Nel caso di Giussani ne è nato un movimento capace di attraversare per intero la storia e che oggi ritrova ancora una volta se stesso, liberandosi da vecchie battaglie per intraprenderne nuove.

A riprova di questa “complessità e semplicità” di comprensione su cosa sia il movimento (e il cristianesimo), possiamo prendere un passaggio dell’articolo del Corriere della Sera che implica il tema stesso del Meeting 2016.  Il giornalista vede in questa edizione una sostituzione  della presenza dell’ “io”, in favore di quella del “tu” e ciò viene letto ovviamente come una novità di Carron.  Ma il cuore di quanto detto da don Giussani da sempre (fulcro della sua lezione sull’uomo) è proprio che la consistenza dell’io è in un Tu. Dunque la sottolineatura di quel Tu, che prende forma nella realtà, ed oggi secondo connotati così “altri” (profughi, Islam, pensiero laico, politica del compromesso, ecc.), è la più grande novità, ma anche la più grande continuità, di questo Meeting che, come abbiamo già scritto,  ritrova pienamente se stesso (meeting per l’amicizia fra i popoli).meeting 2016 you'llnever walk alone

Esito di questo cammino è il ritrovarsi mai soli, ma il moltiplicarsi di incontri significativi con tutti (altra costante del Meeting). Al contrario una fossilizzazione di temi e consuetudini porta all’arroccamento su di una cittadella destinata a morire del suo stesso respiro.

L’esperienza del Meeting, come quella di don Giussani fin dai primi tempi al Berchet, è al contrario quella di scoprire di non camminare mai soli, ma di possedere un cordone ombelicale che ci lega al mondo intero.

In attesa del Meeting 2016

In questa situazione di confusione nazionale e internazionale, il Meeting di Rimini ancora una volta propone una miriade di incontri in cui si testimoniano pezzetti di realtà e di cultura che attestano che vivere, e non solo sopravvivere, è possibile.

Da quando è nato le polemiche non sono mai mancate e sono giunte da una miriade di fronti, interni ed esterni. Chi ama vivere sui media rimane fermo a questi dibattiti, generalmente  di basso respiro. Ma da quando è nato, chi vi ha partecipato ha visto altro. Appunto, ha visto che vivere è possibile.

In particolare in questa edizione il Meeting esplicita anche nel titolo, Tu sei un bene per me, la sua dimensione originaria (ricordiamo che la denominazione dell’iniziativa riminese è Meeting per l’amicizia fra i popoli). Il programma, come al solito è densissimo e spazia sui vari ambiti dell’esistenza umana (dall’economia alla cultura, alle scienze, all’arte, fino  giungere alla solidarietà, alla politica, all’ integrazione, ecc.).

Credo che per capire la novità che si rinnova ogni anno al Meeting, e che ancora una volta ci aspettiamo da dopodomani, sia assai utile leggere qui o visionare qui sotto l’intervista che Monica Mondo  ha fatto per TV2000 a Giorgio Vittadini, in cui legge il Meeting 2016 a partire dalla sua esperienza personale, in particolare il suo rapporto con don Giussani.

Altrettanto interessante è l’ intervista sul Corriere della Sera, più incentrata sul tema.

Ma senza quei tratti unici e personali, che qui potete percepire, non si capirebbe il Meeting. Tratti personali che tutti coloro che al Meeting stanno lavorando o lo seguiranno con coinvolgimento personale possono riconoscere, tratti personali che posso rigenerarsi in chiunque, tra pochi giorni, frequenterà i padiglioni della fiera.

Tratti unici e personali, che non implicano necessarie “conversioni”. Al Meeting partecipano ebrei, islamici e cristiani, insieme a laici agnostici e anche atei.

Tratti unici e personali significa che il proprio io rivive, consapevole di una strada comune. Magari identica, magari diversa (Non è forse vero che La libertà è il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini ? vedi Meeting 2005), ma misteriosamente comune.

Buon Meeting 2016!

 

 

La terza guerra (civile) mondiale

In questa strana estate, che si macchia di sangue in maniera crescente, occorre forse riarticolare la profetica espressione di papa Francesco sul tempo odierno, già pronunciata nel 2014 e poi ripetuta più volte. Disse che siamo in guerra, una “guerra mondiale combattuta a pezzi”. Ora ce ne stiamo accorgendo tutti. Ma oggi scopriamo anche che questa guerra non è combattuta solo da organizzazioni terroristiche o di impronta totalitaria, quale l’ISIS (un totalitarismo che prende le forme dell’ islamismo radicale, ma che possiede assonanze impressionanti con quello marxista e nazista insieme), bensì dal vicino di casa, dall’immigrato dei sobborghi delle grandi città, oppure dai giovani bene che per un motivo o per l’altro si trovano in totale scontro con la nostra civiltà. Il collante dell’islamismo è ben presente, ma pesca da origini complesse e che ultimamente portano a un vuoto abissale, da cui l’uomo ha cercato sempre, maldestramente, di difendersi.

È la guerra del vicino di casa, di volo in aereo, di quartiere.

Ecco perché  forse dovremmo chiamarla, guerra civile mondiale. Non per toglierle il suo significato geopolitico, ma semmai per indicare il carattere interno all’Occidente di questo conflitto assurdo, così come sono state d’altro canto definite anche le due guerre mondiali (vedi il saggio E. Nolte La guerra civile europea. 1917-1945 –  Nazionalsocialismo e bolscevismo).

Vi è anche un altro motivo per cui sembra opportuno utilizzare questa denominazione.

Il secondo motivo è adombrato nelle parole di ieri del papa in prossimità della GMG che si tiene oggi e nel prossimo fine settimana con milioni di ragazzi a Cracovia. Così si è espresso: “Circa quello che chiedeva padre Lombardi, si parla tanto di sicurezza, ma la vera parola è guerra. Il mondo è in guerra a pezzi: c’è stata la guerra del 1914 con i suoi metodi, poi la guerra del ’39-’45, l’altra grande guerra nel mondo, e adesso c’è questa. Non è tanto organica forse, organizzata sì non organica, dico, ma è guerra. Questo santo sacerdote è morto proprio nel momento in cui offriva la preghiera per la chiesa (il giornale La Notizia scrive “per la pace”, ma le due preghiere coincidono – ndr), ma quanti, quanti cristiani, quanti di questi innocenti, quanti bambini vengono uccisi. Pensiamo alla Nigeria – ha esortato – ‘ma quella è l’Africa’. No, è guerra, non abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra perché ha perso la pace.” (cit. da Ansa)

Lo stesso aveva detto padre Ibrhaim a Rimini (vedi il filmato della conferenza assolutamente attuale)  denunciando anche, con candore francescano ma senza mezzi termini, le responsabilità degli USA e dell’Europa, fino ad esprimersi “le vostre tasse, una parte di questi soldi finisce nella mani dell’ISIS”. (Padre Ibrahim poi, al minuto 6 e 30 circa, nega la denominazione di guerra civile, ma per allargarne l’orizzonte a più Stati, intendendo che ciò che succede ad Aleppo non è solo guerra civile interna ma guerra tra più potenze. Noi qui confermiamo l’orizzonte mondiale, ma intendiamo dire che è “guerra civile” per la sua capillarità e quotidianità. Dunque è una guerra mondiale, ma civile, ovvero fatta anche da semplici cittadini, spesso sbandati o problematici, cellule indipendenti e autonome che rendono capillare e ancor più devastante l’impatto psicologico sull’Occidente).

Insomma: il pericolo viene dal vicino di casa e dall’ipocrisia dei potenti, che utilizzano un forma ideologica di Islam che, come andiamo da tempo ripetendo, nel suo insieme deve crescere, approfondirsi e chiarirsi.

Non è questa dunque una guerra civile, che prende forme polivalenti e che si maschera dietro a motivazioni religiose? (vedi sempre papa Francesco ieri)

Di fronte a questa situazione, del tutto nuova e di cui realisticamente siamo chiamati a prendere atto, ci sono due atteggiamenti del tutto errati, seppure contrapposti. 

All’indomani del terribile attentato ad Orlando dell’ 11-12 giugno, all’interno di un noto locale gay, i richiami de Il Foglio ad identificare l’evento quale una espressione di terrorismo islamico, a fronte del tentativo invece di deviare l’attenzione sul problema dell’abuso delle armi nel paese oppure verso il problema dell’omofobia, erano giusti (perché si sono udite parole, anche nel discorso di Obama, del tutto fuorvianti) ma insufficienti, come poi ha dimostrato lo svelarsi dell’identità dell’attentatore, decisamente complessa e tutta da decifrare (omosessuale egli stesso e così riconosciuto da compagni di gioventù, poco religioso, frequentatore del locale fino a poco prima e di recente avvicinatosi ad un Imam radicale). All’ analisi del Foglio che definisce i fronti come nettamente contrapposti e dunque facilmente individuabili in due schieramenti che devono necessariamente fronteggiarsi in forme lineari, manca qualcosa che invece pare essenziale.

Allo stesso modo la reazione opposta, ben più grave perché decisamente tendenziosa ed espressione di uno degli elementi del male che ci attanaglia, de Il Fatto quotidiano, dimostra un’altra via del tutto errata. Il Fatto ha pubblicato il 13 giugno (stessa data dell’articolo de Il Foglio) un video di un’omelia di una sacerdote italiano, titolando «“Gli omosessuali meritano la morte”. L’omelia del parroco contro le unioni civili».  Errata la pubblicazione, perché pubblicarla il giorno dopo gli eventi di Orlando (l’omelia era del 28 maggio, due settimane prima) non è certo una scelta neutra o per dovere di cronaca ma vuol far sorgere nel lettore questo giudizio: “vedete, i cristiani sono come gli islamici, fomentatori di violenza; il problema è eliminare ogni religione fonte di ogni regresso”.

Ma la questione si intreccia ancora di più in un intrigo di torti e ragioni, dove chi ha realmente torto (l’ideologia del nulla) trova ragioni per sostenersi in improbabili battaglie di civiltà (a proposito, questo fine settimana ci sarà il Gay Pride a Rimini. Tanto per gradire) in cui il nulla delle forme leggere leggere, prende in carico su di sé diritti e rispetto della persona, in una mescolanza di elementi in cui l’eterogenesi dei fini (e della nostra fine) la fa da padrona.

Infatti, occorre aver il coraggio (tutto cristiano) di dire che errati sono anche i toni dell’omelia che hanno permesso di titolare al Fatto in quel modo.

Un’operazione di menzogna, quella del Fatto Quotidiano, è indubbio.

Sia  perché invece è intrinseco al cristianesimo la costruzione della pace, come in questo secolo XX e XXI sta emergendo sempre più chiaramente – in particolare grazie agli ultimi pontefici da Giovanni Paolo II in poi-, portando nuova giovinezza al fatto (avvenimento) cristiano (questo sì, veramente quotidiano e reale).

Sia perché quanto ha pubblicato il Fatto Quotidiano, nasce da un’assolutizzazione ed estrapolazione di una frase, a sua volta de-contestualizzata dal parroco e utilizzata da lui stesso in maniera piuttosto goffa e impropria.

Proviamo ad analizzare. Il Fatto titola virgolettando “gli omosessuali meritano la morte”, attribuendola al parroco (o a San Paolo, comunque al cristianesimo). Il parroco cita San Paolo che nella lettera ai Romani cap 1,26-ss.  afferma “E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose -si parla di ogni deviazione sessuale, ndr – meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa”.  Il Fatto gioca sporco, correlando la vicenda Orlando (data di pubblicazione), alle vicende Unioni di fatto e legge del governo Renzi, complice la verve del parroco, ed entrambi bypassano  la necessità di contestualizzare e comprendere il significato di quel passo (ad esempio di quale morte si parla? Mai sentito parlare di “morte dell’anima” che riguarda ogni peccato? E che c’entra la morte di omosessuali per terrorismo con la morte dello spirito ovvero la dannazione eterna?).

Insomma il parroco ha ingenuamente steso un tappeto di velluto ai fomentatori del nulla, coloro che sta combattendo anche lui. E un video di tal genere è oggettivamente un’ottima arma per chi porta avanti alcune tesi (fede=violenza=terrorismo fondamentalista=omofobia=cattolicesimo, ecc. ecc.).

Ma questo passaggio deve far riflettere su quanto è in gioco oggi.

Da una parte vi sono  i fautori del nichilismo che stracciano i principi secolari che hanno costruito questa nostra benedetta società, ancora riconosciuta come appetibile, e che di qui (dal cristianesimo e dal suo senso profondo della persona – che appunto è spirito e non solo istinto, vedi San Paolo-) è nata. Un nichilismo che si trova assai più vicino agli attentatori di quanto non appaia.

Dall’altra vi sono i cristiani che devono fare un passo, che sono chiamati ad essere più coraggiosi e consapevoli di ciò che portano. È quanto sollecita, con incredibile lucidità, papa Francesco.

Il coraggio dei cristiani oggi, infatti, non consta nell’alzare battaglie improbabili, pena l’essere simili al don Chisciotte di Cervantes, che si ritrova a combattere contro i mulini a vento. Il coraggio vero oggi, e che chiederà a qualcuno o a tanti il martirio,  è il coraggio della personalizzazione della fede (Carron). È il coraggio di quanto ha comunicato padre Ibrahim, testimoniando ciò che sta facendo ad Aleppo. In mezzo alla guerra e all’Isis, attorniato da fedeli che andando a Messa rischiano la morte (letteralmente, e l’omicidio del sacerdote durante la Messa è un presagio fosco per l’Europa), padre Ibrahim costruisce. Semplicemente costruisce tutto quanto è umano e cristiano. Perché i due termini, lo si voglia ammettere oppure no, coincidono. Giovanni Paolo II nel 1983 in Università Cattolica a Milano disseTutto ciò che contrasta con quanto vi è di autenticamente umano, contrasta parimenti col cristianesimo. E, viceversa, un modo distorto di intendere e di realizzare i valori cristiani ostacola altrettanto lo sviluppo dei valori umani in tutta la loro pienezza. Nulla di genuinamente umano è chiuso al cristianesimo; nulla di autenticamente cristiano è lesivo dell’umano. Nel messaggio cristiano trova arricchimento, sviluppo, pieno chiarimento la genuina sapienza umana.

Espressione (nulla di ciò che umano è contro Cristo, nulla di ciò che è autenticamente cristiano è contro l’uomo) che ascoltai, da studente, accovacciato nei chiostri della Cattolica  e che, oltre a divenire un ricordo indelebile,  è divenuto programma di studio, di lavoro e di vita.

In sostanza oggi è urgente la risposta alla domanda: cosa è il cristianesimo?  Cosa ha di buono e vero dopo duemila anni?  Credo non sia facile desumerlo dalle parole di quella omelia. Certamente vanno evitati i duplici errori, di cui sopra.

E così mentre le strategie “belliche” dell’occidente sono macchiate da terrificanti ipocrisie (si veda l’intervista sul Sussidiario a Gian Micalessin) che generano morte, la speranza viene dal virgulto di una fede che procede ed è viva nella storia, come Giuseppe Frangi interpreta  la GMG attualmente in corso.

Interessante poi vedere come l’intuizione della GMG sia già presente in quel discorso di Giovanni Paolo II a Milano, quando uscendo salutò gli studenti.

“Miei carissimi studenti, vi ringrazio per la vostra presenza, per la vostra solidarietà, una parola diventata direi internazionale, o almeno italiana (allora in tanti lì presenti avevamo foulard e spillette con la scritta Solidarnosc, come vicinanza agli operai polacchi che lottavano contro il regime comunista). La incontro nei diversi posti della vostra e nostra patria, l’Italia. Allora vi ringrazio per questa solidarietà, e poiché siamo già verso la fine del mese di maggio, vi auguro anche i successi possibili nelle prove che vi attendono, i cosiddetti esami. E vi lascio per il momento con la speranza di incontrarvi di nuovo, non so dove. Ma gli studenti, i giovani, si incontrano dappertutto. Dappertutto sono le università, dappertutto sono gli studenti, dappertutto sono i giovani e dappertutto è la speranza dell’avvenire” (qui il discorso integrale al corpo docente)

Di qui si riparte, per la costruzione della civiltà del nuovo Millennio. Non da polemiche vuote (esse stesse figlie del nichilismo), funzionali solo al “nemico”. Ma dalla speranza che risiede nella risposta al cuore dei giovani e dell’uomo, pieno di quel desiderio di infinito che ti porta ad uscire da te (dalle tue piccole o grandi idee) e a riconoscere che l’altro è un bene. Oggi, in un momento dove ci vogliono far credere che  l’altro – anche il passeggero al tuo fianco o il passante in strada – sia un nemico, c’è bisogno urgente di questo riconoscimento.

 

“I miei grandi amici musulmani…” ovvero la quintessenza del Meeting

Ha fatto discutere al Meeting un’affermazione forte di padre Douglas, il quale, in sostanza, ha identificato l’Islam con il “male”. In particolare risulta decisamente stridente, se messa a confronto con il resto della sua testimonianza e poi con la testimonianza di padre Ibrahim. L’espressione è stata commentata dal moderatore don Stefano Alberto (don Pino), che ha sostenuto “noi sappiamo che occorre distinguere, lo dico pensando ai miei grandi amici musulmani, ai tanti uomini di buona volontà…”, rispetto al qual commento padre Douglas ha applaudito, confermando il cuore del suo intervento: non l’amarezza e la distinzione (per quanto forti e sbattute in faccia a noi per una giusta provocazione a vincere l’indifferenza), bensì altro, come si può ben ascoltare dal video dell’incontro che vi propongo qui sotto (Padre Douglas dice esplicitamente “non voglio incitare all’odio contro l’Islam”). Medesimo contenuto che poi, con toni differenti, ha espresso padre Ibrahim.

Nessuno ha chiuso gli occhi di fronte alle violenze inaudite che islamici stanno perpetrando, ma nessuno se ne è lasciato determinare, in un gioco perverso di contrapposizione, di causa ed effetto, che non può che alimentare l’orrore, vero obiettivo dell’Isis, come di Al Qaeda e ancora prima dei Talebani (tutti abbondantemente finanziati o “tollerati” dall’Occidente laico ed economicamente rilevante, mentre scorreva il sangue di cristiani ed islamici, vittime innocenti dell’orrore).

Una sottile, ma resistente, cecità potrebbe farci indugiare su quella semplificazione (del tutto comprensibile e che porta un suo richiamo importante), che invece in alcun modo deve indurci a contrapporre ad un banale “dialogo tra idee”, un altrettanto banale “scontro tra idee”. Occorre sostare sul punto centrale dell’incontro: la possibilità di un confronto reale tra uomini diversi. È, d’altro canto, questa tutta l’esperienza del Meeting fin da quando è nato nel 1980 e non per nulla si chiama Meeting per la pace e l’amicizia tra i popoli. Fin dall’inizio, proprio anche grazie ai rapporti nati col don Gius, furono invitati buddisti, protestanti, islamici, ebrei, ecc….

Qualcuno invece oggi sostiene, anche sulla stampa e in forma autorevole, che il Meeting abbia intrapreso una linea “buonista e dialogante”. Ma è solo un “non vedere” che porta a giudizi così superficiali.

Per capire il passo compiuto dal Meeting, che va nella direzione di un approfondimento e di una conferma delle sue origini, è bene tornare all’articolo pubblicato da don Carron su Corriere della Sera all’indomani dei fatti tragici di Charlie Hebdo. Carron scriveva: “Quando coloro che abbandonano le loro terre arrivano da noi alla ricerca di una vita migliore, quando i loro figli nascono e diventano adulti in Occidente, che cosa vedono? Possono trovare qualcosa in grado di attrarre la loro umanità, di sfidare la loro ragione e la loro libertà? Lo stesso problema si pone in rapporto ai nostri figli: abbiamo da offrire loro qualcosa all’altezza della domanda di compimento e di senso che essi si trovano addosso? In tanti giovani che crescono nel cosiddetto mondo occidentale regna un grande nulla, un vuoto profondo, che costituisce l’origine di quella disperazione che finisce in violenza. Basti pensare a chi dall’Europa va a combattere nelle file di formazioni terroristiche. O alla vita dispersa e disorientata di tanti giovani delle nostre città. A questo vuoto corrosivo, a questo nulla dilagante, bisogna rispondere”. 

E, proprio oggi, mi viene in aiuto una testimonianza, di cui ho saputo da mia figlia e da alcuni studenti. Alla vacanza di Gioventù Studentesca, appena conclusa, ha partecipato Farhad Bitani, autore del libro “L’ultimo lenzuolo bianco. L’infermo e il cuore dell’Afghanistan”.

Le prime parole che mi sono state raccontate dell’incontro sono state “ha vissuto la violenza, teste mozzate, donne uccise, e sotto il regime dei talebani, questo diventava uno spettacolo allo stadio e a nessuno – nemmeno lui – si ribellava. Lui vi partecipava. Poi, vinto dal dolore e dalla paura, è venuto in Italia pieno di pregiudizi contro gli infedeli, ma ha visto qua un modo diverso di vivere. Ci ha raccontato di una vacanza con un suo compagno di corso (scuola militare) e con la sua famiglia e del rispetto per lui. Poi ha incontrato un prete, infine ha incontrato gli amici della scuola di comunità, ha conosciuto chi era Giussani…”.

Lui è (e resta) musulmano, ma la sua vita è cambiata perché il suo animo si è ribellato a quel dolore e perché ha incontrato un’umanità diversa. L’ha incontrata in famiglie e amici cristiani. Ed ora lotta contro ogni fondamentalismo. Troppo poco? Appare tale, ma qui, e solo qui, c’è la radice, fragile ma efficace, per un cambiamento, per una vita nuova. In primis per quei duecento giovani che lo hanno ascoltato in vacanza a La Thuille e si sono accesi perché hanno visto come Cristo possa cambiare il cuore di un uomo, qualunque fede e posizione umana abbia. Nulla è impossibile, nemmeno che un cuore segnato dall’odio cambi.

Incuriosito, ho trovato questo articolo di Tempi, dove Farad mette a fuoco l’ipocrisia di questi regimi ultrareligiosi, e ben si evince che il problema consiste  non in “troppa” religione (islamica in questo caso) ma  in “poca” e distorta. Ho trovato anche un’intervista televisiva a Farhad che riporto qui sotto. Farhad mette a fuoco anche l’origine del suo cambiamento e i toni si assimilano a quelli che ho sentito raccontare dai ragazzi riminesi.

http://https://youtu.be/CkqPuuTLPs0

Si può continuare a discutere se esista un Islam buono o se vi sia solo un Islam cattivo, se sia riformabile oppure no… Ma questo è un problema loro. Il problema nostro è essere noi stessi. Anzi riscoprire noi stessi perché, come popolo e come singoli, ci siamo persi.

Lasciarsi colpire da questa vita nuova, che ha affascinato quegli amici musulmani, e viverla così pienamente da renderla contagiosa. Non solo. Non abdicare nella vita civile, lottare, dove e quando si può, perché l’Europa resti ancorata a quell’origine pienamente umana e cristiana, da cui è nata. Questo il grande compito di oggi. Qui rinasce quella civiltà che ha colpito Farhad mediante la vita quotidiana di un amico, di tanti amici.

Ps: “Nulla è impossibile” è l’esaltazione della categoria della possibilità, ovvero della razionalità intesa come capacità di apertura (e di lettura corretta) di fronte alla realtà. Quei ragazzi hanno fatto un’esperienza di profonda razionalità, incontrando un uomo. Torneranno scuola con  una marcia in più, se manterranno viva questa esperienza.

 

Pps: Spulciando l’archivio, poco dopo aver scritto questo articolo, ho trovato questa pagina della Voce , che avevo curato. Era il 4 novembre del 2010 e si era appena concluso il Meeting tenuto al Cairo da amici mussulmani.  Cliccate qui.

“Era la prima volta che incontravo qualcuno che era la Resurrezione fatta carne”

Si può discutere su tutto. Si può partire (e finir chiusi lì) da scontri di idee e di opinioni. Ma il Meeting come l’ho vissuto io, fin dal 1980, il primo, è sempre stato il realizzarsi di qualcosa di impossibile, la sorpresa di una umanità rinata e che prende forme inaspettate. È quanto poi ho sempre scritto sul tema, ogni qual volta ne ho avuto occasione (come ad esempio nel 2010)

Fermarsi al cambiamento delle forme oggi, a mio modesto avviso, sarebbe ben poco segno di saggezza e di “giudizio culturale”, (pur così tanto millantato).

Al Meeting ho imparato che la verità è sempre un avvenimento... e questo non è mai venuto a meno.

Questo articolo di Tracce supera tutte le discussioni che, come ogni anno, si sviluppano intorno all’evento. Per comodità lo riproduciamo qui di seguito. È la storia di Alejandra, volontaria del Meeting, intervistata anche alla Rai (vedi qui il servizio)

«Vado lì, al compimento della vita»di Alessandra Stoppa
07/09/2015 – Meeting 2015, pranzo dell’ultimo giorno. Tutti a tavola per un’amica: Alejandra. Due settimane di lavoro volontario, un tumore incurabile e un’inspiegabile gioia di vivere. «Sono qui per sperimentare la gratuità. La cosa più simile al divino»

Ultimo giorno di Meeting. Ora di pranzo, nella mensa dei volontari. Alla tavolata si continuano ad aggiungere posti, fino a che non c‘è più spazio e si fanno doppie file. Ogni volta che arriva qualcuno, Alejandra, emozionata come una bambina, chiede di presentarsi. Nessuno conosce nessuno. C’è un solo punto in comune, ed è lei, che i più hanno incontrato da pochi giorni o da poche ore. La bellezza di Alejandra, la sua letizia, li ha convocati tutti qui senza calcolarlo. Al pranzo gente che non si è mai vista racconta la propria storia, canta, domanda, s’interessa all’altro con una familiarità che non si spiega e fa dire all’ultima arrivata, rimasta in piedi e di sasso: «Questo è il Paradiso».

Alejandra Diez Bernal, 48 anni, di Madrid, ha lavorato gratis al pre-Meeting, occupandosi dell’accoglienza dei volontari, e poi ha continuato a servire tutta la settimana, in mezzo alle altre duemila maglie blu. Lei scoppia, brilla di vita. «Forse questa è la mia ultima estate. E quel che volevo era venire al Meeting. Poter aiutare a costruirlo». Da più di un anno è malata di un sarcoma sinoviale, un tumore raro e aggressivo.

«Perché sei al Meeting?», le ha chiesto a metà settimana una giornalista tv: «Credo che la risposta più giusta sia perché Dio vuole». Ha in testa le parole della presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, nell’incontro con i volontari: «La coscienza giusta per stare qui è la gratitudine a Dio di poterci essere, perché non si può darlo per scontato». «Per me è proprio vero», dice Alejandra. L’anno scorso aveva già i biglietti per partire, quando le hanno trovato una metastasi al polmone e ha dovuto subito iniziare la chemioterapia. «Poi sembrava che il tumore si fermasse, invece no, è andato avanti. Così anche quest’anno, fino all’ultimo, non sapevo se sarei potuta partire. Allora, davvero, ogni istante sono cosciente di essere qui perché Dio vuole. E questa è la prima ragione, la ragione principale».

Alejandra lavora nella finanza, è una funzionaria del Governo di Madrid, in un ambiente dove la competizione è molto alta. Il lavoro da volontaria è stato, come dice lei, «un cambio di chip»: «Il mio modo di vivere non era per nulla gratuito. Al Meeting scopri quanto sia grande sperimentare la gratuità, perché è la cosa più simile al divino: Dio dà tutto».

Solo pochi mesi fa, non era così felice. Non voleva parlare della sua malattia, non voleva nemmeno che gli amici le facessero domande. Ma a maggio, durante gli Esercizi spirituali della Fraternità di CL in Spagna, un incontro le ha cambiato la vita. Un dialogo con don Julián Carrón, che racconta così: «Vado da lui e gli dico: “Carrón, sono Alejandra, non mi conosci ma voglio dirti che sono molto grave…”. E mi sono messa a piangere. Lui mi risponde: “E qual è il problema?”. Io ho pensato che non capisse più lo spagnolo. Gli ho ridetto: “Carrón, sto per morire, e ho molta paura…”. Lui, guardandomi negli occhi, con uno sguardo pieno di pace, mi dice: “Alejandra, qual è il problema? Tu vai al compimento della vita. Tu vai prima di noi, sei davanti”. E poi aggiunge: “Io verrei con te, ora”. Io lì ho visto che per lui era vero, che diceva la verità. Ero sotto shock, perché mai nessuno mi aveva parlato così. Tutti mi dicevano: “Non ti preoccupare, tranquilla, la scienza va molto veloce…”. Era la prima volta che incontravo qualcuno che era la Resurrezione fatta carne, e che mi diceva: “Alejandra, siamo stati creati per andare lì”».

Guarda il titolo del Meeting, che è scritto ovunque in Fiera: «Io ho incontrato un uomo che ha un desiderio grande, un desiderio che coincide assolutamente con quella domanda: “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?”. Ho visto un amico che vuole veramente “andare lì”, al compimento della vita. Per lui la mancanza è di vedere Dio. Noi possiamo fare tutto, passare la vita, dimenticandoci di quel che è vero. Ed io per questo sono venuta al Meeting: per collaborare a costruire questa cattedrale che mi aiuta a vivere».

Un consiglio: dopo aver letto, ascoltare, con calma, questo pezzo dei Mumford & Son. Chiude dicendo “sei fatto per conoscere chi ti ha fatto”.  Al Meeting è carne… non solo poesia.

PS: personalmente lavorare e presentare in questi mesi (e al Meeting) gli scritti di Marta e vedere come la vita le fiorisca attorno, non solo allora, mentre malata scriveva, ma ora, a 5 anni dalla sua morte, fa dire lo stesso dell’amica Alejandra. E in tanti amici possiamo dire di vedere la medesima realtà davanti ai nostri occhi. Torneremo presto a parlare di tutto ciò.