“Ad Aleppo noi viviamo come se ci fosse un terremoto continuo”

Oggi in tutte le chiese d’Italia si raccolgono fondi per le persone colpite dal terremoto del centro Italia. I vescovi italiani hanno indetto questa giornata, quale strumento efficace per venire incontro, utilizzando i canali capillari della Caritas, alle necessità causate dal terremoto.  È il gesto più concreto, vista l’eccezionale gara di solidarietà degli italiani che ha reso al momento perfino superflue altre forme di donazioni di cibo o vestiario,  o di altri interventi. Quindi tutti siamo caldeggiati ad aderire, donando durante le celebrazioni oppure direttamente ai parroci.

In questa giornata mi torna in mente la lettera scritta da  Aleppo da padre Ibrahim, che ha visitato Rimini già in diverse occasioni, facendoci partecipi del dramma di Aleppo con la sua toccante testimonianza di umanità e di fede. In quel dramma, in quella situazione terrificante (il link precedente ci porta al suo intervento al Meeting di due anni fa, ma poi padre Ibrhaim, tornò a Rimini chiamato dal Portico del Vasaio), per la quale ci siamo mossi per inviare aiuti anche recentemente, padre Ibrahim dimostra di avere a cuore il dramma dei nostri fratelli italiani colpiti dal terremoto. Merita di essere letta integralmente perché permette di imparare cosa vuol dire essere “cattolici”: avere un cordone ombelicale che ci lega al mondo intero, all’umanità diffusa nel mondo intero. La propria appartenenza a Cristo genera un’apertura, che permette, sotto le bombe di un nemico terribile, di ricordarsi e prendersi carico  delle vicende di persone che vivono in una situazione oggettivamente molto più agevole della propria.

Il senso del nostro obolo per i terremotati, acquista così piena dignità e può generare una novità profonda nella nostra vita, divenne segno efficace della costruzione di un mondo nuovo, dove nessuno è estraneo. Così ci insegna questo frate francescano, che si erge come figura di uomo a pieno, capace di vincere il male, di non essere sconfitto nella istruzione e di testimoniare un cuore aperto all’umanità intera:

“Mi si strazia il cuore a condividere le sofferenze della mia gente qua ad Aleppo ma quello che è successo ultimamente in Italia, cioè la morte di centinaia di persone e di tanti altri coinvolti nel terremoto, mi ha aperto nuove ferite. Li sento come se fossero i miei parrocchiani. Dal primo istante in cui ci è giunta la notizia degli eventi catastrofici del terremoto abbiamo offerto le S. Messe, le nostre preghiere, le sofferenze, la fatica dei nostri sacrifici quotidiani per gli italiani deceduti, per i loro familiari ed amici.  Abbiamo fatto questo perché siamo uniti… siamo un solo Corpo…, non è per caso che siamo membra di un solo Corpo: è una scelta fatta dal Signore e una grande responsabilità di carità e di comunione.”

 

 

Ecco la lettera integrale di padre Ibrahim.

 

Aleppo, 14 settembre 2016

Carissimi amici,

con grande amarezza nel cuore abbiamo accolto la triste notizia del terremoto in Italia. Da subito abbiamo offerto le S. Messe, le preghiere,  le sofferenze e le fatiche per le anime dei morti, per i feriti, per i familiari ed amici delle persone e delle famiglie colpite. Continuiamo a pregare per tutti voi.

Ad Aleppo noi viviamo come se ci fosse un terremoto continuo che non accenna a finire, in una crisi assurda che dura da più di cinque anni; continua la nostra via crucis e la lunga agonia del popolo siriano.

È un’agonia lenta, a questa parte del Corpo mistico della Chiesa manca sempre di più il fiato, le forze declinano, consumato dalla flagellazione e dai colpi.

Il periodo passato, in particolare, è stato di infinita tristezza per le atrocità e i danni subiti a causa delle bombe e dei missili che  hanno continuato a cadere senza tregua sulle abitazioni e sulle strade.  Nelle visite alle case danneggiate notiamo danni sempre più ingenti, causati da armi sempre più sofisticate e in grado di distruggere sempre più in profondità e qualità…

La sofferenza tocca sempre più da vicino gli abitanti di Aleppo, compresi i cristiani.

Per rendervi partecipi, vi racconto tre fatti che ci sono accaduti in questo periodo.

George Haddad, uno dei nostri martiri ad Aleppo
George Haddad, uno dei nostri martiri ad Aleppo

Il 15 di agosto, nel giorno della festa dell’Assunta, George Haddad, un giovane trentenne sposato con un figlio piccolo di sette anni, con la sua giovane famiglia era andato a far visita agli suoceri. Erano tutti seduti tranquilli in casa, sembravano al riparo da possibili attacchi, quando improvvisamente un missile è esploso sulla strada causando tanta distruzione e morte. Una scheggia del missile ha colpito il cuore del giovane, causandone la morte istantanea.

Ha così lasciato una giovane moglie e un bambino di sette anni.

 

George Haddad, uno dei nostri martiri ad Aleppo

Il 25 agosto, in pieno giorno, un missile è caduto su un edificio abitato a Jabrieh, una zona affollata in prevalenza da famiglie povere.

L’edificio bombardato a Jabrieh che ha provocato altri 5 martiri
L’edificio bombardato a Jabrieh che ha provocato altri 5 martiri

Il missile, con grande capacità di distruzione, ha provocato la morte di cinque persone, parecchie decine di feriti e danneggiato decine di case.

 

Il 26 agosto, Bassam, un bambino di 8 anni,  mentre giocava con i suoi amici nel giardino della chiesa, è stato colpito da una pallottola alla testa.
Era figlio unico di due giovani coniugi.
Da subito i medici hanno diagnosticato la morte cerebrale del piccolo,  i suoi genitori però non riuscivano ad accettare, a capacitarsi, sperando in un miracolo dal cielo. Il bimbo è rimasto per giorni inchiodato al ventilatore meccanico, morto ma con un cuore che palpitava.

La mamma, nonostante non riuscisse a distaccarsi dal figlio disteso immobile nel letto del reparto di Terapia Intensiva, il lunedì 29 agosto è venuta con suo marito alla Messa.

Mamma Kinda mi diceva che “questa croce è veramente pesante per lei…”, le ho risposto che questa croce non era soltanto sua ma di tutta la Chiesa di Aleppo e che la portavamo insieme, con le mani distese in preghiera non solo per Bassam ma per tutto il paese che vive ormai come fosse anch’esso in stato di morte.

Dopo giorni interminabili di massima sofferenza, il 30 agosto, verso il tramonto, è arrivata la notizia che il cuore di Bassam si era fermato. Il fermarsi del cuore è stato un segno di misericordia nei suoi confronti ma soprattutto per i suoi genitori che erano ormai inchiodati con lui al letto, col cuore straziato.

Il giorno dopo, giorno del funerale, è stata per me una lotta terribile contro il caos e la disperazione che tentavano con tutti i mezzi di regnare nel cuore della madre, del padre e di tutta la gente.

Ho passato la mattinata seduto di fronte ai genitori, accanto alla salma, per prepararli a vivere con serenità il funerale, come momento di preghiera e di comunione con il loro figlio.

E’stata una lotta difficile anche con i gruppi scout che facevano a gara a organizzare grandi manifestazioni per le strade, facendo rumore e suonando. E’ stata un’ardua battaglia con i molti parenti che pianificavano di portare la salma lungo le strade, danzando come se fossero a  una  festa di nozze, per manifestare il dolore e la disperazione…

Alla fine, il Signore della pace ha prevalso e abbiamo potuto celebrare il funerale con calma, in un atmosfera di profondo raccoglimento e di preghiera.

Nell’Omelia, di fronte a una grande folla che gremiva la chiesa, ho parlato dell’immagine di Dio, che si riflette attraverso la vita di Gesù, di un Dio tenero, buono, misericordioso e innamorato dell’uomo, che pensa al bene ultimo degli uomini e ben sa come fare per farli giungere a questo bene, anche attraverso il male che esiste nel mondo.

La celebrazione del funerale del piccolo Bassam
La celebrazione del funerale del piccolo Bassam

Questa immagine del Dio buono, ho detto, viene demolita in modo sottile e qualche volta invece in modo diretto dal nemico, soprattutto nei momenti più drammatici come può essere il funerale dei propri cari. Sono tentazioni terribili contro la fede in un Dio buono, che nonostante sia Onnipotente, non impedisce il male legato alla libertà dell’uomo ma può far nascere il bene dal male, la vita dalla morte.

Così, nonostante tutta la tristezza e l’agitazione iniziale, durante il funerale ci è stata donata una pace che poteva venire soltanto dall’alto. Durante le condoglianze, al termine della giornata, si è riusciti perfino a strappare dei sorrisi dal volto dei genitori e dei familiari di Bassam.

Il funerale passato in preghiera con uno spirito di raccoglimento è stato un miracolo, accolto e testimoniato come tale da tutti i presenti: è stata una testimonianza della risurrezione di Cristo.

Così  è Aleppo: una città di distruzione e di morte… Non sono sicuro che esista ancora…

Ogni giorno accadono storie come queste, dolori di genitori che perdono i figli o di figli che perdono i genitori. La gente è sempre sotto shock e soffre tantissimo.

Noi frati ci facciamo carico della croce quotidiana della gente, una croce che diventa sempre più pesante.

Passiamo le giornate nel dolore e nella fatica, fra le visite agli ospedali, l’accompagnamento dei moribondi, la celebrazione dei funerali, le visite alle case danneggiate e alle famiglie senza tetto.

Il cuore però è attento ad una sfida assai difficile, quella di custodire la fiamma ardente della fede seminato con il Battesimo nel cuore di ogni fedele di Aleppo, in mezzo a questa grande tempesta che soffia da più di cinque anni e che rischia di distruggerla continuamente.

Grazie dal cuore… un grazie ripetuto da noi sempre in forma di preghiera, per tutti voi che pensate a noi, che pregate per noi e che continuate a sostenerci con tutti i mezzi possibili.

Mi si strazia il cuore a condividere le sofferenze della mia gente qua ad Aleppo ma quello che è successo ultimamente in Italia, cioè la morte di centinaia di persone e di tanti altri coinvolti nel terremoto, mi ha aperto nuove ferite.

Li sento come se fossero i miei parrocchiani.

Dal primo istante in cui ci è giunta la notizia degli eventi catastrofici del terremoto abbiamo offerto le S. Messe, le nostre preghiere, le sofferenze, la fatica dei nostri sacrifici quotidiani per gli italiani deceduti, per i loro familiari ed amici.

Abbiamo fatto questo perché siamo uniti… siamo un solo Corpo…, non è per caso che siamo membra di un solo Corpo: è una scelta fatta dal Signore e una grande responsabilità di carità e di comunione.

Nel nome della mia gente, dei parrocchiani e in modo speciale dei nostri ragazzi, vi ringrazio per le preghiere che fate per noi.

Continuate per favore con insistenza a pregare: vogliamo vincere la guerra con la preghiera…

Un grande saluto pieno di affetto e di carità da parte nostra ad ognuno di voi.

Uniti nella preghiera.

Che il Signore vi benedica.

Frate Ibrahim

 

Avevo intervistato un santo

È arrivata subito, ed ha riempito i mass media, la notizia della morte di Vittorio Tadei, una delle ultime figure, ancora viventi, di grande imprenditore della cultura cattolica. Uno di quelli che hanno costruito l’Italia negli anni ’50, per capirci. Un uomo di tempra, capace di concretezza e di umanità, di spirito pratico e di grande fede. Se l’Italia crebbe oltre ogni aspettativa e smise di essere un’ “Italietta”, almeno parzialmente,  in buona parte lo dobbiamo a persone di questa stoffa. Una testimonianza, quella di Vittorio, che ancora oggi lascia sentire la sua voce. La Teddy, da lui fondata, continua ad essere un faro nel mondo dell’economia locale e internazionale. E il metodo, raccontano le figlie, è sempre quello segnato da Vittorio.

Nel 2011 ebbi l’opportunità di intervistarlo. Allora dirigevo Oltre, periodico della Karis Foundation, che uscì per qualche anno. Tra le notevoli interviste che abbiamo avuto occasione di fare (Stefano Zamagni, Wael Farouq, Waters…) , quella di Vittorio è una delle più impressionanti. Titolai il pezzo Oltre Steve Jobs, poiché mi parve chiaro che Vittorio possedeva una lungimiranza che faceva pensare ad un visionario, come lo era Jobs, ma, allo stesso tempo, l’umanità e il senso delle cose che da lui promanava erano decisamente un passo oltre.  Scrissi allora, introducendo il pezzo, Non facile intervistare Vittorio. Lui ama i fatti e non le parole. Tuttavia le parole che escono dalla sua bocca hanno un peso specifico enorme. Semplici e dirette, nascondono anni di esperienza, di tormento e di creatività, di semplicità e di fede. Uscito dall’intervista ho una percezione netta e chiara, che riempie l’animo di positività e che però non posso qui esternare. Posso solo definirla così: ho conosciuto un po’ meglio una persona che non si può non incontrare”.

Allora non mi sembrava delicato (vista la riservatezza di Vittorio) esprimere  quel pensiero che condivisi subito con l’ex alunno Karis che lavorava (e lavora) da lui e che aveva insieme a me condotto l’intervista, Andrea Arcangeli. Uscito guardai Andrea  e gli dissi, “Ho intervistato un santo!”. Credo che ora lo si possa dire, senza dare a questa espressione una connotazione spiritualistica, e neppure di stampo “ecclesiastico”, quasi da santo del calendario. Non ho nessuna competenza in tal senso. Ma se il santo nella chiesa è colui che si affida totalmente a Dio, al Mistero presente e prossimo nella storia dell’uomo, ebbene Vittorio trasudava questo abbandono. Un abbandono che fa venire in mente l’artista Bill Congdon, recentemente riscoperto a Rimini da tanti, grazie ad una iniziativa del Portico del Vasaio.  Anziano, a pochi giorni dalla sua morte, fu intervistato da Red Ronnie e parlò in termini impressionanti dell’ abbandono in cui consiste tutta la vita. In un bell’articolo di Laura Staccoli, si percepisce che la radice della grandezza di queste due vite, sta nella ricerca di ciò che realmente  riempie la vita e nella scoperta che questa ricerca consiste in un abbandono nelle braccia di un Altro che attende. (E nel lettore forse sovverrà qualche richiamo all’anno della Misericordia, ma tutto è uno, la vita è una e nella vita di un grande uomo sta la storia intera, anche nei suoi passi più recenti).

Vi propongo qui di seguito, pressoché integralmente, quell’intervista a Vittorio. Era l’occasione del 50° della Teddy (bellissimo il suo discorso tenuto alla convention dell’azienda e che potete leggere qui, mentre seguendo questo altro link potete vedere il video girato in quell’occasione e che nella parte finale riprende proprio Vittorio mentre parla).

Da sinistra: Vittorio Tadei, Giovanni Gemmani e don Giancarlo Ugolini
Da sinistra: Vittorio Tadei, Giovanni Gemmani e don Giancarlo Ugolini in occasione dell’inaugurazione della sede presso la Comasca della Karis Foundation.

Occorre chiarire anche il filo diretto che lega Vittorio, sempre attento all’educazione dei giovani, con le scuole della Karis.

Insieme a Giuseppe Gemmani (figura che per tanti aspetti presenta similitudini con Vittorio) acquistarono la colonia Comasca e la trasformarono in un edificio adatto per le scuole Karis, accollandosi tutti i costi. Di questi gesti di assoluta gratuità ed utilità sociale e culturale, Vittorio ne ha compiuti a centinaia. Erano la sua quotidianità.

 

 

 

 

Da Oltre n. 2 del marzo 2012

Vittorio, qual è il segreto della Teddy?

Sono le persone a fare la differenza. Sempre. Noi scommettiamo sulle persone. Gli uomini sono tutti uguali, perché immagine di Dio, ma io sono sempre stato affascinato per i tipi appassionati, appassionati alla vita.

Sono 50 anni di Teddy. Siamo in una crisi terribile eppure siete in crescita. Dove è il segreto?

Bisogna sempre cambiare. Noi abbiamo già iniziato un cambiamento importante. Per far questo occorre che chi lavora in azienda sia partecipe dello spirito che qui si vive, che ne sia consapevole così da poter dare il suo contributo unico e irripetibile. Ognuno può e deve essere imprenditore di se stesso. Se è così allora sarà capace di distaccarsi dalle forme vecchie per crearne di nuove, sarà in grado di affrontare i problemi che sempre, di volta in volta, si parano innanzi.

Ma come si fa a diventare imprenditori di se stessi?

Occorre lavorare con un desiderio grande. Lavorare per lo stipendio non basta. É necessario ma non basta. Non basta all’azienda, che ha bisogno di uomini e non di dipendenti, ma non può bastare neppure personalmente. Non rende felici. Questo desiderio di vivere un sogno grande è parte del segreto della Teddy.

(Qui interviene il nostro ex alunno, Andrea Arcangeli)

“Vittorio ti cambia. Quando entri qui scommette tutto su di te e sei responsabilizzato. Ti cambia e ti aiuta a giocarti con tutto te stesso nel lavoro che fai. È accaduto a tanti qui dentro”.

Ma il punto vero è – riprende con energia Vittorio Tadei – che noi abbiamo un Socio di maggioranza tale che la nostra storia non puó andare male. Finché saremo legati a Lui sono certo che andremo avanti per altri 50 anni, anzi 500.

Socio di maggioranza?

È Gesù. Io sono fiducioso, perchè vedo che chi ha preso in mano oggi l’azienda ha fede come e più di me. Allora sono tranquillo. Non verrà a meno il Socio di maggioranza.

E qui tocchiamo il fulcro della questione. Capiamo meglio il “sogno” della Teddy, il pensare in grande, ecc. A dispetto di chi ritiene che fede e affari siano due entità incompatibili, Tadei non intende il riferimento alla fede in chiave spiritualistica o moralistica e chiarisce…

La nostra azienda è portata da un Altro. La mia vita intera è sempre stata portata da un Altro. Io non ho fatto altro che seguire quello che mi veniva chiesto. È Lui che mi ha fatto capire le cose essenziali della vita, tra cui quella principale ovvero la cosa che ti fa contento. Non ti fa contento il denaro o il successo. Io ho capito sempre più che puoi essere contento solo in relazione col Padre eterno. Tutto il resto passa e lascia l’amaro in bocca. Abbiamo bisogno dell’eterno. Questo ci vuole per fare una buona azienda.

Ci ha parlato di relazione con il Padre eterno e di essere portati da Lui. Ma come riconoscerlo? Come riconoscere quello che è chiesto?

Dai fatti. Le parole non servono, bisogna lasciar parlare i fatti.

Ovvero?

Le vicende che accadono nella vita ti chiedono sempre qualcosa. Uno che ha bisogno, l’altro a cui devi dare fiducia, l’incontro con culture differenti… Quel che ti succede, ti parla e chiede una risposta… come la vita di mio figlio Gigi, che mi ha insegnato che occorre sempre rispondere ad un bisogno. (il figlio di Vittorio, Gigi, è morto precocemente e tragicamente ndr).

Perché Gigi è stato così importante?

Gigi è fondamentale per la Teddy, perché ci obbliga a porci la domanda “a cosa serve tutto?” Inoltre ho capito, grazie a lui, quella che è la vera utilità delle persone, che non coincide con quello a cui servono. Gigi, che ci aiuta ancora da lassù, ha portato la dimensione della gratuità in azienda. Io ho imparato tutto da lui e ringrazio don Claudio per come lo ha accompagnato.

E questo é il metodo che ha applicato in azienda?

Nell’azienda e nella vita. Qui abbiamo tanti che vengono da fuori, da situazioni difficili e che ora sono colonne portanti. Nella vita io ho ascoltato i fatti. In realtà io non sono affatto adeguato rispetto a quel che vedo essere accaduto. E sono grato perchè malgrado non sia in grado di farlo, sono stato scelto. Io non ho scelto nulla ma sono stato scelto.

di Certo nella vita sono accaduti a me alcuni passaggi più significativi di altri. In particolare ricordo due frasi. La prima l’ho letta quando avevo 13 anni, nella mia casa bombardata di via Abruzzo. Era il 1948 e camminando tra le macerie, ho trovato un libro aperto dove ho letto queste parole: “L’uomo è amministratore dei beni che dispone e non padrone”. Questa frase per me è liberante. La seconda frase che mi ha guidato in questi 50 anni di storia l’ho letta sul muro di un convento vicino a Pistoia. Ce l’ho ancora stampata negli occhi: “A cosa ti serve conquistare il mondo intero se poi perdi te stesso?” Non capivo quelle frasi. Non avevo nulla, non guadagnavo nulla. Ma ne avvertii il fascino. Compresi che nella vita il problema è solo uno: quello di essere felice, di trovare ció che ti fa felice.

Sembra impossibile che quanto lei ci racconta possa però accadere in un’azienda, possa tenere in piedi un’azienda da quasi 400 milioni di euro di fatturato…

Invece è così. Le faccio questo esempio. Nel 1988 ho preparato la successione alla guida dell’azienda. Io non volevo si creassero frizioni e conflittualità. Doveva guidarla chi era capace di farlo, qualsiasi cognome avesse (Tadei o non Tadei). C’erano due o tre che erano in grado. E io avevo in mente chi, ma non volevo si accendessero difficoltà, che qualcuno ci restasse male. Senza che io lo dicessi, quello che avevo in mente è stato indicato da più di un top manager dell’azienda. In particolare due di loro avrebbero potuto ambire alla guida, ma indicarono lui, Alessandro. Furono capaci di quella volontà di guardare i fatti e la realtà di cui le dicevo prima, perchè effettivamente Alessandro ha una marcia in più. E lui peraltro vive una fede vera. La Teddy va avanti per la fede. Occorre ricordarselo sempre.

Siamo su un giornale di una scuola. Cosa vorrebbe dire ai giovani?

Che cerchino ciò che li fa veramente contenti. Devono sempre inseguire questo ideale. Niente di meno puó essere adeguato loro. E la felicità è data dal seguire Lui. Sempre.

Uscendo, Andrea mi mostra alcuni pannelli in cui sono riassunte le opere di educazione e di assistenza sostenute o direttamente create dalla Teddy. È una sequela impressionante di luoghi e volti, alcuni legati a don Oreste Benzi, altri a Comunione e Liberazione. Nel silenzio, senza alcuna ostentazione, la Teddy opera nella società secondo principi che allargano il cuore e gli orizzonti. E tutto ciò, grazie ad un uomo che ha accettato Chi l’ha scelto. Il tutto dentro una semplicità disarmante, capace davvero di vincere la crisi, su cui Vittorio ci dice “ce ne sono state tante. La crisi significa solo che dobbiamo fare meglio e di più. D’altra parte con un Socio di maggioranza così, chi ci può fermare?”.

 

Per non rimanere fermi, per ripartire subito, per affermare la nostra speranza invincibile o per (ri)trovarla

tempio malatestiano duomoCondivido con tutti questo avviso che mi è giunto poco fa. È per tutti. Ne son  proprio convinto dopo aver parlato a lezione con i miei ragazzi e dopo aver ascoltato un caro amico che lavora a Parigi e che per poche ore è riuscito a tornare come di consueto nel fine settimana a casa. Mentre gli suggerivo di attendere almeno qualche giorno prima di  tornarci, lui mi dice “Non è un problema di sicurezza, ma di vuoto. In città in questi mesi è palpabile. C’è un vuoto di chi tutto sommato non vede il male di questi terroristi, non crede alla Francia che racconta Hollande, non crede più in nulla. E sono la maggioranza. È proprio come scrivi tu: c’è un vuoto che è insostenibile.”

Parole che fanno rabbrividire.

 

Ecco l’avviso per tutti…

“Dal mistero della Risurrezione di Cristo una luce nuova investe il mondo
e contende palmo a palmo il terreno alla notte” (L. Giussani).

Certi di questa presenza misericordiosa, più grande di ogni male, che “contende palmo a palmo il terreno alla notte”,
ci ritroviamo a pregare per le vittime degli attentati di Parigi della notte scorsa,

con il SANTO ROSARIO ALLE ORE 19,00 sul  Sagrato DI FRONTE AL DUOMO di Rimini, con il nostro Vescovo,

domandando la rinnovata consapevolezza che il vuoto e la violenza possono essere vinti solo dalla

“capacità della fede che abbiamo ricevuto di esercitare un’attrattiva su coloro che incontriamo
e dal fascino vincente della sua bellezza disarmata” (J. Carrón).

Magistra vitae o magistri ideologiae?

Da Ariminol del 24 ottobre 2003 (pag.12)

 

Che ci azzecca padre Pio, con Mazzini e Mussolini? Nulla o ben poco. Tuttavia chi avesse ascoltato la conferenza del prof. Sergio Luzzato, tenuta il 6 ottobre scorso all’interno del ciclo “Tra le pieghe della storia”, quarta edizione di “Magistra vitae?”, avrebbe scoperto che un filo rosso lega i tre personaggi e non solo. Questo filo o cappio che stringe in una morsa letale la ricchezza degli eventi, abbraccia anche Silvio Berlusconi, Karol Woytila, e tanti altri…

Già perché ultimamente per un’ ampia parte dell’intellighentia, tutto parte dal grande incubo dell’Italia di oggi: Silvio Berlusconi. E’ il grande tormentone, impossibile liberarsene. Una fobia. La stessa fobia che sembrava aleggiare durante l’incontro con Luzzato.

Semplice e accattivante il percorso proposto.
In questo tempo in cui impera il berlusconismo, non possiamo non interessarci del corpo (body history è la branca della storia in cui è specializzato Luzzato, ordinario a Torino per storia contemporanea). L’imprescindibilità dello studio del corpo nella storia è data proprio dal fatto che oggi Berlusconi (ma non solo lui) utilizza con grande perizia la sua immagine fisica per comunicare (teatralità, presenzialismo, culto dell’immagine).

1. “Per un italiano secondo me, (…) il primo corpo con cui fare i conti, -diciamo pure-, negli anni 90 , -se si può dire-, in cui da cittadini abbiamo vissuto l’avvento di un personaggio, che ha anche un corpo che lui considera forse comunicativo, e che molti italiani considerano comunicativo, forse carismatico, come il corpo di Silvio Berlusconi, (pausa)..no… cioè non so quanti di voi hanno ricevuto due anni fa durante la campagna elettorale questa specie di fotoromanzo che si chiama una storia italiana, era una cosa istruttiva per chi si occupa di storia. C’erano sessantatré foto di Berlusconi, solo nella copertina (…) Negli anni 90 interessarsi ai corpi forse aveva anche questo significato laterale, parallelo… inconfessabile per chi vuol far della storia un esercizio professionale nel senso che questo non ci deve fuorviare (…) ma è inutile nasconderci il fatto che nel rapporto tra politica e religione i corpi contano. Per me il primo corpo con cui fare i conti è sembrato quello di Benito Mussolini.”

 Facile il passaggio a Mussolini; più complesso invece quello a Mazzini (fatto imbalsamare, fatto raro per un politico, dai suoi). Passaggio complesso ma non assente. Infatti questa pratica altro non è che una ricerca di esaltazione del corpo (morto o vivo che sia), similare a quel secolare culto dei Santi proprio della Chiesa. Ecco allora la necessità di andare all’origine, fino a giungere a chi la santità l’ha “inventata”: studiamo dunque padre Pio. Per dire fondamentalmente che è un impostore e che questo culto necrofilo del corpo risulta una pratica propria delle culture e delle democrazie non mature (vedi l’uso dei regimi socialisti asiatici di imbalsare i vari Lenin, Mao…) Queste culture immature, non fiduciose della forza delle idee, cercano fondamenti superiori nell’eternizzazione dei corpi. La Chiesa è maestra di questa arretrata pratica, aggravata da sconcertanti e utilitaristici voltafaccia. E si cita padre Gemelli, il quale sentenziò l’inaffidabilità di padre Pio, che oggi invece la Chiesa pone sugli altari della Santità.

Il tutto infarcito di riferimenti all’attualità, a dispetto della dichiarata impossibilità per uno storico di dare giudizi sul presente dovendo esso limitarsi a registrare quel che è stato. Riferimenti all’attualità che in realtà, come è giusto, abbondano ma secondo un copione un po’ rigido. Già perché vanno tutti in un senso ben preciso. Si pensi al giudizio su Giovanni Paolo II, il quale è visto come eretico ed un po’ demoniaco, essendosi permesso di affiancare al vero Cristo, la figura di padre Pio intesa come “alter Christus”. Infatti un sacerdote che ha le stigmate è l’icona dell’alter Christus: celebra l’incarnazione di Cristo nel pane e nel vino, e nel frattempo sanguina dalle reali ferite di Cristo. Giovanni Paolo II sarebbe complice di questa deviazione teologica, avendo affermato del santificato che “egli è stato pane spezzato”. Frase che in realtà è assai meno esplosiva di quanto non creda Luzzato, se si tiene conto che per la teologia cattolica il cristiano, ogni cristiano, appartenendo alla Chiesa, appartiene al corpo mistico di Cristo e quindi è “pane spezzato”. Eppure Luzzato, che credente non è, vuol tuttavia catechizzarci, correggendo il papa stesso. All’interno del medesimo schema ecco l’altro giudizio su Giovanni Paolo II: con padre Pio e con le altre sue iniziative massmediatiche, egli si permette di inseguire l’audience e dunque di far male alla Chiesa, preferendo le masse a coloro che comprendono l’autentico cristianesimo.

“Se papa Woytila avesse un po’ più tempo farebbe santi tutti qua dentro; come Lei sa papa Woytila ha fatto più santi lui da solo che tutti gli altri nella storia della Chiesa. Il fatto che li abbia fatti a destra e a sinistra, al centro, dietro…Comboni era una specie di Che Guevara dell’Ottocento, Escrivà de Balaguer era una specie …di … scegliete voi l’esempio (…). Da questo punto di vista le ricorderò una cosa molto significativa e molto grave che ha detto papa Woytila il 2 maggio 1999, quando padre Pio è stato beatificato (…) ha detto una frase che alla sue orecchie di cattolico non mancherà di echi, ha detto “egli è stato pane spezzato” (…) Di Cristo è giusto che ve ne sia uno solo. Quando papa Woytila dice “egli è stato pane spezzato”, dice una cosa molto grave perché si assume la responsabilità di sostenere (…) che padre Pio, fino a prova contraria, se è stato pane spezzato, vuol dire che è stato unto dal Signore e che è stato un secondo Cristo. A me la cosa non mi riguarda (…) non sono credente (…) però che per inseguire i grossi numeri, i dieci milioni che guardano Castellitto alla televisione, un papa abbia bisogno di dire che padre Pio è stato pane spezzato, ecco… io, se fossi voi, se partecipassi alla comunità ecclesiale alla quale lei partecipa, qualche domandina me la farei.”

Forse si riferisce a quell’élite cattolica che nel corso del Novecento, inseguendo una presunta modernità, aveva ridotto ad un silenzio mortificante il popolo cattolico, disfatta di cui si era ben accorto lo stesso Paolo VI?

Infine, il mal celato schema della conferenza entra prepotente nella politica con gli immancabili riferimenti ironici all’onnipresente Berlusconi: si cita “una storia italiana”, il rapporto pubblico/privato; si ironizza sull’assonanza tra la “casa sollievo della sofferenza” e la “casa delle libertà” e così via.

“Non ci dimentichiamo che padre Pio ha fondato la “Casa sollievo della sofferenza” (…) e non ci dimentichiamo che l’ha chiamata “Casa sollievo della sofferenza”, ora la “casa” ci ricorda la “Casa delle libertà” e questo personalmente non mi piace, però il sollievo della sofferenza è qualcosa che difficilmente non si può condividere.”

Che ci azzecca?
In realtà l’ordito che viene presentato è piuttosto chiaro e si allontana assai dal tema dichiarato (trovare esperienze emblematiche ed esemplari di ricerca storiografia): è l’espressione della lotta militante di una cultura laica decisamente stanca ed esangue.

“Ma veniamo al ciclo di quest’anno, si intitola tra le pieghe della storia, sono pochi exempla di temi e modalità di ricerca (…) la scelta è caduta su alcune esperienze che noi giudichiamo esemplari…”

Così si guardano i modelli della religiosità cristiana come modelli da imitare e da ripulire della loro scoria trascendente, superstiziosa e fideistica, cosa che inspiegabilmente non è ancora riuscita alla società secolarizzata di oggi. La quale invece sembra, con il berlusconismo, imitarne gli aspetti più esteriori ed esecrabili.
La lotta è dunque lunga, ma i suoi cultori non demordono, impegnandosi per la verità più a dissacrare che a ragionare, più ad insinuare il dubbio che a ricercare spunti per illuminare e capire la storia. Con nauseante ridondanza si afferma la propria incapacità di cogliere verità, si sbeffeggiano le certezze troppo simili a regolette che dovrebbero semplificare la storia, si ostentano dubbi e sospetti, più che domande, dietro ai quali poi si nascondono giudizi caustici e dogmatici su uomini, religione e politica.

A questo punto nasce spontanea una considerazione sul punto di domanda a fianco del titolo “Magistra vitae?”: se la storia non è maestra, l’alunno in fondo ha diritto all’autoapprendimento. E’ significativo che in questa foga distruttiva la prima vittima sia appunto la storia, nella sua specifica struttura epistemologica. Lo stesso Luzzato ammette di provare un senso di smarrimento e di oscurità che rende fosche le sue stesse tesi interpretative, cosa che non stupisce giacché si sostiene che solo chi è istintivamente nemico ed estraneo ad un evento, lo possa studiare con onestà intellettuale.

“(questa prospettiva) è tenebrosa perché alcune delle cose che io dico non le ho capite neanch’io, cioè. credo che lo storico abbia il dovere di cercare di porre delle domande e dare delle risposte, ma il primo dovere dello storico è quello di complicare le cose, starei per dire confondere le idee (…) Non è un caso che personalmente mi capiti molto più.”

Al contrario, l’esercizio proprio di ogni lettore di storia, oltre che dello studioso, è quello di immedesimarsi, simpatizzare, penetrare (entrare dentro) l’evento, sforzandosi di superare ogni barriera, compresa quella, a volte così complessa ma per questo ancor più affascinante, del tempo.

Ma questa, forse, è un’altra storia.