25 aprile, rinasce l’Italia. E noi? Siamo rinati?

Oggi è il 25 aprile, festa simbolo della liberazione dell’Italia. Liberazione dal fascismo o da ogni ideologia di morte? Liberazione dalla politica fatta di sopruso e misconoscimento del valore dell’uomo in quanto uomo oppure altro? È vera liberazione oppure solo sostituzione di una nuova ideologia ad un’altra passata (comunismo, liberalismo, anarchismo, efficientismo, economicismo…)?

Sono domande legittime perché il 25 aprile, così come la stessa parola Resistenza, ancora oggi sono elementi che dividono. È notizia di poche ore fa, quella di contestazioni in piazza San Babila a Milano contro la Brigata ebraica da parte di associazioni anti sioniste. In nome di una propria battaglia politica, si esclude dalla Resistenza chi si ritiene debba esserne escluso. In nome della Resistenza si afferma un nuovo fascismo. Ma gli esempi sono innumerevoli.

Il motivo, per quanto difficile da affrontare e complesso da superare, è semplice, ed è tutto nella domanda che ci siamo posti poco sopra. Domanda a cui la risposta corretta è una sola ovviamente, mentre nelle manifestazioni sparse per l’Italia, sempre più stanche e piuttosto formali, non risulta affatto ovvia, anzi è spesso taciuta e sostituita, più o meno esplicitamente, con un’altra risposta.

Per questo vorrei festeggiare il 25 aprile con una storia diversa, poco conosciuta, che mette in luce i caratteri ambigui di una Resistenza che deve ancor oggi scoprire il suo volto vero (che c’è ed è splendente), smarcarsi da ipocrisie e violenze contrapposte. La violenza come metodo politico è sempre foriera di male, di autoritarismo, di negatività. Occorre imparare a dirlo una volta per tutte. La violenza nera è stata una tragedia per l’Italia ma la violenza rossa altrettanto, e dobbiamo essere grati a chi ne impedì la possibilità di affermarsi, in quei turbolenti anni che vanno dal ’43 al ’48 in Italia. Il tutto senza tacere sulle contraddizioni rimaste aperte e le ombre che continuano ad oscurare la storia della nostra Italia, da qualunque parte provengano.

Vorrei festeggiare il 25 aprile, dunque, con la storia di Rolando Rivi, seminarista del modenese, ucciso il 13 aprile del 1945 dai partigiani all’età di 14 anni perché non volle abbandonare la sua tonaca. Questo ragazzino aveva una fede forte, tenace. Aveva le idee chiare sul futuro. Quel futuro che poi l’Italia andò in parte a costruire. Anche il suo sangue non è stato versato invano. Reagì alla propaganda anticlericale che si stava affermando tra alcuni resistenti e qualcuno pensò bene di zittirlo.

I partigiani per giustificare il nefando omicidio (lo uccisero dopo tre giorni di torture), – omicidio che non fu isolato e riguardò numerosi sacerdoti (si ricordi il triangolo della morte tra Bologna, Reggio e  Modena e le fosse comuni che vennero scoperte successivamente) uccisi solo perché erano tali e non c’era posto per loro nella società del sol dell’avvenire –, sostennero che era una spia fascista (un ragazzino di 14 anni). Un processo “del popolo”, senza prove e in forma sommaria, (che ricorda il linguaggio e le modalità delle Brigate Rosse, le quali negli anni ’70 sostenevano che la Resistenza in Italia non aveva terminato il suo lavoro, che era stata tradita dal Pci). Il successivo processo agli assassini, smascherò le presunte accuse, come infondate.

Il fatto grave è che quella giustificazione posticcia è sostenuta ancora da qualcuno oggi. Basta navigare nei siti dell’anarchia e degli antagonisti, per trovare diffusa questa bufala, inventata per salvarsi dal processo che venne intentato e che condannò i protagonisti, poi usciti dal carcere per un’ amnistia. Una bufala che poggia su ragioni date a partire da un teorema costruito a priori (la  chiesa sta sempre con i potenti) e giustificatorio poi di ogni violenza (senza neppure il bisogno di arrivare a un processo e a prove conclamate). In sostanza un fascismo di misura uguale, seppure contraria, a quello del ventennio.

Interessante vedere come oggi, al contrario, esistano seri tentativi di smarcare questa festa, fondativa della nostra Italia contemporanea, dalle ombre che la condannano ad una parzialità che a sua volta condanna l’italia a non avere patria, a non essere patria.

Aldo Cazzullo, anticipa su corriere.it la prefazione al suo libro Possa il mio sangue servire. Dopo aver chiarito che la scelta giusta allora fu l’antifascismo, fatto ovvio che non deve essere messo in dubbio mai – come a volte invece accade ed è menzogna ancora una volta identica e contraria alla precedente -,  scrive tra le altre cose:

C’è poi un altro fattore, non meno importante, che rende difficile a una platea ampia se non unanime riconoscersi nella Resistenza; ed è l’uso di parte che ne è stato fatto. La Resistenza è stata vittima di un grande imbroglio ideologico. I partiti se ne sono impossessati, come se l’avessero fatta loro. E l’hanno usata come foglia di fico per nascondere le loro operazioni di potere, i loro legami con potenze straniere, talvolta i loro furti. Tuttora la Resistenza è spesso considerata come una cosa solo «di sinistra»: fazzoletti rossi e Bella ciao. A una presentazione in una libreria di un quartiere popolare romano, un signore si è alzato inveendo: «Basta storie di suore e di preti! I tedeschi li abbiamo combattuti noi comunisti!». Ma anche questa è una semplificazione.

Non credo a una lettura ideologica della Resistenza. Certo, molti partigiani erano comunisti. Poi c’erano i monarchici, i cattolici, gli azionisti, gli anarchici, i socialisti. E c’erano soprattutto migliaia di ragazzi che di politica e partiti sapevano poco o nulla, sapevano solo che non volevano combattere per Hitler e per Mussolini, e andarono con le brigate Garibaldi non perché fossero comunisti o con gli azzurri non perché fossero monarchici, ma perché nel loro paese erano passati prima gli uni o gli altri. Molte bande partigiane sulle Alpi furono formate da militari, spesso insieme con i preti. I capi più combattivi erano sovente alpini, come Maggiorino Marcellin «Bluter» che comandava in Val Chisone, come Nuto Revelli reduce dalla Russia, come Enrico Martini «Mauri» che guidava gli azzurri delle Langhe, come il capitano Piero Cosa che fonda la banda della Valle Pesio insieme con sua sorella Ottavia.

E così la vicenda di Rolando Rivi può mettere in chiaro, oltre ad una luminosa vita di fede, che il riconoscimento dell’altro, la capacità di amare l’altro seppure la pensi diversamente, la costruzione di una civiltà che Giovanni Paolo II chiamò della verità e dell’amore, è possibile. Ed è il vero tratto fondativo, a mio modesto avviso, della nostra Italia repubblicana, un’Italia democratica, ovvero capace di riconoscere dignità e diritto di cittadinanza all’altro in quanto altro, per l’appunto. Laddove è sempre più chiaro che non esiste democrazia, se non in individui liberati dalla tentazione di ridurre la battaglia politica in una vendetta, in una vittoria esclusivista, in un’affermazione egemonica di un potere (si chiamasse pure democratico). Non c’è democrazia se non in individui continuamente rinnovati e liberati  dalle potenzialità del male che, nella sua banalità (Arendt), è sempre pronto ad insinuarsi tanto nelle azioni più quotidiane dell’uomo, quanto nei grandi momenti della storia. 

Le parole del vescovo di Modena nell’omelia della cerimonia di beatificazione di Rolando Rivi (ottobre 2013) sono l’emblema di questa cultura aperta all’altro. La riportiamo per intero desumendola dal sito zenit. Sottolineamo solo questo passaggio, “Cari fratelli, davanti a questa immagine luminosa di bambino, strappato con violenza alla vita e all’amore, noi cristiani non siamo pieni di rancore in cerca di rivincite. No, vogliamo ricordare e celebrare la vicenda martiriale del piccolo Rolando Rivi con un atteggiamento di perdono, di riconciliazione, di fraternità umana. Vogliamo gridare forte: mai più odio fratricida, perché il vero cristiano non odia nessuno, non combatte nessuno, non fa male a nessuno”.

Superare l’antagonismo, la vendetta, la politica della negazione, per invece indirizzarsi all’affermativo, al valore, al positivo, alla voglia di costruire è quanto abbiamo intravisto nella prefazione del testo di Aldo Cazzullo.

Di un valore costruttivo simile, l’Italia ne ha davvero bisogno oggi, tanto quanto allora. Ne facciamo esperienza continua nelle nostre giornate. Ecco cosa celebrare, dunque, in questo 25 aprile.

La forza operosa di un’Italia rinata grazie alla speranza, polivoca e plurale, di molti. Lontani da ogni ideologia di odio e di morte.

Ecco l’omelia integrale. 

Fratelli e sorelle è con le lacrime agli occhi che mi accingo a parlare del Beato, Rolando Rivi, morto martire per la fede [1]. La commozione sgorga dal mio cuore di vescovo, che piange la morte di questo ragazzo, forte come una quercia per onorare e difendere la sua identità di seminarista. Al lampo di odio dei suoi carnefici egli rispose con la mitezza dei martiri, che inermi offrono la vita perdonando e pregando per i loro persecutori.

Il martirio di Rolando Rivi è una lezione di esistenza evangelica. Era troppo piccolo per avere nemici. Erano gli altri, che lo consideravano un nemico. Per lui tutti erano fratelli e sorelle. Egli non seguiva una ideologia di sangue e di morte, ma professava il Vangelo della vita e della carità.

Obbediva con semplicità e gioia alle parole del Signore Gesù, che un giorno rivelò ai suoi discepoli l’atteggiamento giusto per affrontare i nemici: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra, a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica […]. Amate i vostri nemici» (Lc 6,27-29.35).

Ecco cosa aveva Rolando nel suo cuore di bambino, un amore per tutti: amare non solo i genitori e i fratelli, ma anche i nemici, fare del bene a a chi lo odiava e benedire chi lo malediceva. Era questa – e lo è ancora – una dottrina rivoluzionaria, certo, ma nel senso buono, perché porta ad atteggiamenti di fraternità, di tolleranza e di rispetto della libertà altrui, senza soprusi, senza imposizioni forzate e senza spargimento di sangue.

Cari fratelli, davanti a questa immagine luminosa di bambino, strappato con violenza alla vita e all’amore, noi cristiani non siamo pieni di rancore in cerca di rivincite. No, vogliamo ricordare e celebrare la vicenda martiriale del piccolo Rolando Rivi con un atteggiamento di perdono, di riconciliazione, di fraternità umana. Vogliamo gridare forte: mai più odio fratricida, perché il vero cristiano non odia nessuno, non combatte nessuno, non fa male a nessuno. L’unica legge del cristiano è l’amore di Dio e l’amore del prossimo.

Le ideologie umane crollano, ma il Vangelo dell’amore non tramonta mai perché è una buona notizia. E oggi il nostro piccolo Beato è una buona notizia per tutti. Di fronte alla sua bontà e alla sua gioia di vivere, siamo qui riuniti per piangere sì il suo sacrificio, ma soprattutto per celebrare la vittoria della vita sulla morte, del bene sul male, della carità sull’odio. La sua memoria è di benedizione, mentre la memoria dei suoi carnefici si è persa nelle nebbie del nulla o forse – lo speriamo – nelle lacrime del pentimento.

Il piccolo Rolando, come tutti i bambini, aveva un sogno: diventare sacerdote. A undici anni, entrò in seminario e, come si usava allora, vestì la veste talare, che da quel giorno diventò la sua divisa. La portava con orgoglio. Era il segno visibile del suo amore sconfinato a Gesù e della sua totale appartenenza alla Chiesa. Non si vergognava della sua piccola talare. Ne era fiero. La portava in seminario, in campagna, in casa. Era il suo tesoro da custodire gelosamente. Era il distintivo della sua scelta di vita, che tutti potevano vedere e capire.

Come tutti i bambini della sua età, Rolando era sereno, vivace, buono. Giocava a pallone con passione, imparò a servire messa, a suonare l’organo, a cantare. Davanti al tabernacolo ripeteva continuamente: «Gesù, voglio farmi prete». Era entusiasta della sua vocazione. Del resto, il sacerdozio è una chiamata a fare del bene a tutti, senza distinzione. Quale pericolo poteva nascondere il suo ideale sacerdotale?

Non c’è da meravigliarsi della fermezza della decisione del piccolo Rolando. Gli studiosi di psicologia infantile concordano sul fatto, che anche i bambini possono fare scelte decisive per la loro vita e mantenerle con fedeltà e coraggio. Nei piccoli è più che mai vivo un proprio progetto di vita in campo artistico, scientifico, professionale, sportivo e anche religioso. Alcuni fanciulli sviluppano fino al virtuosismo i loro talenti di natura e di grazia. Sono molti i bambini prodigio, che primeggiano nell’arte, nella scienza, nell’altruismo. Così, non sono pochi i santi bambini e adolescenti, come sant’Agnese, san Tarcisio, santa Maria Goretti, san Domenico Savio. A chi gli chiedeva, che – data la situazione di guerra – era pericoloso indossare la veste talare, Rolando rispondeva con fierezza: «Non posso, non devo togliermi la veste. Io non ho paura, io sono orgoglioso di portarla. Non posso nascondermi. Io sono del Signore». [2]

Ma un brutto giorno arrivarono le iene, piene di odio e in cerca di prede da straziare e divorare. E lo spogliarono della sua veste, come fecero i carnefici con Gesù, prima di crocifiggerlo. Non erano stranieri, parlavano la stessa lingua e abitavano nella stessa terra di Rolando. Non erano piccoli delinquenti, ma giovani maturi. Avevano, però, dimenticato i comandamenti del Signore: non nominare il nome di Dio invano, non ammazzare, non dire falsa testimonianza. Anzi, erano stati imbottiti di odio e indottrinati a combattere il cristianesimo, a umiliare i preti, a uccidere i parroci, a distruggere la morale cattolica. Ma niente di tutto questo era eroico e patriottico. E le iene non si fermarono nemmeno di fronte a un adolescente, annientando la sua vita e i suoi sogni, ma soprattutto macchiando la loro umanità e il loro cosiddetto patriottismo.

Erano veramente tempi duri allora per l’Europa. In quel periodo il nostro continente era avvolto nella nube nera della morte, della guerra e della persecuzione religiosa. Dopo quella spagnola degli anni ’30, arrivò la persecuzione nazista e quella comunista. Il loro lascito di morte furono i milioni di vittime nei gulag, nei lager e nelle mille prigioni delle nostre belle nazioni. Anche nelle zone comprese nelle diocesi di Modena e Reggio Emilia si era diffuso un profondo spirito di intolleranza verso la religione, la Chiesa, i sacerdoti, i fedeli. Alcuni avevano dimenticato la loro infanzia buona ed erano diventati fanatici, profondamente invasi dall’odio di classe.

Abbiamo sentito che, dopo la chiusura del seminario, Rolando era tornato al paese. Un giorno – 10 aprile 1945 – , dopo aver suonato e cantato alla santa Messa, prese i libri come al solito e si recò a studiare nel boschetto vicino. Fu catturato e rinchiuso in una stalla. Il ragazzo fu spogliato, insultato e seviziato con percosse e cinghiate per ottenere l’ammissione di una improbabile attività spionistica. Ma Rolando – fu accertato al processo penale di qualche anno dopo – non poteva confessare niente, perché le accuse erano totalmente false. Dopo tre giorni di sequestro, con una procedura arbitraria e a insaputa dei capi, il 13 aprile 1945, il ragazzo fu prima barbaramente mutilato e poi assassinato con due colpi di pistola, uno alla tempia sinistra e l’altro al cuore.

In quel momento il sangue del piccolo martire non si sparse per terra, ma fu raccolto da Dio nel calice santo del sacrificio eucaristico. Non c’era nessuna mamma a piangere la morte del suo bambino. Secondo i testimoni oculari di quello scempio, i carnefici gettarono il corpo nella fossa e fecero della veste un macabro bottino di guerra. La talare fu appesa sotto il porticato di una casa vicina. Il carnefice, al padre angosciato in cerca del suo figliolo, disse semplicemente: «L’ho ucciso io, ma sono perfettamente tranquillo» [3].

Quel 13 aprile, cari fedeli, era venerdì e l’uccisione era avvenuta di pomeriggio. Il richiamo al venerdì santo e alla morte di Gesù è evidente. Un bambino consacrato a Dio in mano a uomini senza Dio. Quando il ragazzo vide la buca chiese di poter pregare. Si inginocchiò e in quell’istante lo fulminarono. Coprirono il corpo con un po’ di terra e poche foglie. Le iene aveva sbranato un agnello inerme. Se mai c’era valore nei combattenti, era stato per sempre disonorato da un’azione vile. Avevano umiliato e spento la vita di un loro figlio innocente, che, crescendo, li avrebbe solo benedetti, dando serenità e significato alle loro vite. La mancanza di umana comprensione fa risaltare di più la nobiltà e la fortezza del piccolo seminarista, che, anche nella sofferenza e nella umiliazione, mai aveva rinunciato a proclamarsi amico di Gesù.

Il 15 aprile, domenica del Buon Pastore, ci furono i funerali. Il suo corpo martoriato fu portato in chiesa. C’erano solo poche donne vestite a lutto. Non ci furono canti e suoni. Ma non mancarono certo gli alleluja degli Angeli, che cantando accompagnarono il giovane martire in Paradiso.

Cari fratelli, cosa impariamo da questa lezione di vita e di sacrificio del nostro giovane seminarista, Martire della fede? Sono quattro le parole che il Beato Rolando Rivi ci consegna: perdono, fortezza, servizio e pace.

a) Il perdono è un gesto che ci avvicina di più a Dio, padre buono e misericordioso. Anche il primo martire cristiano, il giovane Stefano, quando veniva lapidato, pregava Gesù dicendo: «Signore Gesù, accogli il mio spirito […]. Signore, non imputare loro questo peccato» (At 7,55-60). È lo stesso atteggiamento del nostro piccolo ma grande Beato, che alla ferocia dei suoi aguzzini rispose con la dolcezza della preghiera e del perdono. Il perdono è la medicina che sana ogni ferita, cancella l’odio, converte i cuori, incoraggia la fraternità. Abbiamo bisogno di perdono, come l’aria che respiriamo. In famiglia, nella società, sul lavoro, nei rapporti umani abbiamo bisogno di essere continuamente perdonati e di perdonare. Così si dimentica il male e si fa il bene. Dobbiamo uscire da questa beatificazione con il cuore e la mente pieni di perdono e sgombri di ogni ombra di contrasto. Nei pochi giorni della nostra vita mortale, il nostro piccolo Beato ci invita a vivere da fratelli e da amici, condividendo solo il bene e mai il male.

b) La seconda parola che Rolando ci consegna è la fortezza, una virtù fondamentale per la nostra esistenza cristiana. Nel brano della lettera ai Romani, che oggi abbiamo ascoltato, san Paolo ci esorta a essere forti e fermi nella fede, dicendo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm 8,35). Niente separò Rolando dall’amore di Cristo. Non fu vinto né dalle percosse, né dalla fame, né dalla nudità, né dalle pallottole. Fu trattato come pecora al macello, ma in ciò fu più che vincitore nella grazia e nell’amore del Signore Gesù. Perché Rolando nel suo cuore ripeteva le parole dell’Apostolo: «Io sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).

In questo Anno della Fede, accresciamo la nostra fortezza per andare controcorrente nei confronti di tutto ciò che viola e umilia la nostra condizione di uomini e di battezzati, rimanendo fedeli a Gesù, alla Chiesa, al magistero del Santo Padre. Il Vangelo sia per noi una roccia di rifugio, un luogo fortificato che ci salva. Il Signore Gesù sia sempre la nostra rupe e la nostra fortezza. La sua grazia ci guidi e ci conduca sulla via della salvezza.

c) Il nostro martire ci consegna una terza parola: servizio. Gesù, nel vangelo odierno, ci ricorda che il chicco di grano se non muore non produce frutto, ma se muore produce molto frutto. E aggiunge: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (Gv 12,24-26). Il servizio di Rolando a Gesù e alla sua Chiesa fu l’offerta della giovane vita, come seme fecondo di cristiani autentici e forti. Il suo martirio fu anche un gesto eroico di lealtà umana. Mai tradì la propria identità di figlio di Dio e di seminarista, chiamato a testimoniare nel sacerdozio le parole divine di Gesù. Oggi, la sua veste talare, macchiata di sangue innocente, è la sua bandiera di gloria. Egli si rivolge ai seminaristi d’Italia e del mondo, esortandoli a rimanere fedeli a Gesù, a essere fieri della loro vocazione sacerdotale e a testimoniarla senza rispetto umano, con gioia, serenità e carità.

d) Perdono, fortezza e servizio faranno progredire la nostra umanità verso il porto della pace, della comprensione reciproca, del bene comune. Papa Francesco ci ripete continuamente di convertirci alla pace. La Chiesa ha sempre una porta aperta per accogliere i suoi figli peccatori. Non importa quanto siano spregevoli i nostri peccati, la misericordia del Signore Gesù è più grande della nostra miseria. Liberiamoci del peso delle nostre cattive azioni ed entriamo in chiesa, la nostra vera casa, dove troviamo accoglienza, conforto e guarigione da tutte le nostre ferite spirituali. Ora non è tempo di pianto ma di gioia, non è tempo di divisione ma di comunione, non è tempo di inimicizia ma di fraternità. Pace, pace ci grida il nostro piccolo martire. Pace a tutti e con tutti. Riconciliamoci  e perdoniamoci. Diventiamo uomini di pace. Amiamo la pace, costruiamo la pace, viviamo nella pace. Le nostre città e le nostre famiglie siano oasi di pace. Se ci convertiamo alla pace, se diventiamo costruttori di pace, non avremo più nemici da combattere e da annientare, ma solo amici da amare e da perdonare. E noi saremo benedetti dagli uomini e dal Signore.

In tal modo il martirio del nostro Rolando non sarà stato invano.

Amen

***

Protagonista della storia

Don Gius ci ha insegnato che il protagonista della storia è il mendicante. L’uomo mendicante di Cristo (e Cristo mendicante dell’uomo).

Chissà se mai abbiamo preso sul serio questa sua celebre, e ripetuta per migliaia di volte, espressione. Chissà se riusciremo a comprendere che solo nella sequela al Mistero fatto carne, implorato ed agognato, fiorisce una umanità davvero nuova.

Don Giuseppe lo ha fatto, in particolare in questi ultimi giorni della sua vita. Ecco, il bellissimo comunicato redatto dalla comunità di Comunione e Liberazione di Rimini.  Attorno al don, alla sua domanda di Cristo, fiorisce la vita.

 

 

Rimini, 15 aprile 2016

Don Giuseppe Maioli – Nota di Comunione e Liberazione

Eccomi Gesù, sono tuo”. Con queste parole don Giuseppe ci ha invitato ad unirci alla sua preghiera, trascinandoci nella profonda e semplice immedesimazione con Cristo che ci ha testimoniato. Uno dei compagni di stanza dell’ultimo ricovero ospedaliero ha riconosciuto stupito e commosso: “Quest’uomo mi ha cambiato la vita”. Come può un uomo bloccato su un letto d’ospedale cambiare la vita di un compagno al suo fianco? Come l’avrà guardato? Noi desideriamo non perdere quello che è accaduto in questi “giorni pieni di una grazia sconosciuta” (Mounier), che hanno mostrato come la presenza del nostro don Beppe abbia segnato così profondamente la vita della Fraternità di CL e di tutti coloro che sono stati affidati al suo ministero sacerdotale.

In questi ultimi giorni, vissuti attorniato dai familiari e dagli amici sacerdoti ed accompagnato dall’incessante preghiera del suo popolo, abbiamo riconosciuto nel suo volto sofferente e lieto l’estremo gesto della sua paternità nei nostri confronti: “figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!” (Gal 4,19).

Come ci ha detto don Carrón, Presidente della Fraternità di CL, telefonando per testimoniare la sua vicinanza a don Giuseppe negli ultimi momenti della sua vita: la questione decisiva è immedesimarci con lui, per avvicinarci anche noi al traguardo: siamo amici solo per questo. Lo stesso don Giuseppe, riflettendo su queste parole, ha sottolineato che “questa immedesimazione con Cristo è ciò di cui abbiamo bisogno per l’esperienza che stiamo vivendo in questo momento storico”.

Per questo, la nostra gratitudine si esprime nel desiderio di essere come lui, protesi a Cristo e ai nostri fratelli uomini.

Comunione e Liberazione Rimini

 

La presenza di un uomo buono

don giuseppe maioliQuesta notte è tornato tra le braccia del Padre don Giuseppe Maioli. Raramente ho visto una persona come lui, testimone di un rapporto buono con le cose e soprattutto con le persone. Una bontà profonda, quasi insondabile, che colpiva subito, al primo udire la sua voce,  pacata e misurata ma piena di passione per tutto ciò che è bello, vero e buono.

Don Giuseppe era amante della bellezza come pochi. Celebre la sua cura maniacale nell’insegnarci, a noi giovani studenti affascinati dal carisma ecclesiale di Giussani,  i canti di montagna o il gregoriano. Ne usciva alla fine, dopo quarti d’ora di prove e ripetizioni – e correzioni minute- un canto (talora in centinaia radunati in saloni o sulle cime in montagna) di una bellezza unica, che ti portavi dentro per sempre.

Don Giuseppe era responsabile di Gioventù studentesca di Rimini, quando io vi entrai. Se il mio riferimento primo, e per me decisivo, era don Mario Vannini, docente di religione al Serpieri, il mio liceo, don Giuseppe rappresentava l’immagine incarnata, immediata, semplice e spontanea, di questa accoglienza sconfinata del Mistero, di questa bontà segreta nascosta nelle pieghe della realtà.

Questo inverno, rivedendo con i miei studenti Le vite degli altri, ed ascoltando la  Sinfonia per un uomo buono (la musica che induce al cambiamento la spia della Stasi) non ho potuto non pensare immediatamente a lui, già gravemente malato.  Il brano musicale esprime bene l’idea di questa bontà non banale, di questa pace densa del tumulto dell’animo proprio di quegli uomini che sono in cerca dell’infinito.

Durante l’autunno l’avevo di nuovo incrociato più da vicino, per un’occasione speciale. Aveva amato moltissimo il libro Voglio tutto, contenente gli scritti di Marta che avevo curato. Volle presentarlo alla sua nuova Parrocchia. Disse che, per quel che stava vivendo, il libro gli aveva fatto molta compagnia.ebook voglio tutto

Era la compagnia non di un semplice libro, ma la compagnia del Mistero stesso, quello che in tanti giovani riminesi abbiamo proprio imparato da lui e che lui re-imparava continuamente da chi si era incamminato sulla stessa strada. Credo che questo sia la Chiesa. Credo che questo sia il cuore del movimento di Comunione e Liberazione in cui entrambi ci siamo ritrovati: un luogo dove si sperimenta inaspettatamente -anche attraverso la malattia- l’abbraccio del Padre.  Quell’abbraccio del Padre che per lui ora è definitivo.

Grazie di tutto don Beppe e continua a starci vicino come tu sai!

(Questa sera 14 aprile alle ore 21 vi sarà una veglia presso la parrocchia di S.Ermete, domani sera 15 aprile alle ore 21 presso la parrocchia della Riconciliazione e sabato mattina 16 aprile i funerali presso la Rinciliazione alle ore 9,30)

 

Il Canto che potete ascoltare qui sotto, raccolto da Marina Valmaggi, è stato composto da don Giuseppe mentre era un giovane seminarista (fine anni ’60). Uno dei tanti canti amati dalle comunità di CL e divenuto noto in tutta la Chiesa. Un giorno, ad una vacanza dei ragazzi di GS del giugno del 2011, ero in pulmino con lui e mi chiedeva di raccontargli gli esercizi spirituali nazionali dei ragazzi, che si erano svolti un paio di mesi prima a Rimini in Fiera (2011). Gli raccontai di un filmato sullo Tsunami in Giappone, e di come si prese spunto per interrogarsi su quale roccia poggiare la propria vita. Gli raccontai poi che subito dopo il video, terribile, si eseguì il suo canto, “Se il Signore non costruisce la città”. Con un sorriso, simile a quello di un bambino, esclamò sorpreso, “Ma davvero! Lo si canta ancora! Che bello!”  Era lieto. Semplicemente, puramente, totalmente lieto di poter servire in tutto la Chiesa. Anche con questo suo bellissimo canto.