Il ricordo che non oblia

Pubblicato su buongiornoRimini

È singolare come sia facile al contempo celebrare il tema della memoria e del ricordo, e cadere nel più profondo oblio delle ragioni per cui meritano di esistere giornate di questo genere. Oggi, a lezione, uno studente mi chiede: “ma perché ricordare queste persone, questi eventi?”. Domanda tutt’altro che banale, anche alla luce di quel che si vede ripetersi attorno a noi, tra scontri di vecchie ideologie, polemiche pretestuose, parzialità terribili nel ricordare i drammi del nostro tempo.
Per anni abbiamo giustamente celebrato nella Giornata della Memoria (27 gennaio) la tragedia dell’Olocausto (unica nel suo genere), inorridendo per le violenze razziali perpetrate dai Nazisti. Tuttavia troppo spesso questa celebrazione ha avuto un sapore strano, un retrogusto d’artificiosa parzialità, una sorta di occulta retorica falsante che rendeva quel momento non pienamente autentico. Con l’istituzione della Giornata del Ricordo, nel 2004, – giornata che cade il 10 febbraio– si è tentato di porre un parziale rimedio a quell’oblio occulto. Con il ricordo dei caduti nelle foibe e dell’esodo degli italiani del confine orientale, si è finalmente guardato qualcosa che era sotto casa, vicino, prossimo, e dunque ancor più scandalosamente taciuto.
Ma per rispondere alla domanda del nostro studente, occorre fare uno sforzo ulteriore.

Se andiamo a vedere i grandi drammi del Novecento, troveremo un tratto comune, che ci aiuterà in questa ricerca.
Sforzandoci un po’ in questo esercizio di memoria, troveremo ad inizi Novecento la tragedia che il giurista Raphael Lemkin, colui che poi nel ’44 coniò il termine genocidio, intese sottoporre all’attenzione della stessa Società delle Nazioni.

Le marce della morte degli Armeni

Si tratta del genocidio degli Armeni, perpetrato dai Turchi nel 1915 (si parla di circa un milione e mezzo di morti). Ignoto per il grande pubblico e nelle scuole fino a una quindicina di anni fa, tutt’oggi è ben poco conosciuto. Per non parlare della tragedia dell’ Holodomor, ovvero la morte procurata per fame da Stalin agli Ucraini, notoriamente ostili ai principi della rivoluzione, all’interno del contesto della grande carestia ad inizio degli anni ’30 in URSS. Anche questo evento rientra, a parere di Lemkin, nel novero dei genocidi.


Proseguendo questa carrellata esemplificativa, incontriamo la tragedia di Katyn, dove l’URSS tentò di azzerare la coscienza nazionale polacca, decapitandola delle sue classi dirigenti. Ben 22mila ufficiali dell’esercito, a freddo e senza motivazione bellica, furono uccisi e sepolti in fosse comuni presso Katyn. Malgrado da subito fosse chiara la cronologia dell’evento, attestato da rilievi degli operatori della Croce rossa, e dunque la responsabilità dei russi allora occupanti (1940), gli stessi riuscirono ad accreditare fino agli anni ‘90 la tesi della colpevolezza dei nazisti, giunti 3 anni dopo in quell’area e scopritori delle fosse.

Harry Wu

Possiamo poi prendere in considerazione i Laogai, i lager cinesi, tuttora attivi e ben poco noti salvo ai lettori più attenti (il test sui miei studenti ha dato risultati pari a zero per tutto quanto sopra citato), di cui, qui a Rimini, dieci anni fa, potemmo ascoltare una descrizione da un testimone diretto, Harry Wu, ospite del Meeting.

Ma gli stessi Lager russi, fino agli anni ’80 erano un tabù per l’opinione pubblica di massa.
Mi permetto inoltre di tornare a inizio secolo, viaggiando al di là dell’oceano, per ricordare la guerra cristiada, combattuta dal popolo messicano contro la laicizzazione forzata dei governi rivoluzionari di ispirazione massonica.

Il tratto comune di queste esperienze, pur così diverse, è chiaro.
Pur nella loro estrema differenza, queste esemplificazioni (qui necessariamente riportate per cenno e dunque senza i tanti dettagli e distinguo che sarebbero fondamentali per una più approfondita descrizione) possiedono un tratto comune che ci rilancia fortemente sull’oggi e che rende ragione alla preziosa domanda del mio studente, “ma poi perché oggi ricordare questi eventi?”.
Si tratta di un elemento comune che eccede – per spregiudicatezza, dimensioni, brutalità – ogni altra ragione (di potere, di carattere economico o politico, o che faccia capo a violenze e vendette). In tutti questi casi assistiamo al tentativo di costruire una società sulla base di un programma politico che azzera l’uomo reale, la società esistente, il popolo nella sua concreta espressione effettiva. In nome della razza da ripristinare nella sua purezza, in nome della giustizia sociale, in nome di un astratto progresso frutto della pura ragione o in nome di un nazionalismo di maniera, troviamo regimi che si sentono legittimati – e dunque zelanti nell’esercizio del loro potere – a ridefinire i connotati di un popolo, eliminando chi non rientra in quanto già definito.

Oggi occorre tornare a ricordare quegli eventi, perché se ne riconosca l’origine comune, quel vizio della contemporaneità che si condensa nel cedimento alle ideologie portatrici di una tentazione totalitaria. Di contro si tratta di comprendere quale sia l’unico valore che possiamo affermare nella storia, attraverso un’azione politica autenticamente costruttiva: la libertà dell’uomo. Quell’uomo concreto, in carne ed ossa, portatore di limiti ma anche di risorse preziose (talora imprevedibili), e che tuttora è dimenticato, cacciato nell’oblio a causa di slogan, proclami, parole d’ordine, magari foriere di voti ma dimentiche di chi è il reale protagonista delle azioni che proclamiamo.
In fondo è una terribile leggerezza che dobbiamo lasciarci alle spalle e la forza drammatica che alcuni eventi passati possiedono può risvegliarci e farci accorgere che non è possibile accontentarsi di “un gioco tattile sulla superficie delle cose” (Nietzsche), specie se si parla della cosa pubblica e dell’interesse di milioni di persone.

La drammatica vicenda degli esuli italiani del confine orientale, dovrebbe farci ricordare che erano uomini in fuga non solo da vendette legate al conflitto, ma da un regime che mostrava tratti disumani, uomini non accolti adeguatamente dalla stessa loro nazione, spesso in nome di un principio ideologico analogo a quello che fuggivano. Una ostilità ideologica che oggi si ripropone in forme nuove e secondo nuovi slogan. Una “leggerezza” politica che dobbiamo assolutamente sconfiggere, affinché si affermi l’unica risorsa tanto del nostro come di ogni tempo: l’uomo, quale io unico e irripetibile, mai riducibile a categoria sociologica.

La croce e la svastica

Inauguro con questo articolo, una serie di pubblicazioni che saranno a supporto delle mie lezioni. Rilevo da sempre che quanto nasce come dialogo con gli studenti sia di straordinaria attualità e interesse per tutti. Ecco dunque la sperimentazione di questi articoli “ibridi”: nascono dalla vita a scuola per giungere all’attenzione di tutti, nella speranza di avere tempo ed energia per moltiplicarli.  Potranno essere aggiornati e ripubblicati in date successive, a seconda delle esigenze delle mie lezioni, entro il cui contesto nascono.

Lo scorso anno, un’alunna – non di una mia classe-, in un momento di studio comune tra più studenti di varia provenienza, con estremo candore, esclamò: “Sì certo, il nazismo è nato in ambito cristiano ed anti-ebraico. È una espressione del cristianesimo”. Alle mie obiezioni, che si incentravano sul carattere neopagano del nazismo, come facilmente si evince dall’ideologia che il Fuhrer esprime nel Mein Kampf, le risposte della studentessa facevano leva su una chiara vulgata basata su elementi superficiali ma diffusi, ben propagandati e attestati anche nella scuola. Allora ci si lasciò con qualche domanda in più, ed è già tanto.

Eppure, nei due recenti viaggi,  Berlino e ad Auschwitz, le nostre guide – di diverse provenienza culturale  e in ogni ambito visitato (dal Museo ebraico alla Topografia del terrore, tanto al campo di concentramento di Auschwitz così come di fronte al totalitarismo rosso, ovvero al Museo della Stasi o alle carceri della Stasi) –  hanno sottolineato sempre come tra le prime vittime dell’intolleranza nazista vi fossero stati i sacerdoti.  “Sul campo”, le cose, i fatti, le questioni assumono i loro contorni completi.

Questa distanza – tra quanto raccontato in situazione e quanto recepito dai media a casa propria –  mette bene in luce come vi siano  distorsioni terrificanti in certe forme di esposizione storica.

Certo. Il concordato con Hitler, i silenzi imbarazzanti, il tentativo di evitare uno scontro diretto col regime (motivato dall’esigenza di evitare più profonde sofferenze al popolo stesso), posso essere letti come risposta errata della diplomazia vaticana ad una situazione di cui però si dovrà ammettere almeno la criticità. Arrivare invece a leggerne una collusione, anzi una coesione di carattere culturale, è decisamente una distorsione della prospettiva storica.

D’altro canto così si esprime il manuale (pur valido) in adozione nelle mie classi :

Il rapporto con le Chiese
Anche tra i cristiani vi furono degli oppositori ma soprattutto dopo il 1936. Nei primi
anni, infatti, il regime nazionalsocialista non incontrò difficoltà nei rapporti con le due Chiese tedesche, quella cattolica e quella protestante. (…). I cattolici in genere non manifestarono alcuna opposizione al regime, nonostante anche il partito cattolico del Zentrum fosse stato sciolto.

Una sintesi che può facilmente trarre in errore (solo in parte compendiata poi dalle righe successive). Fa infatti pensare ad un’adesione lineare, semplice, tranquilla da parte del popolo cattolico al regime, salvo qualche “testa calda”. Come vedremo più innanzi nel video che proponiamo – ricco di testimonianze dirette – le cose non stanno così.
Vi è chi vuol piegare il discorso tuttavia espressamente verso un’equazione decisamente antistorica e costoro, diciamolo pure, devono avere dalla loro parecchia forza economica.

Oliviero Toscani, nell’ideare il manifesto del film  Amen di Costa Gavras pensò nel 2002 ad un’immagine che accostava i due simboli, la svastica e la croce, unificandoli. Un chiaro messaggio che intelligentemente la ragazza di cui sopra, chissà da quali altre fonti analoghe, raccolse. L’efficacia mediatica di professionisti ben pagati funziona. Lo sappiamo bene. Una identificazione che d’altro canto serpeggia nel film, in parte basato su documentazione reale, in parte su personaggi inventati. Una tecnica, anche questa, ben diffusa da tempo (parziali verità sono assai funzionali nel costruire una menzogna più credibile).

Ma basta poco per capire l’esatta entità -e complessità- delle cose.

Infatti il Nazismo è evidentemente un neo paganesimo che si ispira ad una ideologia irrazionalistica e vitalistica (e dunque contraria a tutta la tradizione teologica cattolica, nonché europea) e che pesca in miti pre-cristiani.

Così si esprime L. Poliakov in  Il nazismo e lo stermino degli Ebrei, Torino 1961

Hitler sognava di estirpare la religione cristiana e di sostituirla con un nuovo culto e una nuova morale, “una fede forte ed eroica…in un invisibile Iddio del destino e del sangue”.  Stavano a disposizione del “grande semplificatore” tutte le dottrine pangermaniste, le teorie razziste, le semplici credenze popolari che proliferavano in Germania; da esse egli trasse la materie prima per facili e accessibili dogmi. (…) …L’anima della razza, il sangue, il Volk, oggetti di sacra reverenza, resterebbero nozioni vaghe e fluide se non fossero rese tangibili agli occhi dei fedeli opponendo ad esse un’antirazza, un antipopolo.

Antirazza e antipopolo rintracciati per l’appunto negli ebrei. D’altro canto Albert Einstein, ebreo, così ebbe modo di esprimersi:

“Essendo un amante della libertà, quando avvenne la rivoluzione nazista in Germania, guardai con fiducia alle università sapendo che queste si erano sempre vantate della loro devozione alla causa della verità. Ma le università vennero zittite, e non protestarono. Allora guardai ai grandi editori dei quotidiani che in ardenti editoriali proclamavano il loro amore per la libertà. Ma anche loro, come le università vennero ridotti al silenzio, soffocati nell’arco di poche settimane, e non protestarono. Solo la Chiesa rimase ferma in piedi a sbarrare la strada alle campagne di Hitler per sopprimere la verità. Io non ho mai provato nessun interesse o stima particolare per la Chiesa prima, ma ora provo nei suoi confronti grande affetto e ammirazione, perché la Chiesa da sola ha avuto il coraggio e l’ostinazione per sostenere la verità intellettuale e la libertà morale. Devo confessare che ciò che io una volta disprezzavo, ora lodo incondizionatamente”.
(da Intervista di Albert Einstein, Time magazine, 23 dicembre 1940)

L’espressione di Einstein fu da lui successivamente confermata, seppure moderata, come si desume da una lettera (1943) che  conferma questo suo pensiero seppure in forma più blanda e sebbene successivamente affermi che non coincida con la sua posizione di fondo rispetto alla Chiesa.  Rimane che egli sapeva della pubblica e che non venga richiesta al giornale alcuna smentita.
Interessante peraltro la recensione al testo di Luciano Garibaldi, O la Croce o la Svastica,  che troviamo sul sito di IBS, in cui si riportano alcune ulteriori testimonianze (poi ovviamente reperibili dentro il testo in maniera estesa).

Il primo religioso tedesco a finire in un lager fu il gesuita Josef Spieker. In una predica a Colonia, nel 1934, aveva esclamato: “La Germania ha un solo Führer ed è Cristo!”. Il primo a essere eliminato dai nazisti fu monsignor Bernhard Lichtenberg, arciprete della cattedrale di Berlino: aveva pregato assieme a un gruppo di ebrei. Non fu che l’inizio di una sfida che si concluse con il sacrificio di quattromila sacerdoti e religiosi cattolici. Il presente libro racconta la storia dei rapporti tra la Chiesa e il Nazismo chiudendo la disputa sui presunti silenzi di Pio XII, il papa che Reinhard Heydrich – il promotore della “soluzione finale del problema ebraico” – in un rapporto segreto definì “schierato a favore degli ebrei, nemico mortale della Germania e complice delle potenze occidentali”. Sono molte le vicende ricostruite da Luciano Garibaldi in queste pagine: a cominciare dalla testimonianza del generale Karl Wolff che ricevette da Hitler l’ordine di arrestare Pio XII, ma riuscì a vanificare quel progetto, meritandosi l’assoluzione a Norimberga. E poi i due enigmi che ancora accompagnano Claus Von Stauffenberg, l’ufficiale che il 20 luglio 1944 tentò di uccidere il Führer: se cioè sia vero che il colonnello prima di collocare la bomba si confessò dal vescovo di Berlino, ne ottenne l’assoluzione e si comunicò; e se si possa affermare che il Vaticano fu preventivamente informato dell’Operazione Valchiria.

Ben nota d’altro canto è l’esperienza dei ragazzi della  Rosa bianca, a cui è dedicato un film (Sofie Scholl) che descrive con cura filologica gli ultimi giorni di vita di questa interessantissima esperienza di opposizione al nazismo in nome della bellezza, della ragione e della fede, e sulle cui singole figure venne editata una mostra che si può scaricare in rete a questo indirizzo (scaricabili i file zippati  ai link in fondo pagina).

A mettere in chiaro la situazione secondo canoni equilibrati,  contribuisce una pregevole ed ampia documentazione storica, raccolta nella trasmissione del ciclo La Grande Storia di Rai 3.

Mettendo a disposizione anche filmati inediti, descrivendo il quadro dello sviluppo del regime in maniera complessa ed estesa, permette di superare sintesi divulgative, contraddittorie con la natura dei due fenomeni: la fede cristiana ed il nazismo. Il tutto, pur non omettendo tutti i passaggi più critici, tra cui il tentato compromesso (peraltro fallito, a dispetto del Concordato), inserendoli però nel loro contesto completo.

È davvero una visione preziosa per capire meglio ed acquisire una più precisa conoscenza di quel che il regime nazista fu nelle sue radici ideologiche, troppo spesso ridotte a un generico “fascismo” (che fu cosa ben definita e tutta italiana, con sue specifiche criticità) o ad un autoritarismo di destra, perdendosi invece il carattere quasi mistico e millenaristico che lo contraddistinse, rendendolo un fenomeno unico e terrificante nella sua macabra identità ideologica.

Una identità chiaramente anti europea ed anti cristiana. Aspetto che va detto chiaro e tondo, senza alcuna ombra e mistificante semplificazione.

Riproponiamo il documentario nella sua visione integrale dal sito Daily motion in questi due link.

La Croce e la svastica 1^ parte

La Croce e la svastica 2^ parte

L’assalto finale ad Aleppo

Ringrazio Alessandro Caprio per questa segnalazione che merita di per sé un post. Padre Ibrahim ha testimoniato a Radio Vaticana la drammatica situazione che sta vivendo Aleppo, dove la guerra è in una fase delicatissima.

Padre Ibrahim era a Rimini un paio di mesi fa, chiamato dal Portico del Vasaio, ed aveva testimoniato l’enorme lavoro condotto da lui e dai francescani in una situazione disperata (qui la sua testimonianza in video).

In questa intervista telefonica di ieri (9 agosto) a Radio Vaticana ci comunica la drammaticità di queste ore e tutta la precarietà (eppure dentro questa ancora una volta l’instancabile e fiduciosa volontà di lavoro e di vicinanza alla popolazione) della loro condizione.

La presenza cristiana ad Aleppo è un punto flebile ma deciso di speranza, grazie a uomini come lui.

La terza guerra (civile) mondiale

In questa strana estate, che si macchia di sangue in maniera crescente, occorre forse riarticolare la profetica espressione di papa Francesco sul tempo odierno, già pronunciata nel 2014 e poi ripetuta più volte. Disse che siamo in guerra, una “guerra mondiale combattuta a pezzi”. Ora ce ne stiamo accorgendo tutti. Ma oggi scopriamo anche che questa guerra non è combattuta solo da organizzazioni terroristiche o di impronta totalitaria, quale l’ISIS (un totalitarismo che prende le forme dell’ islamismo radicale, ma che possiede assonanze impressionanti con quello marxista e nazista insieme), bensì dal vicino di casa, dall’immigrato dei sobborghi delle grandi città, oppure dai giovani bene che per un motivo o per l’altro si trovano in totale scontro con la nostra civiltà. Il collante dell’islamismo è ben presente, ma pesca da origini complesse e che ultimamente portano a un vuoto abissale, da cui l’uomo ha cercato sempre, maldestramente, di difendersi.

È la guerra del vicino di casa, di volo in aereo, di quartiere.

Ecco perché  forse dovremmo chiamarla, guerra civile mondiale. Non per toglierle il suo significato geopolitico, ma semmai per indicare il carattere interno all’Occidente di questo conflitto assurdo, così come sono state d’altro canto definite anche le due guerre mondiali (vedi il saggio E. Nolte La guerra civile europea. 1917-1945 –  Nazionalsocialismo e bolscevismo).

Vi è anche un altro motivo per cui sembra opportuno utilizzare questa denominazione.

Il secondo motivo è adombrato nelle parole di ieri del papa in prossimità della GMG che si tiene oggi e nel prossimo fine settimana con milioni di ragazzi a Cracovia. Così si è espresso: “Circa quello che chiedeva padre Lombardi, si parla tanto di sicurezza, ma la vera parola è guerra. Il mondo è in guerra a pezzi: c’è stata la guerra del 1914 con i suoi metodi, poi la guerra del ’39-’45, l’altra grande guerra nel mondo, e adesso c’è questa. Non è tanto organica forse, organizzata sì non organica, dico, ma è guerra. Questo santo sacerdote è morto proprio nel momento in cui offriva la preghiera per la chiesa (il giornale La Notizia scrive “per la pace”, ma le due preghiere coincidono – ndr), ma quanti, quanti cristiani, quanti di questi innocenti, quanti bambini vengono uccisi. Pensiamo alla Nigeria – ha esortato – ‘ma quella è l’Africa’. No, è guerra, non abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra perché ha perso la pace.” (cit. da Ansa)

Lo stesso aveva detto padre Ibrhaim a Rimini (vedi il filmato della conferenza assolutamente attuale)  denunciando anche, con candore francescano ma senza mezzi termini, le responsabilità degli USA e dell’Europa, fino ad esprimersi “le vostre tasse, una parte di questi soldi finisce nella mani dell’ISIS”. (Padre Ibrahim poi, al minuto 6 e 30 circa, nega la denominazione di guerra civile, ma per allargarne l’orizzonte a più Stati, intendendo che ciò che succede ad Aleppo non è solo guerra civile interna ma guerra tra più potenze. Noi qui confermiamo l’orizzonte mondiale, ma intendiamo dire che è “guerra civile” per la sua capillarità e quotidianità. Dunque è una guerra mondiale, ma civile, ovvero fatta anche da semplici cittadini, spesso sbandati o problematici, cellule indipendenti e autonome che rendono capillare e ancor più devastante l’impatto psicologico sull’Occidente).

Insomma: il pericolo viene dal vicino di casa e dall’ipocrisia dei potenti, che utilizzano un forma ideologica di Islam che, come andiamo da tempo ripetendo, nel suo insieme deve crescere, approfondirsi e chiarirsi.

Non è questa dunque una guerra civile, che prende forme polivalenti e che si maschera dietro a motivazioni religiose? (vedi sempre papa Francesco ieri)

Di fronte a questa situazione, del tutto nuova e di cui realisticamente siamo chiamati a prendere atto, ci sono due atteggiamenti del tutto errati, seppure contrapposti. 

All’indomani del terribile attentato ad Orlando dell’ 11-12 giugno, all’interno di un noto locale gay, i richiami de Il Foglio ad identificare l’evento quale una espressione di terrorismo islamico, a fronte del tentativo invece di deviare l’attenzione sul problema dell’abuso delle armi nel paese oppure verso il problema dell’omofobia, erano giusti (perché si sono udite parole, anche nel discorso di Obama, del tutto fuorvianti) ma insufficienti, come poi ha dimostrato lo svelarsi dell’identità dell’attentatore, decisamente complessa e tutta da decifrare (omosessuale egli stesso e così riconosciuto da compagni di gioventù, poco religioso, frequentatore del locale fino a poco prima e di recente avvicinatosi ad un Imam radicale). All’ analisi del Foglio che definisce i fronti come nettamente contrapposti e dunque facilmente individuabili in due schieramenti che devono necessariamente fronteggiarsi in forme lineari, manca qualcosa che invece pare essenziale.

Allo stesso modo la reazione opposta, ben più grave perché decisamente tendenziosa ed espressione di uno degli elementi del male che ci attanaglia, de Il Fatto quotidiano, dimostra un’altra via del tutto errata. Il Fatto ha pubblicato il 13 giugno (stessa data dell’articolo de Il Foglio) un video di un’omelia di una sacerdote italiano, titolando «“Gli omosessuali meritano la morte”. L’omelia del parroco contro le unioni civili».  Errata la pubblicazione, perché pubblicarla il giorno dopo gli eventi di Orlando (l’omelia era del 28 maggio, due settimane prima) non è certo una scelta neutra o per dovere di cronaca ma vuol far sorgere nel lettore questo giudizio: “vedete, i cristiani sono come gli islamici, fomentatori di violenza; il problema è eliminare ogni religione fonte di ogni regresso”.

Ma la questione si intreccia ancora di più in un intrigo di torti e ragioni, dove chi ha realmente torto (l’ideologia del nulla) trova ragioni per sostenersi in improbabili battaglie di civiltà (a proposito, questo fine settimana ci sarà il Gay Pride a Rimini. Tanto per gradire) in cui il nulla delle forme leggere leggere, prende in carico su di sé diritti e rispetto della persona, in una mescolanza di elementi in cui l’eterogenesi dei fini (e della nostra fine) la fa da padrona.

Infatti, occorre aver il coraggio (tutto cristiano) di dire che errati sono anche i toni dell’omelia che hanno permesso di titolare al Fatto in quel modo.

Un’operazione di menzogna, quella del Fatto Quotidiano, è indubbio.

Sia  perché invece è intrinseco al cristianesimo la costruzione della pace, come in questo secolo XX e XXI sta emergendo sempre più chiaramente – in particolare grazie agli ultimi pontefici da Giovanni Paolo II in poi-, portando nuova giovinezza al fatto (avvenimento) cristiano (questo sì, veramente quotidiano e reale).

Sia perché quanto ha pubblicato il Fatto Quotidiano, nasce da un’assolutizzazione ed estrapolazione di una frase, a sua volta de-contestualizzata dal parroco e utilizzata da lui stesso in maniera piuttosto goffa e impropria.

Proviamo ad analizzare. Il Fatto titola virgolettando “gli omosessuali meritano la morte”, attribuendola al parroco (o a San Paolo, comunque al cristianesimo). Il parroco cita San Paolo che nella lettera ai Romani cap 1,26-ss.  afferma “E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose -si parla di ogni deviazione sessuale, ndr – meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa”.  Il Fatto gioca sporco, correlando la vicenda Orlando (data di pubblicazione), alle vicende Unioni di fatto e legge del governo Renzi, complice la verve del parroco, ed entrambi bypassano  la necessità di contestualizzare e comprendere il significato di quel passo (ad esempio di quale morte si parla? Mai sentito parlare di “morte dell’anima” che riguarda ogni peccato? E che c’entra la morte di omosessuali per terrorismo con la morte dello spirito ovvero la dannazione eterna?).

Insomma il parroco ha ingenuamente steso un tappeto di velluto ai fomentatori del nulla, coloro che sta combattendo anche lui. E un video di tal genere è oggettivamente un’ottima arma per chi porta avanti alcune tesi (fede=violenza=terrorismo fondamentalista=omofobia=cattolicesimo, ecc. ecc.).

Ma questo passaggio deve far riflettere su quanto è in gioco oggi.

Da una parte vi sono  i fautori del nichilismo che stracciano i principi secolari che hanno costruito questa nostra benedetta società, ancora riconosciuta come appetibile, e che di qui (dal cristianesimo e dal suo senso profondo della persona – che appunto è spirito e non solo istinto, vedi San Paolo-) è nata. Un nichilismo che si trova assai più vicino agli attentatori di quanto non appaia.

Dall’altra vi sono i cristiani che devono fare un passo, che sono chiamati ad essere più coraggiosi e consapevoli di ciò che portano. È quanto sollecita, con incredibile lucidità, papa Francesco.

Il coraggio dei cristiani oggi, infatti, non consta nell’alzare battaglie improbabili, pena l’essere simili al don Chisciotte di Cervantes, che si ritrova a combattere contro i mulini a vento. Il coraggio vero oggi, e che chiederà a qualcuno o a tanti il martirio,  è il coraggio della personalizzazione della fede (Carron). È il coraggio di quanto ha comunicato padre Ibrahim, testimoniando ciò che sta facendo ad Aleppo. In mezzo alla guerra e all’Isis, attorniato da fedeli che andando a Messa rischiano la morte (letteralmente, e l’omicidio del sacerdote durante la Messa è un presagio fosco per l’Europa), padre Ibrahim costruisce. Semplicemente costruisce tutto quanto è umano e cristiano. Perché i due termini, lo si voglia ammettere oppure no, coincidono. Giovanni Paolo II nel 1983 in Università Cattolica a Milano disseTutto ciò che contrasta con quanto vi è di autenticamente umano, contrasta parimenti col cristianesimo. E, viceversa, un modo distorto di intendere e di realizzare i valori cristiani ostacola altrettanto lo sviluppo dei valori umani in tutta la loro pienezza. Nulla di genuinamente umano è chiuso al cristianesimo; nulla di autenticamente cristiano è lesivo dell’umano. Nel messaggio cristiano trova arricchimento, sviluppo, pieno chiarimento la genuina sapienza umana.

Espressione (nulla di ciò che umano è contro Cristo, nulla di ciò che è autenticamente cristiano è contro l’uomo) che ascoltai, da studente, accovacciato nei chiostri della Cattolica  e che, oltre a divenire un ricordo indelebile,  è divenuto programma di studio, di lavoro e di vita.

In sostanza oggi è urgente la risposta alla domanda: cosa è il cristianesimo?  Cosa ha di buono e vero dopo duemila anni?  Credo non sia facile desumerlo dalle parole di quella omelia. Certamente vanno evitati i duplici errori, di cui sopra.

E così mentre le strategie “belliche” dell’occidente sono macchiate da terrificanti ipocrisie (si veda l’intervista sul Sussidiario a Gian Micalessin) che generano morte, la speranza viene dal virgulto di una fede che procede ed è viva nella storia, come Giuseppe Frangi interpreta  la GMG attualmente in corso.

Interessante poi vedere come l’intuizione della GMG sia già presente in quel discorso di Giovanni Paolo II a Milano, quando uscendo salutò gli studenti.

“Miei carissimi studenti, vi ringrazio per la vostra presenza, per la vostra solidarietà, una parola diventata direi internazionale, o almeno italiana (allora in tanti lì presenti avevamo foulard e spillette con la scritta Solidarnosc, come vicinanza agli operai polacchi che lottavano contro il regime comunista). La incontro nei diversi posti della vostra e nostra patria, l’Italia. Allora vi ringrazio per questa solidarietà, e poiché siamo già verso la fine del mese di maggio, vi auguro anche i successi possibili nelle prove che vi attendono, i cosiddetti esami. E vi lascio per il momento con la speranza di incontrarvi di nuovo, non so dove. Ma gli studenti, i giovani, si incontrano dappertutto. Dappertutto sono le università, dappertutto sono gli studenti, dappertutto sono i giovani e dappertutto è la speranza dell’avvenire” (qui il discorso integrale al corpo docente)

Di qui si riparte, per la costruzione della civiltà del nuovo Millennio. Non da polemiche vuote (esse stesse figlie del nichilismo), funzionali solo al “nemico”. Ma dalla speranza che risiede nella risposta al cuore dei giovani e dell’uomo, pieno di quel desiderio di infinito che ti porta ad uscire da te (dalle tue piccole o grandi idee) e a riconoscere che l’altro è un bene. Oggi, in un momento dove ci vogliono far credere che  l’altro – anche il passeggero al tuo fianco o il passante in strada – sia un nemico, c’è bisogno urgente di questo riconoscimento.

 

25 aprile, rinasce l’Italia. E noi? Siamo rinati?

Oggi è il 25 aprile, festa simbolo della liberazione dell’Italia. Liberazione dal fascismo o da ogni ideologia di morte? Liberazione dalla politica fatta di sopruso e misconoscimento del valore dell’uomo in quanto uomo oppure altro? È vera liberazione oppure solo sostituzione di una nuova ideologia ad un’altra passata (comunismo, liberalismo, anarchismo, efficientismo, economicismo…)?

Sono domande legittime perché il 25 aprile, così come la stessa parola Resistenza, ancora oggi sono elementi che dividono. È notizia di poche ore fa, quella di contestazioni in piazza San Babila a Milano contro la Brigata ebraica da parte di associazioni anti sioniste. In nome di una propria battaglia politica, si esclude dalla Resistenza chi si ritiene debba esserne escluso. In nome della Resistenza si afferma un nuovo fascismo. Ma gli esempi sono innumerevoli.

Il motivo, per quanto difficile da affrontare e complesso da superare, è semplice, ed è tutto nella domanda che ci siamo posti poco sopra. Domanda a cui la risposta corretta è una sola ovviamente, mentre nelle manifestazioni sparse per l’Italia, sempre più stanche e piuttosto formali, non risulta affatto ovvia, anzi è spesso taciuta e sostituita, più o meno esplicitamente, con un’altra risposta.

Per questo vorrei festeggiare il 25 aprile con una storia diversa, poco conosciuta, che mette in luce i caratteri ambigui di una Resistenza che deve ancor oggi scoprire il suo volto vero (che c’è ed è splendente), smarcarsi da ipocrisie e violenze contrapposte. La violenza come metodo politico è sempre foriera di male, di autoritarismo, di negatività. Occorre imparare a dirlo una volta per tutte. La violenza nera è stata una tragedia per l’Italia ma la violenza rossa altrettanto, e dobbiamo essere grati a chi ne impedì la possibilità di affermarsi, in quei turbolenti anni che vanno dal ’43 al ’48 in Italia. Il tutto senza tacere sulle contraddizioni rimaste aperte e le ombre che continuano ad oscurare la storia della nostra Italia, da qualunque parte provengano.

Vorrei festeggiare il 25 aprile, dunque, con la storia di Rolando Rivi, seminarista del modenese, ucciso il 13 aprile del 1945 dai partigiani all’età di 14 anni perché non volle abbandonare la sua tonaca. Questo ragazzino aveva una fede forte, tenace. Aveva le idee chiare sul futuro. Quel futuro che poi l’Italia andò in parte a costruire. Anche il suo sangue non è stato versato invano. Reagì alla propaganda anticlericale che si stava affermando tra alcuni resistenti e qualcuno pensò bene di zittirlo.

I partigiani per giustificare il nefando omicidio (lo uccisero dopo tre giorni di torture), – omicidio che non fu isolato e riguardò numerosi sacerdoti (si ricordi il triangolo della morte tra Bologna, Reggio e  Modena e le fosse comuni che vennero scoperte successivamente) uccisi solo perché erano tali e non c’era posto per loro nella società del sol dell’avvenire –, sostennero che era una spia fascista (un ragazzino di 14 anni). Un processo “del popolo”, senza prove e in forma sommaria, (che ricorda il linguaggio e le modalità delle Brigate Rosse, le quali negli anni ’70 sostenevano che la Resistenza in Italia non aveva terminato il suo lavoro, che era stata tradita dal Pci). Il successivo processo agli assassini, smascherò le presunte accuse, come infondate.

Il fatto grave è che quella giustificazione posticcia è sostenuta ancora da qualcuno oggi. Basta navigare nei siti dell’anarchia e degli antagonisti, per trovare diffusa questa bufala, inventata per salvarsi dal processo che venne intentato e che condannò i protagonisti, poi usciti dal carcere per un’ amnistia. Una bufala che poggia su ragioni date a partire da un teorema costruito a priori (la  chiesa sta sempre con i potenti) e giustificatorio poi di ogni violenza (senza neppure il bisogno di arrivare a un processo e a prove conclamate). In sostanza un fascismo di misura uguale, seppure contraria, a quello del ventennio.

Interessante vedere come oggi, al contrario, esistano seri tentativi di smarcare questa festa, fondativa della nostra Italia contemporanea, dalle ombre che la condannano ad una parzialità che a sua volta condanna l’italia a non avere patria, a non essere patria.

Aldo Cazzullo, anticipa su corriere.it la prefazione al suo libro Possa il mio sangue servire. Dopo aver chiarito che la scelta giusta allora fu l’antifascismo, fatto ovvio che non deve essere messo in dubbio mai – come a volte invece accade ed è menzogna ancora una volta identica e contraria alla precedente -,  scrive tra le altre cose:

C’è poi un altro fattore, non meno importante, che rende difficile a una platea ampia se non unanime riconoscersi nella Resistenza; ed è l’uso di parte che ne è stato fatto. La Resistenza è stata vittima di un grande imbroglio ideologico. I partiti se ne sono impossessati, come se l’avessero fatta loro. E l’hanno usata come foglia di fico per nascondere le loro operazioni di potere, i loro legami con potenze straniere, talvolta i loro furti. Tuttora la Resistenza è spesso considerata come una cosa solo «di sinistra»: fazzoletti rossi e Bella ciao. A una presentazione in una libreria di un quartiere popolare romano, un signore si è alzato inveendo: «Basta storie di suore e di preti! I tedeschi li abbiamo combattuti noi comunisti!». Ma anche questa è una semplificazione.

Non credo a una lettura ideologica della Resistenza. Certo, molti partigiani erano comunisti. Poi c’erano i monarchici, i cattolici, gli azionisti, gli anarchici, i socialisti. E c’erano soprattutto migliaia di ragazzi che di politica e partiti sapevano poco o nulla, sapevano solo che non volevano combattere per Hitler e per Mussolini, e andarono con le brigate Garibaldi non perché fossero comunisti o con gli azzurri non perché fossero monarchici, ma perché nel loro paese erano passati prima gli uni o gli altri. Molte bande partigiane sulle Alpi furono formate da militari, spesso insieme con i preti. I capi più combattivi erano sovente alpini, come Maggiorino Marcellin «Bluter» che comandava in Val Chisone, come Nuto Revelli reduce dalla Russia, come Enrico Martini «Mauri» che guidava gli azzurri delle Langhe, come il capitano Piero Cosa che fonda la banda della Valle Pesio insieme con sua sorella Ottavia.

E così la vicenda di Rolando Rivi può mettere in chiaro, oltre ad una luminosa vita di fede, che il riconoscimento dell’altro, la capacità di amare l’altro seppure la pensi diversamente, la costruzione di una civiltà che Giovanni Paolo II chiamò della verità e dell’amore, è possibile. Ed è il vero tratto fondativo, a mio modesto avviso, della nostra Italia repubblicana, un’Italia democratica, ovvero capace di riconoscere dignità e diritto di cittadinanza all’altro in quanto altro, per l’appunto. Laddove è sempre più chiaro che non esiste democrazia, se non in individui liberati dalla tentazione di ridurre la battaglia politica in una vendetta, in una vittoria esclusivista, in un’affermazione egemonica di un potere (si chiamasse pure democratico). Non c’è democrazia se non in individui continuamente rinnovati e liberati  dalle potenzialità del male che, nella sua banalità (Arendt), è sempre pronto ad insinuarsi tanto nelle azioni più quotidiane dell’uomo, quanto nei grandi momenti della storia. 

Le parole del vescovo di Modena nell’omelia della cerimonia di beatificazione di Rolando Rivi (ottobre 2013) sono l’emblema di questa cultura aperta all’altro. La riportiamo per intero desumendola dal sito zenit. Sottolineamo solo questo passaggio, “Cari fratelli, davanti a questa immagine luminosa di bambino, strappato con violenza alla vita e all’amore, noi cristiani non siamo pieni di rancore in cerca di rivincite. No, vogliamo ricordare e celebrare la vicenda martiriale del piccolo Rolando Rivi con un atteggiamento di perdono, di riconciliazione, di fraternità umana. Vogliamo gridare forte: mai più odio fratricida, perché il vero cristiano non odia nessuno, non combatte nessuno, non fa male a nessuno”.

Superare l’antagonismo, la vendetta, la politica della negazione, per invece indirizzarsi all’affermativo, al valore, al positivo, alla voglia di costruire è quanto abbiamo intravisto nella prefazione del testo di Aldo Cazzullo.

Di un valore costruttivo simile, l’Italia ne ha davvero bisogno oggi, tanto quanto allora. Ne facciamo esperienza continua nelle nostre giornate. Ecco cosa celebrare, dunque, in questo 25 aprile.

La forza operosa di un’Italia rinata grazie alla speranza, polivoca e plurale, di molti. Lontani da ogni ideologia di odio e di morte.

Ecco l’omelia integrale. 

Fratelli e sorelle è con le lacrime agli occhi che mi accingo a parlare del Beato, Rolando Rivi, morto martire per la fede [1]. La commozione sgorga dal mio cuore di vescovo, che piange la morte di questo ragazzo, forte come una quercia per onorare e difendere la sua identità di seminarista. Al lampo di odio dei suoi carnefici egli rispose con la mitezza dei martiri, che inermi offrono la vita perdonando e pregando per i loro persecutori.

Il martirio di Rolando Rivi è una lezione di esistenza evangelica. Era troppo piccolo per avere nemici. Erano gli altri, che lo consideravano un nemico. Per lui tutti erano fratelli e sorelle. Egli non seguiva una ideologia di sangue e di morte, ma professava il Vangelo della vita e della carità.

Obbediva con semplicità e gioia alle parole del Signore Gesù, che un giorno rivelò ai suoi discepoli l’atteggiamento giusto per affrontare i nemici: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra, a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica […]. Amate i vostri nemici» (Lc 6,27-29.35).

Ecco cosa aveva Rolando nel suo cuore di bambino, un amore per tutti: amare non solo i genitori e i fratelli, ma anche i nemici, fare del bene a a chi lo odiava e benedire chi lo malediceva. Era questa – e lo è ancora – una dottrina rivoluzionaria, certo, ma nel senso buono, perché porta ad atteggiamenti di fraternità, di tolleranza e di rispetto della libertà altrui, senza soprusi, senza imposizioni forzate e senza spargimento di sangue.

Cari fratelli, davanti a questa immagine luminosa di bambino, strappato con violenza alla vita e all’amore, noi cristiani non siamo pieni di rancore in cerca di rivincite. No, vogliamo ricordare e celebrare la vicenda martiriale del piccolo Rolando Rivi con un atteggiamento di perdono, di riconciliazione, di fraternità umana. Vogliamo gridare forte: mai più odio fratricida, perché il vero cristiano non odia nessuno, non combatte nessuno, non fa male a nessuno. L’unica legge del cristiano è l’amore di Dio e l’amore del prossimo.

Le ideologie umane crollano, ma il Vangelo dell’amore non tramonta mai perché è una buona notizia. E oggi il nostro piccolo Beato è una buona notizia per tutti. Di fronte alla sua bontà e alla sua gioia di vivere, siamo qui riuniti per piangere sì il suo sacrificio, ma soprattutto per celebrare la vittoria della vita sulla morte, del bene sul male, della carità sull’odio. La sua memoria è di benedizione, mentre la memoria dei suoi carnefici si è persa nelle nebbie del nulla o forse – lo speriamo – nelle lacrime del pentimento.

Il piccolo Rolando, come tutti i bambini, aveva un sogno: diventare sacerdote. A undici anni, entrò in seminario e, come si usava allora, vestì la veste talare, che da quel giorno diventò la sua divisa. La portava con orgoglio. Era il segno visibile del suo amore sconfinato a Gesù e della sua totale appartenenza alla Chiesa. Non si vergognava della sua piccola talare. Ne era fiero. La portava in seminario, in campagna, in casa. Era il suo tesoro da custodire gelosamente. Era il distintivo della sua scelta di vita, che tutti potevano vedere e capire.

Come tutti i bambini della sua età, Rolando era sereno, vivace, buono. Giocava a pallone con passione, imparò a servire messa, a suonare l’organo, a cantare. Davanti al tabernacolo ripeteva continuamente: «Gesù, voglio farmi prete». Era entusiasta della sua vocazione. Del resto, il sacerdozio è una chiamata a fare del bene a tutti, senza distinzione. Quale pericolo poteva nascondere il suo ideale sacerdotale?

Non c’è da meravigliarsi della fermezza della decisione del piccolo Rolando. Gli studiosi di psicologia infantile concordano sul fatto, che anche i bambini possono fare scelte decisive per la loro vita e mantenerle con fedeltà e coraggio. Nei piccoli è più che mai vivo un proprio progetto di vita in campo artistico, scientifico, professionale, sportivo e anche religioso. Alcuni fanciulli sviluppano fino al virtuosismo i loro talenti di natura e di grazia. Sono molti i bambini prodigio, che primeggiano nell’arte, nella scienza, nell’altruismo. Così, non sono pochi i santi bambini e adolescenti, come sant’Agnese, san Tarcisio, santa Maria Goretti, san Domenico Savio. A chi gli chiedeva, che – data la situazione di guerra – era pericoloso indossare la veste talare, Rolando rispondeva con fierezza: «Non posso, non devo togliermi la veste. Io non ho paura, io sono orgoglioso di portarla. Non posso nascondermi. Io sono del Signore». [2]

Ma un brutto giorno arrivarono le iene, piene di odio e in cerca di prede da straziare e divorare. E lo spogliarono della sua veste, come fecero i carnefici con Gesù, prima di crocifiggerlo. Non erano stranieri, parlavano la stessa lingua e abitavano nella stessa terra di Rolando. Non erano piccoli delinquenti, ma giovani maturi. Avevano, però, dimenticato i comandamenti del Signore: non nominare il nome di Dio invano, non ammazzare, non dire falsa testimonianza. Anzi, erano stati imbottiti di odio e indottrinati a combattere il cristianesimo, a umiliare i preti, a uccidere i parroci, a distruggere la morale cattolica. Ma niente di tutto questo era eroico e patriottico. E le iene non si fermarono nemmeno di fronte a un adolescente, annientando la sua vita e i suoi sogni, ma soprattutto macchiando la loro umanità e il loro cosiddetto patriottismo.

Erano veramente tempi duri allora per l’Europa. In quel periodo il nostro continente era avvolto nella nube nera della morte, della guerra e della persecuzione religiosa. Dopo quella spagnola degli anni ’30, arrivò la persecuzione nazista e quella comunista. Il loro lascito di morte furono i milioni di vittime nei gulag, nei lager e nelle mille prigioni delle nostre belle nazioni. Anche nelle zone comprese nelle diocesi di Modena e Reggio Emilia si era diffuso un profondo spirito di intolleranza verso la religione, la Chiesa, i sacerdoti, i fedeli. Alcuni avevano dimenticato la loro infanzia buona ed erano diventati fanatici, profondamente invasi dall’odio di classe.

Abbiamo sentito che, dopo la chiusura del seminario, Rolando era tornato al paese. Un giorno – 10 aprile 1945 – , dopo aver suonato e cantato alla santa Messa, prese i libri come al solito e si recò a studiare nel boschetto vicino. Fu catturato e rinchiuso in una stalla. Il ragazzo fu spogliato, insultato e seviziato con percosse e cinghiate per ottenere l’ammissione di una improbabile attività spionistica. Ma Rolando – fu accertato al processo penale di qualche anno dopo – non poteva confessare niente, perché le accuse erano totalmente false. Dopo tre giorni di sequestro, con una procedura arbitraria e a insaputa dei capi, il 13 aprile 1945, il ragazzo fu prima barbaramente mutilato e poi assassinato con due colpi di pistola, uno alla tempia sinistra e l’altro al cuore.

In quel momento il sangue del piccolo martire non si sparse per terra, ma fu raccolto da Dio nel calice santo del sacrificio eucaristico. Non c’era nessuna mamma a piangere la morte del suo bambino. Secondo i testimoni oculari di quello scempio, i carnefici gettarono il corpo nella fossa e fecero della veste un macabro bottino di guerra. La talare fu appesa sotto il porticato di una casa vicina. Il carnefice, al padre angosciato in cerca del suo figliolo, disse semplicemente: «L’ho ucciso io, ma sono perfettamente tranquillo» [3].

Quel 13 aprile, cari fedeli, era venerdì e l’uccisione era avvenuta di pomeriggio. Il richiamo al venerdì santo e alla morte di Gesù è evidente. Un bambino consacrato a Dio in mano a uomini senza Dio. Quando il ragazzo vide la buca chiese di poter pregare. Si inginocchiò e in quell’istante lo fulminarono. Coprirono il corpo con un po’ di terra e poche foglie. Le iene aveva sbranato un agnello inerme. Se mai c’era valore nei combattenti, era stato per sempre disonorato da un’azione vile. Avevano umiliato e spento la vita di un loro figlio innocente, che, crescendo, li avrebbe solo benedetti, dando serenità e significato alle loro vite. La mancanza di umana comprensione fa risaltare di più la nobiltà e la fortezza del piccolo seminarista, che, anche nella sofferenza e nella umiliazione, mai aveva rinunciato a proclamarsi amico di Gesù.

Il 15 aprile, domenica del Buon Pastore, ci furono i funerali. Il suo corpo martoriato fu portato in chiesa. C’erano solo poche donne vestite a lutto. Non ci furono canti e suoni. Ma non mancarono certo gli alleluja degli Angeli, che cantando accompagnarono il giovane martire in Paradiso.

Cari fratelli, cosa impariamo da questa lezione di vita e di sacrificio del nostro giovane seminarista, Martire della fede? Sono quattro le parole che il Beato Rolando Rivi ci consegna: perdono, fortezza, servizio e pace.

a) Il perdono è un gesto che ci avvicina di più a Dio, padre buono e misericordioso. Anche il primo martire cristiano, il giovane Stefano, quando veniva lapidato, pregava Gesù dicendo: «Signore Gesù, accogli il mio spirito […]. Signore, non imputare loro questo peccato» (At 7,55-60). È lo stesso atteggiamento del nostro piccolo ma grande Beato, che alla ferocia dei suoi aguzzini rispose con la dolcezza della preghiera e del perdono. Il perdono è la medicina che sana ogni ferita, cancella l’odio, converte i cuori, incoraggia la fraternità. Abbiamo bisogno di perdono, come l’aria che respiriamo. In famiglia, nella società, sul lavoro, nei rapporti umani abbiamo bisogno di essere continuamente perdonati e di perdonare. Così si dimentica il male e si fa il bene. Dobbiamo uscire da questa beatificazione con il cuore e la mente pieni di perdono e sgombri di ogni ombra di contrasto. Nei pochi giorni della nostra vita mortale, il nostro piccolo Beato ci invita a vivere da fratelli e da amici, condividendo solo il bene e mai il male.

b) La seconda parola che Rolando ci consegna è la fortezza, una virtù fondamentale per la nostra esistenza cristiana. Nel brano della lettera ai Romani, che oggi abbiamo ascoltato, san Paolo ci esorta a essere forti e fermi nella fede, dicendo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm 8,35). Niente separò Rolando dall’amore di Cristo. Non fu vinto né dalle percosse, né dalla fame, né dalla nudità, né dalle pallottole. Fu trattato come pecora al macello, ma in ciò fu più che vincitore nella grazia e nell’amore del Signore Gesù. Perché Rolando nel suo cuore ripeteva le parole dell’Apostolo: «Io sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).

In questo Anno della Fede, accresciamo la nostra fortezza per andare controcorrente nei confronti di tutto ciò che viola e umilia la nostra condizione di uomini e di battezzati, rimanendo fedeli a Gesù, alla Chiesa, al magistero del Santo Padre. Il Vangelo sia per noi una roccia di rifugio, un luogo fortificato che ci salva. Il Signore Gesù sia sempre la nostra rupe e la nostra fortezza. La sua grazia ci guidi e ci conduca sulla via della salvezza.

c) Il nostro martire ci consegna una terza parola: servizio. Gesù, nel vangelo odierno, ci ricorda che il chicco di grano se non muore non produce frutto, ma se muore produce molto frutto. E aggiunge: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (Gv 12,24-26). Il servizio di Rolando a Gesù e alla sua Chiesa fu l’offerta della giovane vita, come seme fecondo di cristiani autentici e forti. Il suo martirio fu anche un gesto eroico di lealtà umana. Mai tradì la propria identità di figlio di Dio e di seminarista, chiamato a testimoniare nel sacerdozio le parole divine di Gesù. Oggi, la sua veste talare, macchiata di sangue innocente, è la sua bandiera di gloria. Egli si rivolge ai seminaristi d’Italia e del mondo, esortandoli a rimanere fedeli a Gesù, a essere fieri della loro vocazione sacerdotale e a testimoniarla senza rispetto umano, con gioia, serenità e carità.

d) Perdono, fortezza e servizio faranno progredire la nostra umanità verso il porto della pace, della comprensione reciproca, del bene comune. Papa Francesco ci ripete continuamente di convertirci alla pace. La Chiesa ha sempre una porta aperta per accogliere i suoi figli peccatori. Non importa quanto siano spregevoli i nostri peccati, la misericordia del Signore Gesù è più grande della nostra miseria. Liberiamoci del peso delle nostre cattive azioni ed entriamo in chiesa, la nostra vera casa, dove troviamo accoglienza, conforto e guarigione da tutte le nostre ferite spirituali. Ora non è tempo di pianto ma di gioia, non è tempo di divisione ma di comunione, non è tempo di inimicizia ma di fraternità. Pace, pace ci grida il nostro piccolo martire. Pace a tutti e con tutti. Riconciliamoci  e perdoniamoci. Diventiamo uomini di pace. Amiamo la pace, costruiamo la pace, viviamo nella pace. Le nostre città e le nostre famiglie siano oasi di pace. Se ci convertiamo alla pace, se diventiamo costruttori di pace, non avremo più nemici da combattere e da annientare, ma solo amici da amare e da perdonare. E noi saremo benedetti dagli uomini e dal Signore.

In tal modo il martirio del nostro Rolando non sarà stato invano.

Amen

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