Sarà Marco Ponselè, il testimonial della serata che il Coro popolare e l’Ensemble Amarcanto regaleranno alla città sabato sera alle ore 21, presso il Novelli dei Rimini.
Marco, giovanissimo, da un anno lavora in AVSI. Una scelta professionale ma anche di vita, di ricerca di un lavoro che possa permettere di realizzare il “sogno della giovinezza” (Giovanni XXIII).
In Marco l’entusiasmo per una vita che si va costruendo (e nel migliore dei modi) è palese, ed è contagioso. Nelle sue parole i drammi dell’Uganda, del Sud Sudan, del Kenia non sono occasione per una cupa percezione di quello che non va (ed è tanto), ma un terreno da arare, un campo di lavoro, una strada, pur irta di ostacoli, da percorrere con energia e sguardo aperto al futuro.
Marco ci ha parlato del primo suo vero incontro con AVSI, frutto di un viaggio e di una collaborazione nata ai tempi della tesi di laurea in Università Cattolica in management, per la quale passò un periodo in Kenia. Un incontro che nel tempo si è trasformata in una scelta di lavoro.
Nel descrivere il suo lavoro, definito come “corrispondente” al suo desiderio, ha toccato quelle realtà di AVSI che proprio il concerto di sabato andrà a sostenere, ovvero l’Uganda.
Colpito dal desiderio di riscatto e di costruire la propria vita che le persone incontrate in Africa gli hanno testimoniato, Marco ha sottolineato come “tale desiderio rimanga dentro”, costituisca la molla per cui si possa costruire una realtà grande come AVSI. Un desiderio di costruire la propria vita e la società che fa sì che la scuola di Kampala sia tale “da far invidia a tante nostre scuole”, un luogo bello, “dove desideri starci”. Dunque una positività e una vita rinnovata, di cui sentiamo tutti il bisogno. Anche noi comodi occidentali.
Ma merita di essere ascoltata per intero questa clip di soli 15 minuti, ma decisamente intensa.
In attesa del concerto del Coro Popolare di sabato prossimo, abbiamo intervistato Lorenzo Franchi, responsabile della Campagna AVSI 2018, ovvero la raccolta fondi che permette di sostenere ben 149 progetti sparsi in 30 paesi del mondo.
Con lui vogliamo capire meglio le ragioni di un impegno divenuto così esteso e tale da riguardare un numero sempre crescente di volontari.
Lorenzo partiamo dal tema che avete scelto quest’anno. La casa. Perchè?
L’idea di casa che stiamo raccontando non è solo un luogo fisico, ma un luogo dove una persona si può sentire accolta, guardata, curata se ne ha bisogno. Intendiamo tutti quei luoghi dove una persona può intrecciare relazioni. È la casa intesa come dimora, come luogo in cui trovare se stessi. Questo concetto si presta bene come “ombrello” che raccoglie i vari progetti che sosteniamo quest’anno: il progetto della Luigi Giussani High School di Kampala, l’asilo di Qaraqosh, Portofranco in Italia e gli “ospedali aperti” in Siria. È decisamente interessante, in tal senso, quanto dice in un video girato a Kampala, all’interno del quale un prof. della scuola afferma: “chiunque viene qui si sente a casa”, concetto ribadito da un ragazzo, durante l’inaugurazione dell’anno della scuola. Cerimonia importante con studenti, famiglie, i prof., autorità, e prende la parola Odong, uno studente, dicendo “questa non è una scuola” e si interrompe. Istanti di silenzio, tra il terrore degli insegnati che hanno pensato “chissà cosa dirà adesso!”
Poi prosegue: “questa non è una scuola, perché questo posto è casa mia. Qui infatti sono atteso, guardato e amato in ogni istante. È per questo che al mattino non cammino ma corro per venire qui.”
Notevole. Vogliamo fare una panoramica sugli altri progetti sostenuti questo anno?
Partiamo dalla Siria. In un paese straziato dall’odio, ridotto in poco tempo a condizioni inimmaginabili tra cui l’emergenza sanitaria che è altissima (si parla di 11 milioni e mezzo di persone che non hanno possibilità di curarsi), nasce nel 2016, grazie alla sollecitazione del nunzio apostolico Mario Zenari, il progetto Ospedali aperti. È un progetto che porterà cure a 40mila persone. Già quest’ anno abbiamo curato 4mila persone. Una goccia nell’oceano, ma accogliere gratuitamente tutti (vi sono ospedali funzionanti, ma a pagamento e le persone non possono accedervi), senza distinzione di credo (accogliamo cristiani, sunniti, sciiti…) o di provenienza, è una grande rivoluzione in un paese connotato dall’odio.
In particolare l’intervento su cosa verte?
Abbiamo potenziato tre ospedali, con macchinari, strumentazioni, strutture. Abbiamo istituito un ufficio per valutare i casi di più forte urgenza e di reale bisogno (verificando che siano veramente persone prive di risorse). Ospedali aperti accende una speranza, perché fa capire che si può essere accolti per quello che si è, senza alcun retropensiero o interesse. In un paese dilaniato per ben 7 anni da una guerra che nasce da pretesti religiosi, la nostra presenza fa comprendere che ci può essere un modo diverso di vivere.
Passiamo all’asilo di Quaraqosh.
Qui è particolarmente evidente il concetto di casa. Liberata la città dall’ISIS, i 50mila profughi che in tempi rapidissimi erano dovuti fuggire nel 2014, ora possono tornare. Ma tutto è da ricostruire. La prima cosa che hanno chiesto è stato di costruire un asilo per i propri figli, sulla scia dell’esperienza entusiasmante vissuta nei campi profughi, dove avevamo iniziato un’esperienza simile. È lì, nei campi profughi di Erbil, che li avevamo incontrati. Offrivamo loro la prima assistenza ma poi è nato un asilo di 150 bambini. E’ da quella esperienza che hanno voluto ripartire. L’asilo è cresciuto fino a raggiungere 400 bambini. E’ l’unico funzionante ed è il centro, il volano, della rinascita della città.
L’obiettivo è quello di ricostruire l’umano, cosa ben più difficile (e importante) che non ricostruire gli edifici.
Portofranco invece opera in Italia…
Portofranco, la rete di docenti che aiuta gratuitamente ragazzi in difficoltà con lo studio, sta incontrando centinaia e centinaia di stranieri. Sta diventando cioè uno strumento di integrazione eccezionale, un luogo dove italiani e stranieri, alunni e docenti, si incontrano e si riconoscono nel bisogno di crescere, di imparare un metodo, di trovare un terreno comune. Portofranco sta facendo molto per l’integrazione.
Tornando all’Uganda, la situazione come si configura?
La situazione è di grande povertà. L’Uganda accoglie un milione e cinquecentomila profughi del Sud Sudan, dove una guerra che si sta protraendo dal 2013 ha già causato 50mila morti. Un paese duramente provato, che vede AVSI presente da tanto tempo. Qui fortissimo è il rapporto con Rose Busingye, l’infermiera che ha costituito un centro di assistenza per donne ammalate di AIDS a Kampala.
La Luigi Giussani High School, l’hanno voluta loro per i propri figli, perché rinate in un rapporto personale con Rose hanno voluto che per i loro bambini potesse aprirsi una speranza, ovvero la possibilità di vivere la bellezza della vita che hanno cominciato ad assaporare. (si veda integralmente il video linkato sopra, dove Rose interviene più volte).
Senza dubbio, in questo mare di bisogno, l’opera di AVSI è una goccia…
Certo, e vorremmo fare molto di più, avere molte più risorse. Ma non è questo il punto. AVSI intende educare le persone. Ogni intervento tende a generare una novità in chi ci incontra così che questa vita nuova possa poi dilatarsi. La sfida è la possibilità di far crescere dei soggetti vivi, nelle zone del mondo disastrate ma anche qui in italia.
È una sfida, dunque, che riguarda ognuno di noi. Riguarda anche il semplice volontario che aiuta la campagna con un’iniziativa come le tante nate a Rimini, tra cui quella del Coro.
Cosa significa per te lavorare in AVSI?
Oltre ad essere una professione, AVSI per me è un luogo dove posso avere uno sguardo privilegiato sulla realtà. È un lavoro che mi tiene aperto sul mondo intero.
Quanto sono importanti le iniziative come quella di sabato sera?
Esprimono bene questa azione corale, in cui ognuno ha un compito. Oltre a questo, ci forniscono risorse decisamente significative. Sono un migliaio i nostri sostenitori e, grazie a tutti voi, ci arrivano un milione e trecentomila euro. Con il sostegno a distanza sono assistiti 25mila bambini. Sono dati importanti. Ma ancor più, con queste attività spesso così creative come la vostra, seminiamo un principio differente dentro la realtà che viviamo.
Dentro il bisogno di cura, di sviluppo, di educazione cerchiamo di far emergere quello che nel profondo sta a cuore ad ogni uomo. È su questo riconoscimento di un bisogno profondo che nasce e si costruisce una casa comune dove sentirsi pienamente accolti.
L’appuntamento è per il 19 maggio, al teatro Novelli di Rimini, alle ore 21 (vedi la locandina).
Siamo al quinto anno, tanti ne sono passati dal primo concerto, ma è più che mai vivo il desiderio di incontrarsi e di porre nella città un principio di novità, una possibilità di incontro e di risposta ai propri bisogni più profondi. È questa infatti la ragione ultima che muove i circa 70 componenti del coro, i quali mettono in gioco se stessi e la loro passione per la bellezza, attraverso il canto, per giungere ai confini del mondo, sia con la ricerca musicale, sia, concretamente, rispondendo alle urgenze che incontrano. Anche quest’ anno, infatti, i proventi del concerto andranno a sostenere gli studi di 14 studenti in Uganda. I ragazzi frequentano la Luigi Giussani High School, un’ oasi di umanità in un paese già martoriato dalla guerra, in preda oggi alla povertà e terra di accoglienza di profughi provenienti dal Sud Sudan.
A descrivere le sofferenze, ma anche le speranze e le scintille di vita presenti in quelle terre (tra cui la scuola è una delle perle più preziose), sarà Marco Ponselè, membro di AVSI e di recente impegnato proprio in Sud Sudan e che vanta forti legami con il Kenia e soprattutto l’Uganda.
AVSI è la realtà che coordina 150 progetti di aiuto concreto alle popolazioni in ben 30 paesi tra le zone più bisognose del pianeta. Quest’anno la raccolta fondi lanciata in Italia sostiene quattro progetti: un’ospedale in Siria aperto a tutte le persone, di qualsiasi ceto e credo religioso; un asilo a Qaraqosh, la città da poco liberata dall’ISIS; l’associazione Portofranco, che in Italia garantisce un aiuto allo studio a centinaia di ragazzi, tra cui numerosi stranieri, fornendo così un’esperienza di integrazione di straordinario valore; ed infine proprio la Luigi Giussani High School.
La formula della serata sarà quella sperimentata con successo gli anni scorsi: ad introdurre il concerto vi sarà la testimonianza di Ponselè, per poi viaggiare nel mondo intero, grazie alla musica, seguendo una traccia ben precisa, dettata dal tema che ha caratterizzato tutte le iniziative di AVSI di quest’anno.
Il tema scelto per il 2018 è la casa, intesa non solo come dimora fisica, ma come luogo di accoglienza e di incontro. Luogo in cui uno trova se stesso.
Quest’anno questa intuizione originale è ancora più evidente.
È sempre più forte infatti il pullulare di iniziative che nascono spontanee e che vanno ad incontrare i bisogni crescenti di una società sempre più liquida. Liquida nelle sue componenti d’origine. Non sappiamo più chi siamo. Non riconosciamo più la nostra terra come nostra “casa”. Non abbiamo più luoghi di reale incontro. Una perdita di coscienza resa ancora più acuta, ma non causata, dalla presenza di numerosi migranti, stranieri che fuggono dalle situazioni che AVSI tenta di alleviare e confortare nelle zone d’origine. Nascono così gruppi e realtà che si muovono per rispondere anche qui, in Italia, al bisogno di dimora, di istruzione, di accoglienza.
Il Coro Popolare di Rimini è un grande ponte lanciato tra il bisogno di trovare ed offrire una dimora. Cercare e trovare la propria casa ed offrirla a chi l’ha perduta è un tutt’uno. E questo si realizza, in primo luogo, in uno sguardo, in un incontro (dove tutto si ricompone, dove la casa prende forma nel proprio animo), fino a giungere a volerla costruire, raccogliendo denaro, producendo iniziative, magari partendo come testimonieranno i volontari di AVSI, che nei prossimi giorni interpelleremo per farveli conoscere meglio e che sabato sera avremo presenti fisicamente a Rimini.
La casa è un movimento della persona, che genera un’amicizia che diventa un luogo umano, una dimora dove ritrovarsi. Condividere questa casa con chi non la possiede, perché distrutta o mai costruita, è un passo conseguente e necessario. Ed è così che accade che gli amici del Coro possano giungere a sostenere una mezza classe di ragazzi, strappati ad un destino, altrimenti privo di speranza. È così che AVSI si impegna, senza pretese risolutive, a costruisce una casa per tutti.
Nei prossimi giorni approfondiremo quello che fa AVSI nel mondo e la grande opportunità che la serata di sabato offre ad ognuno di noi.
Opportunità, in primo luogo, di ritrovare la propria casa.
Nel 2014 il Coro Popolare già cantava “Voglio una casa”, anticipando il tema 2018 di Avsi.
Spesso Giovanni Paolo II parlava dell’avvento del nuovo Millennio come il tempo di una rinascita del Cristianesimo e di una nuova evangelizzazione (“aprite le porte a Cristo”). Papa Benedetto ha precisato come dovessero cadere tutte le “conseguenze” del Cristianesimo, per attestarci sull’essenziale: Dio che ci viene incontro (parlava di “minoranze creative” e prefigurava il disegno di una chiesa che ha perso e perderà ogni potere mondano). Papa Francesco sta operando fattivamente secondo la dinamica dell’incontro, testimoniando la prossimità di Dio in ogni situazione, in ogni storia particolare, con un impeto tutto nuovo e con forme sorprendenti e libere.
L’esperienza umana, per credenti e non credenti che seguano attentamente il cammino di consapevolezza della Chiesa degli ultimi decenni, è appassionante. È la scoperta continua di una positività insperata, ancor più luminosa se nascosta nelle pieghe più buie della vita. È una “impossibile” positività che vince e si afferma, seppure visibile solo agli occhi di chi è abbastanza “povero” da poter vedere.
Trovo riassunta in questa dinamica tutta la migliore filosofia che gli autori, che insegno da anni, propongono (Socrate, Platone, Tommaso, ma anche Kant stesso ed alcuni aspetti del tanto vituperato Hegel o di Marx, per non dimenticare Nietzsche o Heidegger). In questo gioco sottile della natura con la ragione, di Dio con l’uomo, si inscrive la grande ricerca della verità di sempre.
Il Natale è semplice ma non è cosa da poco.
È la grandezza di un Mistero che ci dona la ragione per comprendere la realtà e poi sceglie ciò che è impossibile per la ragione per darci una luce definitiva sulla vita.
Ed è necessario che sia così.
Proprio in questi giorni a lezione, studiando Cartesio e Pascal, emergeva come l’intelletto non possa afferrare il cuore dell’esistenza (ma poi lo sostiene anche, sorprendentemente e criticando l’illuminismo, il giovane Hegel, emblema del razionalismo moderno). Come dunque afferrare il cuore dell’esistenza se non oltrepassando quella ragione, i cui concetti la mia docente tomista (Sofia Vanni Rovighi) definiva con termini pascaliani, “grandezza e miseria del genere umano”?
Il Natale per un filosofo è cosa strana. Da una parte la sua semplicità e quotidianità lo lasciano attonito e quasi smarrito. Come fosse troppo poco. Dall’altra lo affascinano e lo attirano, come un segreto che pre-sente ma non conosce, un segreto rivelato ai piccoli e di cui lui, che fa del conoscere il suo mestiere, non ne sa nulla.
Trovandomi con numerosi colleghi per una cena insieme, ed essendo prossimi al Natale, ho voluto regalare loro il Volantone che alcuni amici preparano ogni anno. Ho desiderato in realtà condividere quanto ha voluto dire per me questo foglio di carta quest’anno, riassunto in un video che ho proposto a colleghi, studenti e amici, e che trovate qui sotto.
Il volantone è una foto , accompagnata da una frase di un altro mio docente all’università (e molto più che un docente), don Luigi Giussani.
Una “storia particolare” è la chiave di volta della concezione cristiana dell’uomo, della sua moralità, nel suo rapporto con Dio, con la vita, con il mondo. La nostra speranza è in Cristo, in quella Presenza che, per quanto distratti e smemorati, non riusciamo più a togliere – non fino all’ultimo briciolo, almeno – dalla terra del nostro cuore per tutta la tradizione dentro la quale Egli è giunto fino a noi.
Quando l’ho visto la prima volta, distrattamente, ho pensato a una suggestiva foto di un presepe. Il tema è, in un bianco e nero cupo, la luce che promana dalla capanna di Betlemme. Osservando meglio, ci si avvede che si tratta di migranti. E qui mi sovviene la lezione che per un corso di aggiornamento di filosofia avevo udito un paio di mesi fa. Il prof. Elio Franzini, descrivendo la “natura del bello”, concluse in maniera commovente, citando San Francesco e definendo la “bellezza della povertà” quale chiave per capire la natura più profonda del bello.
È anche la chiave di questo volantone che, uscendo – come accadde già diversi anni fa più volte per quello analogo di Pasqua – dall’immagine iconografica classica, lancia un messaggio eccezionale. Il messaggio che Franzini, inconsapevolmente, ci ha lanciato ad ottobre: “guardiamo queste immagini – si riferiva a drammatiche foto di migranti – vi è una bellezza povera, drammatica, che non ha bisogno di parole ma finché non comprenderemo questa bellezza povera e drammatica noi non comprenderemo il senso che la bellezza ancora oggi ha per noi”.
Il Natale è per tutti, come ha scritto Carron. Il Natale è per questo nuovo millennio, tempo in cui abbiamo smarrito la nostra ricchezza. Il Natale ci permette di guardare nuovamente e realmente quella realtà che ci appare spoglia e povera ma che nasconde una ricchezza inestimabile: l’amore di un Dio che si fa compagno della nostra intera esistenza e che nulla al mondo ci può strappare di dosso o può allontanare dalla nostra vita, qualsiasi condizione stiamo attraversando.
Il Meeting 2017 procede nel cammino verso l’approfondimento del carisma di Giussani, riconosciuto sempre più decisivo per approcciarsi al presente. Un carisma, che, come ben delinea la mostra – brevissima ma di notevole chiarezza – che si trova sul retro del banco dell’ International Meeting Point, non coincide con alcune “forme di presenza” o alcuni giudizi ma con l’immedesimazione completa, totale e appassionata con Cristo, vissuto come “stoffa dell’essere”, come radice di cui ogni cosa vive. E dunque fonte di giudizio libero e appassionato su tutto.
Un giudizio che si compie grazie all’aiuto dell’ “altro”, del diverso, di colui che non ti aspettavi.
Questa libertà è quanto Giussani ha vissuto ed ha tentato di insegnarci. Una libertà che nasce da una dimensione di rapporto con il Mistero, quasi fosse una “mistica” incarnata nella storia. Non a caso, il momento topico del meeting 2017 può essere identificato, ad oggi, nell’incontro tra due monaci, ovvero due uomini che di mistica se ne intendono. Ebbene in questa “mistica” si può trovare la radice per una nuova passione per la Polis, una passione capace di superare vecchie forme, lontane davvero un millennio.
Lunedì scorso si è parlato dell’amicizia tra don Giussani e Abukawa, il monaco buddista del Monte Koya, il più profondo centro spirituale del Giappone (interessante leggere l’articolo sul Quotidiano Meeting dove un’appassionata orientalista scopre casualmente che nella sua Rimini sarebbe venuto colui che, per incontrarlo, dovette raggiungerlo in Giappone, dove peraltro aveva trovato misteriosamente le stanze costellate di foto del Meeting di Rimini). Quel Giappone così ostile ai valori cristiani, come ci è stato ricordato dal film Silence recentemente. È proprio con Abukawa che oramai da trent’anni nasce e si conserva un’amicizia profonda e intensa, per nulla limitata dalle “differenze culturali”.
L’incontro del 21 (lunedì scorso) tra l’abate generale dei Cistercensi, Mauro Giuseppe Lepori, e Shodo Abukawa – Lepori ha ereditato tale amicizia da don Giussani – è stato un approfondimento eccezionale di qual sia il compito del cristiano, di fronte alle sfide del nuovo millennio.
Liberi da ogni formalismo, hanno pregato assieme (in una forma rispettosa del credo di ognuno, senza sincretismi), hanno relazionato e testimoniato il valore di un incontro tra uomini che si fonda sul comune rapporto con il Mistero, come bene ha sintetizzato Alessandro Caprio sul Quotidiano Meeting (pag 1 e pag. 3). (Ma è assolutamente imperdibile la visione dell’intero incontro cliccando qui.)
In particolare Lepori ha posto alcune sottolineature che risultano decisive per il futuro della Chiesa e dell’uomo contemporaneo, così restio ad abbracciare una tradizione che considera un peso, un intralcio, una sorta di residuo che funge da zavorra nel suo confuso errare verso una realizzazione, che pure gli appare sempre più una chimera. Giudizi che possiamo considerare sciagurati, e che tuttavia stanno lì, inamovibili e rocciosi. Tanto più rocciosi, quanto più l’uomo, ferito, sanguina e ansima, straziato dal dolore di un’esistenza che appare sempre più vuota. Eppure, sempre più chiaramente, questa situazione emerge come una grande risorsa, da cogliere per il bene di tutti.
Lepori ha letto il contenuto di una calligrafia, realizzata da Abukawa e portata a lui in dono, in cui si afferma una vecchia espressione di Kobo-daishi, il fondatore del Buddismo Shingon: “Tutti quelli che vanno a trovare un grande maestro o una persona virtuosa, hanno il loro cuore vuoto. Ma grazie all’incontro con lui, tutti saranno salvati e torneranno sulla strada di casa con il loro cuore pieno di soddisfazione”.
Lepori ha colto, a partire di qui, la grande dicotomia che abbiamo di fronte oggi. Oggi si tratta di scegliere, se avere “un cuore chiuso o un cuore vuoto” (Lepori ha più precisamente detto che “l’alternativa a un cuore vuoto è un cuore chiuso”).
Questa espressione, lapidaria e fulminante, nasconde un chiarimento essenziale di fronte a tutta la fatica della chiesa e dell’uomo di oggi. Il grande compito rispetto a cui il papa sta incoraggiando instancabilmente l’umanità intera. Esortazione che lo rende l’unica autorità morale del presente, come più osservatori hanno affermato.
La via di uscita, oggi, non è un cuore pieno. Bensì sostare sul quel vuoto, non temerlo, condividerlo con l’uomo d’oggi, cercare chi avverte questo smarrimento di fronte al Mistero, per ritrovarsi di fronte alla dimensione ultima della vita, sostare di fronte a quel Tu che unico può riempire la vita (Giussani ci insegnò: “Io sono Tu che mi fai”).
Se non raggiungiamo questo livello ultimo e profondo (per questo si parlava di mistica, non si fraintenda con uno spiritualismo), oggi nessuna risposta “della terra di mezzo” può apparire significativa. Il cristiano, come d’altro canto ha ben chiarito Costantino Esposito con il suo momento “Profeti del nostro tempo”, ha l’occasione di comprendere più pienamente la sua fede, potremmo dire se stesso, la propria identità (che non si identifica con quanto già costruito, ciò di cui Vittadini in maniera provocatoria ha detto di “non sapere che farsene”) in un mondo che crolla. Il nichilismo dell’uomo contemporaneo, vissuto come grido, è la grande opportunità perché l’uomo torni a vedere Cristo, e non sue propaggini, sue conseguenze, sempre e comunque insufficienti.
Seguendo la suggestione di Lepori si può dire che fare cultura oggi (rendere la fede cultura) è soprattutto costruire “relazioni che rendano eterne quelle costruzioni” (di mura, di idee, di valori) che la storia sta spazzando via. Costruire ciò che le rende eterne, cosicché quand’anche venissero spazzate vie le idee, le mura, i valori, nulla cambierebbe perché ne sarebbe mantenuta l’origine. Si comprende bene il carattere invincibile di tale posizione. Quand’anche l’ISIS facesse crollare San Pietro, non saremmo perduti, se (e solo se) vivremo questa dimensione.
È la strada. La nuova ed antica strada, in un momento di ricostruzione di civiltà (una ricostruzione i cui frutti probabilmente, in termini di “strutture” la nostra generazione non vedrà, come d’altro canto la generazione di S.Agostino non vide la societas christiana ).
È decisamente un approfondimento notevole, che chiarisce, distilla, precisa tutta la vita di CL, riprendendo tutti gli instancabili interventi del Gius per correggere un percorso che oggi si adagia con sempre maggiore docilità sulla linea maestra dell’esperienza viva e sorgiva nata da lui, dopo tanti “tentativi ironici”, preziosi ma per definizione da definire e correggere sempre. Oggi più che mai.
Possiamo dire che dalla “mistica” di Lepori (e Abukawa) e dal “cuore francescano” di Pizzaballa (che ha approfondito il tema del Meeting), nasce un nuovo impegno nel mondo, una nuova passione per la Polis, resa possibile da quell’agilità del cuore (espressione sempre di Lepori, in un successivo dialogo) che può rendere il nostro impegno libero di riconoscere i bisogni dell’oggi, in quanto libero da qualsivoglia schema. È quella ingenua baldanza che il Gius ci ha insegnato e che oggi riguadagniamo, scoprendoci con il cuore vuoto e ferito (come d’altro canto ogni uomo del XXI secolo) di fronte al grande Mistero che costituisce ogni cosa e che prende forma in maestri, talora impensati, talora perfino lontani, e diventa via e metodo nel grande alveo della nostra madre Chiesa.
Un Meeting che ci immerge in un tempo appassionante, dove la sfida è già vinta, ma tutta da riguadagnare.
Un Meeting dove il “popolo di Cl” in maniera massiccia comprende le nuove sfide, come attesta la presenza selettiva agli incontri che toccano questi nodi decisivi. All’incontro con Lepori la sala non ha potuto contenere la folla, che ha riempito all’inverosimile anche la Hall Sud, mentre le visualizzazioni su Youtube già hanno raggiunto ben 2.800 visualizzazioni. Allo stesso modo, ed anzi superiore, una folla sterminata era presente all’incontro con Pizzaballa, anche qui ben oltre la capacità di contenimento della sala, a cui si aggiungono 5450 visualizzazioni su Youtube.
Da questo Meeting esce un popolo pronto e sensibile alle sfide del cambiamento d’epoca.
Un paio di giorni fa Charlie Gard è volato in cielo. I genitori hanno rinunciato a procedere nella loro battaglia, riconoscendone l’impossibilità. L’ospedale ha proceduto secondo le proprie prerogative.
Non ci interessa, qui, proseguire una battaglia che è stata irta di malintesi e banalità, che abbiamo in parte documentato in due lunghi articoli (leggi il primo e il secondo). Malintesi e banalità che fan fuori una complessità che il dialogo con alcuni amici, tra cui medici e persone appassionate alla vita ed alla vicenda, ha confermato e che la Chiesa stessa riconosce in questi casi, come gli articoli del Catechismo voluto da Ratzinger attestano (si veda art. 2278 e 2279 del Catechismo), lasciando margini di azione terribilmente ampi, tutti in mano ai medici ed ai famigliari.
Vogliamo porre lo sguardo su quello che realmente e profondamente è accaduto.
Da una parte, ancora una volta, si è affermata la tragedia che riguarda ogni uomo. La sconfitta delle proprie aspirazioni, la prova fattuale che “non ce la possiamo fare”. La morte è il riscontro sicuro e oggettivo di questa impotenza a realizzare i propri desideri.
Con la vicenda di Charlie Gard si è visto, tuttavia, anche altro. Si è visto che il desiderio dell’uomo di vivere, di amare, di combattere è potente. È capace di stringere insieme migliaia e milioni di uomini. I genitori di Charlie sono stati la testimonianza di questa forza e in tantissimi ci siamo stretti attorno a loro (pur con diverse valutazioni sulle opportunità da seguire, sulle quali i medici stessi si sono trovati divisi, anche a causa del condizionamento mediatico), commossi per questa tenacia e questo amore al proprio figlio.
Viene in mente il Leopardi della Ginestra, il Leopardi del titanismo, che piega il suo pessimismo verso un volontaristico e imponente sforzo di compassione e un appello all’unione del genere umano per combattere contro la natura matrigna.
Ma resta la domanda. È una battaglia che può essere vincente? La risposta è chiara. No.
Vengono in mente i miti del Foscolo (unica consolazione per l’uomo, destinato al nulla), oppure, in tempi più recenti la bella canzone di Guccini, Le cinque anatre. Se anche una sola continuerà il suo volo, mentre le altre 4 cadono, questa sarebbe la prova che “si doveva volare”. Il problema è che neppure quell’unica anatra, nel nostro caso, può continuare il volo per raggiungere il suo Sud.
Ma allora che significato ha la tenacia dei genitori e la commozione del mondo intero (commozione capace di muovere perfino i potenti)?
La soluzione è quella di non deviare l’urgenza della domanda che Charlie testimonia: a che vale la vita? Perché il grande spettacolo della vita, se poi ci viene improvvisante portato via?
Di qui la necessità – di cui dicevamo a margine dei precedenti post – di poter sperimentare da subito scintille di resurrezione, ovvero di vittoria.
Costruire luoghi dove è possibile sperimentare da subito la vittoria sulla morte, dove tale vittoria è altrettanto quotidiana e reale quanto la presenza della morte che ci pervade, è la vera buona battaglia. Luoghi che diano senso e speranza anche alla tenera e cara vita di Charlie, e senso e speranza al dolore di quanti lo hanno amato così fortemente.
Lo ricordava don Giussani, nel 1982, come cifra risolutiva per la vita di ognuno.
« “Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede”. Questa è la vittoria che vince l’inesorabile degradazione verso la morte, la mortificazione della vita, l’anticipo del sepolcro che è l’abitudine: la fede, il riconoscimento di qualcosa che accade, di ciò che accade, del senso della vita che accade, di Cristo che viene tra noi». (don Giussani, Una strana compagnia).
La nostra fede, come reale riconoscimento di un avvenimento, e non miti (progressisti o conservatori, pragmatici o valoriali) creati da noi e che inesorabilmente saltano la realtà nella sua fattualità (rende in bianco e nero ciò che è pieno di sfumature). Quella realtà che dobbiamo imparare ad avere il coraggio di amare.
Per questo serve , oggi più che mai, l’intelligenza della fede, affinché si abbia finalmente il coraggio di guardare ciò che c’è, senza sogni e aggiustamenti.
Io non so niente
ma mi sembra che ogni cosa
nell’aria e nella luce
debba essere felice
Credo che se c’è una cosa che insegna la vicenda del piccolo Charlie, sia proprio questa: imparare ad amare la complessità.
Le semplificazioni e le battaglie in nome di certezze preventive hanno generato interventi in rete, ed anche sui giornali, di cui non si avvertiva onestamente il bisogno.
In una vicenda in cui i colpi di scena si avvicendano a cadenza quotidiana (tanto la vicenda medica e giuridica è intricata per chi non possieda la cartella clinica di Charlie), occorre prudenza e attenzione vigile. Ultimo, tra i colpi di scena, è la richiesta dei medici del Great Ormond, l’ospedale dove è in cura Charlie, di riaprire la questione, rivolgendosi all’Alta Corte inglese per riesaminare il proprio giudizio alla luce delle richieste dell’ospedale Bambin Gesù del Vaticano. (Si legga qui). E speriamo che si aprano davvero speranze, per quanto la luce sia flebile.
Bisognerà seguire la vicenda dunque, ora per ora, per capire di più e meglio.
È sempre più chiaro che la grossolana mole di certezze che, da una parte come dall’altra, ha caratterizzato il dibattito è veramente inappropriata e sbagliata come approccio.
E mi ci metto dentro anche io (che pur mi son preso del “Pilato”, “traditore” e quanto altro potete immaginare di bassissimo e nefando, per aver osato avere dubbi e cercare di riflettere). Malgrado il lunghissimo post di un paio di giorni fa, frutto di giorni di letture e riflessioni, ancora molto sfuggiva. Il post è stato però l’occasione, quale onesto tentativo di comprendere, per risposte e approfondimenti importanti, di cui ringrazio i lettori (e invito a leggere i commenti, preziosi in coda al precedente articolo).
Mi sfuggiva ad esempio la lunga intervista a Colombo che avevo letto e apprezzato ma non adeguatamente interiorizzato e fatta mia. Oggi molti amici si chiedono quali siano le coordinate (sia mediche, che etiche, che teologiche) della questione. Credo che l’intervento di Colombo dia il contesto giusto e vada preso come linea maestra per ogni successiva discussione. Bisogna avere la pazienza di leggerlo tutto fino in fondo (in particolare al punto “3” senza fretta. (Si legga qui)
Anche l’intervista al dott. Cesana su Il Foglio, permette di comprendere quanta prudenza occorra avere. Si rompono dunque anche schemi consolidati, nel panorama del “mondo cattolico” tra i cosiddetti “battaglieri”, e fedeli alla linea, e le “colombe” (categorie idiote per il mondo cattolico, dove la più grande battaglia è quella dell’agnello immolato, ovvero Cristo). E meno male che gli schemi si rompono. (Si legga qui Cesana)
Il problema vero è riconoscere e dare credito a quelle “scintille di resurrezione” di cui parlavo nell’articolo precedente, vero aspetto interessante e pertinente (resurrezione da non ridurre a una “posizione per cui combattere”). Scintille presenti nell’attività di tanti medici, tra cui la dott.ssa Parravicini, ma attestata anche dalla bella lettera di Valeria Bertilaccio.
Ma perché questo accada occorre amare la complessità. Non ridurre la realtà al “già saputo”.
Ma a quale condizione è possibile amare la complessità?
C’è solo un modo per potersi addentrate nella realtà senza aver timore che questa ci porti via speranza, vita, valore. Occorre “credere” che la realtà sia densa di significato, comunque si ponga, in ogni suo aspetto. Un “credere” che diventa esperienza ragionevolmente fondata nell’incontro con Cristo, laddove si scopre che il Logos si è incarnato ed è la stoffa di cui è fatta la realtà (“la realtà invece è Cristo”, San Paolo).
Pertanto, se proprio all’interno di media cristiani si sono aperte battaglie grossolane (e tardive, ci ricordano amici che vivono a Londra), – magari da parte di tanti ingenuamente- è per poca fede e non per urgenza della fede. La battaglia che la realtà ci chiede, per uscire dal vortice del nulla, è un’altra. È la domanda di esistenza, di vita, dell’esserci. È la preghiera perché Charlie e la sua famiglia si salvino (dalla morte, prima che non dai tribunali). Lo aveva capito perfettamente Giorgio Gaber, a cui ieri abbiamo dedicato, con gli amici del Centro culturale Il Portico del Vasaio, una serata conviviale di ascolto e di riflessione. In Io e le cose afferma “Io non so niente / ma mi sembra che ogni cosa / nell’aria e nella luce / debba essere felice.”
Per il resto, prima di brandire “casi” come armi per sostenere una propria idea, occorre passione per capire, certi che la realtà non tradisce.
E questa è la fede che ho imparato da Giussani che in fin di vita sostenne, “la realtà non mi ha mai tradito”.
I nuovi complessi problemi etici che si sono aperti da tempo, potranno generare nuove soluzioni di pensiero, solo a partire da questo, laico e di fede (ovvero pienamente razionale), approccio.
È per questo preziosa l’ “altra parte” del dibattito. Quella fatta di ricerca, richieste di chiarimento, lettura appassionata, attenzione ai dati. Una ricerca che ha portato a nuove e più consapevoli domande che oggi richiedono risposte decisamente urgenti.
L’intensificazione di questo lavoro di “presa di coscienza” è sicuramente generativo di una nuova speranza.
Anche le recenti polemiche sui fatti di Manchester, in casa cattolica, possono aiutarci a capire meglio ciò per cui viviamo. Un’occasione per riflettere pacatamente e ripartire.
È senza dubbio con dispiacere che vedo, di fronte ad eventi così gravi come l’eccidio di Manchester, prevalere in alcune discussioni, il gusto della polemica e delle analisi, anziché sostare, almeno per un attimo, sul dramma che stiamo vivendo. Morti giovani, morti gratuite, il male orribile che si innalza sulla scena di quella che doveva essere vita e invece diviene morte. Tutto questo può essere spunto per battaglie, giudizi, considerazioni polemiche su una battaglia culturale e di civiltà, rilanciando -come è stato fatto con ironia e una punta di disprezzo- il tema dello “scontro di civiltà”?
Per quanto possa essere sacrosanta la battaglia, è questo il momento, è questa l’ora? Non ci riduce al metodo proprio di un Saviano qualsiasi ? (si veda al link la polemica sulla liberalizzazione della droga).
Tutto si decide nel momento e nell’ora. Più che non nei nostri concetti.
Ha colto bene questo punto (il vero motivo delle irritazioni nate di fronte alla lettera di mons. Negri, a cui va dato atto di aver espresso in ogni caso il desiderio di non rimanere indifferente al male che accade), il giornalista Luigi Geninazzi che risponde in maniera sanguigna su Facebook ad un articolo di Riccardo Cascioli che lo attacca, perché non entra a far parte della sacra battaglia.
“Caro Riccardo, nessun travisamento. Le parole di m. Negri sono chiarissime. E indecenti: “Avete vissuto male ma avrete un ottimo funerale”. Ti piace questo sarcasmo rivolto a bimbi e adolescenti morti a Manchester? Che ne sa mons. Negri di loro? Magari c’erano anche credenti. In ogni caso, dire che sono “vite sprecate” non consolerà certo i genitori e i nonni di quei ragazzi. Secondo te un simile giudizio avvicina la gente a Cristo? E non venirmi a citare Biffi, il giudizio sulla nostra società scristianizzata ecc ecc, tutte cose che condivido. Ma se questo si traduce nel “Avete vissuto come poveri coglioni e siete morti da coglioni ad opera di un coglione”, allora siamo decisamente fuori strada. Non cercare di difendere l’indifendibile, per favore.”
Non è questione di essere più o meno misericordiosi, più o meno volti alla verità o alla bontà (che ben sappiamo non si possono distinguere), ma è questione di chiarire ciò verso cui stiamo camminando, per cui anche questo doloroso fatto è un passo.
Quid est veritas? Est vir qui adest. Fuori di questo nessuna speranza.
Perché accade che affermando vigorosamente “ragioni”, si affermi in realtà il contrario e si alimenti, pur con un volto differente, il medesimo vuoto (in un gioco dialettico che farebbe la felicità di un Hegel o di un Marx)? Possiamo uscire da questo circolo che azzera l’unica risposta che – come cristiani e uomini – abbiamo da offrire alle vittime e all’uomo di oggi (egli stesso vittima) di una logica di morte?
Guardando a come don Giussani in situazioni analoghe reagiva, occorre innanzi tutto osservare che il contraccolpo immediato era del tutto differente. Un silenzio attonito – salvo poche e ben poco autorevoli voci – permeava il sentire comune, anche di chi pure partiva da posizioni del tutto lontane. Mi riferisco al Giussani maturo, capace di rompere il silenzio mediatico in cui era confinata la Chiesa con incredibile forza comunicativa, priva di ogni ombra di contrapposizioni artificiose. Si prenda ad esempio, il discorso diffuso sul tg2 in occasione della strage di Nassirya. Merita di essere riascoltato.
Quel che emerge in quelle parole è commozione per la miserevole condizione umana (di tutti) e la parola misericordia risuona in più passaggi Lo spunto sono le parole della vedova Coletta, che perdonò gli assassini del marito carabiniere.
Si ricorderanno anche le parole di don Giussani, dopo la tragedia delle Torri gemelle, al responsabile di CL degli Stati Uniti che le trascrive e diffonde agli amici. “Noi dobbiamo tener saldo il nostro giudizio e paragonare tutto con quello che ci è successo, in questo momento grave e grande… Dobbiamo ripetere questo giudizio prima di tutto a noi stessi. Questo momento è almeno grave quanto la distruzione di Gerusalemme. E’ totalmente dentro il Mistero di Dio… Tutto è segno…Preghiamo la Madonna…L’ultima definizione della realtà è che essa è positiva e la misericordia di Dio è la più grande parola. Questo è certo, occorre rimanere saldi nella speranza. Grazie a ognuno, uno a uno, per essere là”. E successivamente il telegramma a Bush, in cui assicura che tutti i membri di CL sono “vicini a Lei in un momento così doloroso per tutta la Nazione – e quindi per tutti gli uomini – per i tragici fatti di New York e di Washington DC, terribile affronto alla dignità dell’uomo”. Ed assicura la preghiera “per la Sua persona e per il Suo popolo affinchè insieme possiate raggiungere quella giustizia pacificante di cui avete sete e di cui tutto il mondo ha bisogno, dato il compito storico che gli Stati Uniti d’America hanno nei confronti di tutti”. E poi la frase posta sulla copertina di Tracce di settembre, dettata da Giussani: “Dio salvi il mondo. Se si mette Dio di fronte a tutti i peccati della Terra, sembra ovvio dire: “chi potrà sussistere? Nessuno si può salvare” E invece Dio muore per un mondo così, diventa uomo e muore per gli uomini. È misericordia il senso ultimo del Mistero: una positività che vince la presunzione e la disperazione”. E il Tracce di novembreriportaquesta ulteriore frase di Giussani “Se altri giungono fino al terrorismo, noi dobbiamo giungere fino a una coscienza che sopporta le estreme conseguenze della vita che il Signore ha creato. Questo è il contributo che i cristiani portano dentro il tante volte incomprensibile marasma del mondo: l’affermazione di una inesorabile positività per cui si può sempre ricominciare nella vita” . (Testi tratti da A. Savorana, Vita di Giussani).
Una forza che sbaraglia, ammutolisce, non genera alcuna polemica, non implica alcuna reazione dialettica. Semplicemente lascia ammutolito chiunque, qualunque idea abbia.
Ciò che genera questo giudizio, che ha i tratti di una novità e di una forza assoluta, si trova in quel sentirsi “come anfora vuota alla fonte” che Giussani ci ha insegnato in maniera continua e insistente. È questo senso, e sgomento, dell’esser nulla di fronte al tutto che eventi come quello dell’altro giorno rinnovano drammaticamente. E, in questo ritrovarsi nulla di fronte al tutto, scopriamo di essere assieme -per un attimo- a quel mondo così apparentemente lontano. È l’esperienza della povertà suprema, unica condizione per un incontro (oggi, non ieri, né domani) con il volto carnale di Cristo.
Una povertà che troviamo continuamente nelle parole del Gius e che trova sintesi potente nel verso di una canzone sui carnefici di Auschwitz di Claudio Chieffo: “non è difficile essere come loro”. Una canzone che ho imparato quando avevo più o meno l’età dei ragazzi morti a Manchester e che sicuramente sarebbe stato bello che anche loro conoscessero -più che non altre parole e canzoni-, ma che impone l’azzeramento di tanti pensieri. Per un attimo. Per un momento.
Per questo il volantino della comunità inglese di CL ha colto duplicemente nel segno. Da una parte il riconoscimento di una Pietà che in situazioni come questa finalmente riemerge dal fumo di una società confusa. E che non può che trovarci in una posizione simpatetica, prima ancora che farci tuffare nel mare dei distinguo (che potranno senza dubbio arrivare, che potranno e dovranno essere messi a punto, a tempo debito nel frangente opportuno e con grande attenzione a non cancellare quel poco di bene emerso).
L’altra questione è che non sarà una visione della storia e dell’uomo a salvarci.
“La Resurrezione non è un sogno, è un fatto, che è all’origine della nostra speranza in questi tempi bui. All’origine della nostra certezza che la vita di quei ragazzi non è andata sprecata. È quello che vogliamo testimoniare ai nostri amati compagni, uomini e donne.”
Nel Gius, il “donna non piangere” del nazareno era evidente nei toni, nella forza, nella magnanimità (la grandezza dell’animo che abbraccia tutto di te). Il volantino segue le tracce di questo giudizio, esprime l’esperienza di questo abbraccio e lo porta al mondo.
In questo momento di sgomento, mentre il mondo si ferma e dimostra la sua fragilità prima di riprendere le litanie consuete di questa vita dimentica dell’umano, occorre fermarsi insieme ai nostri compagni di cammino, riconoscendo lo sgomento e il dolore. Riconoscendo di essere “anfore vuote alla fonte”, tesi a rintracciare quell’abbraccio che, unico, può salvare (ed ecco il richiamo di don Giussani alla croce ed alla educazione del popolo – non certo per difesa di una civiltà che egli sapeva non esistere più-).
Ci ha dato lezione di questo, proprio qui a Rimini, il dott. Fossà, medico AVSI nelle terre dello “scontro di civiltà”. Nel suo intervento di sabato sera e nell’intervista Skype realizzata, ha risposto senza saperlo – non era ancora accaduto – a quanto si è poi udito, con quel suo vivere le cose, che ho definito “quasi mistico” per come riusciva a leggere il significato degli eventi, oltre le contingenze.
C’è una forza nell’umano che non si rassegna. In cui – sono sempre parole del dott. Fossà – soffia lo Spirito che dà vita (e che è irriducibile). I cristiani hanno un compito decisivo nella presa di coscienza di cosa esso sia.
Questa forza fa sì che un popolo – in cui ci si aiuta reciprocamente a riconoscere quel Volto, ovvero in cui si lavora per educarsi alla vita – si possa ritrovare in poche ore, rispondendo ad un appello del pomeriggio. E così, da pomeriggio a sera, possa gremire una chiesa per un rosario (pregare è il gesto più razionale, sempre!). E in quell’occasione sono d’aiuto a spazzar via qualsiasi ambiguità le parole del sacerdote, laddove afferma “siamo qui non per affermare Cristo contro il male, ma per lasciarci guardare da Lui, nel cui sguardo è salvato tutto, anche il male” (cito senza pretesa di essere testuale). Affermazione che fotografa perfettamente la posizione dei cristiani in medio oriente, del tutto lontani dai nostri scontri di civiltà ma capaci di vivere da uomini in mezzo alle condizioni più avverse (sempre il dott. Fossà riferendosi ai campi profughi di Erbil e a Damasco: “in loro non un segno di rabbia, non una polemica, non un lamento, ma una inspiegabile letizia. Non sapevamo spiegarci come fosse possibile.”).
La carezza del nazareno è ciò di cui ha bisogno il mondo (e ognuno di noi) per ripartire e costruire realmente la civiltà della verità e dell’amore. Ringrazio i tanti amici che già sono incamminati in quest’opera e che mi conducono quasi per mano.
Sabato sera, ad introdurre il concerto in favore di AVSI di cui abbiamo già ampiamente parlato, sarà presente il dott. Alfonso Fossà. Operatore di AVSI da tempo, è partito in missione già prima della nascita di questa eccezionale realtà. Era il 1974, quando in forma un po’ avventurosa – ma sapientemente guidata -, si recava in Congo per costruire un ospedale. Quanto accadde fu ben di più, come ci racconta nella bella intervista che ci ha concesso e che vi proponiamo qui, a fondo pagina, in forma video, integralmente. Una intervista che fa nascere la voglia e la curiosità di ascoltarlo di persona sabato sera, 20 maggio, al teatro Novelli alle ore 21.
Trenta minuti di dialogo che aprono un mondo.
Per facilitarne la fruizione, per non perdere i passaggi salienti di quanto Alfonso ci ha raccontato, l’abbiamo voluta anche descrivere con alcune parole, indicando i minuti. Infatti merita di essere ascoltata interamente e direttamente la voce del dott. Fossà, in alcuni passaggi commosso nel suo racconto. D’altro canto il tempo breve e frenetico del nostro vivere, impone che si mettano a fuoco alcuni punti per facilitare chiunque. La registrazione è del tutto artigianale, ma crediamo efficace. Ci scusiamo per due passaggi (ma non più di un paio) un poco disturbati.
L’intervista parte con il racconto, più esteso, di come sia nato tutto. Abbiamo chiesto ad Alfonso perché (più di una volta) sia partito, cosa lo abbia spinto ad andare. Ci racconta così la scintilla che lo ha mosso e come il progetto iniziale venne completamente trasformato dall’osservazione dei “segni” che la realtà suggeriva. Nasce così una sorta di ASL embrionale in un paese devastato e demoralizzato e poi un ospedale che fu costruito con risorse locali (in un paese privo di risorse!). L’esito fondamentale di questo lavoro è stata la responsabilizzazione degli uomini di quel luogo, l’infusione di una speranza capace di renderli costruttori. (dall’inizio fino al minuto 14:30).
Poi abbiamo chiesto quale sia il “guadagno” del partire (dal minuto 14:30 al minuto 17:30). Qui il medico entra dentro quello che potremmo chiamare il senso del vivere, la grande incognita di una vita realizzata o meno. “Guardare i bisogni della realtà, fa scoprire – dice Alfonso rivolgendosi ai giovani – di quante risorse siete capaci, di quante energie siete in grado di dispiegare. Lasciate che la realtà provochi in voi una curiosità affettiva (…) Questo è quanto ho scoperto come guadagno.”
Abbiamo continuato chiedendo chiarimenti in merito ad un articolo scritto da lui stesso (“Non c’è disperazione qui, solo un’umanità nuova“), dov’egli dice che ad Erbil non c’era disperazione ma letizia. Un articolo quanto meno provocatorio. La risposta è la testimonianza di una positività che sembra impossibile, ma ancora viva negli occhi di Alfonso. Occhi che brillano, nel raccontare il coraggio e la fede di un popolo che ha accolto il doppio della popolazione già insediata nel quartiere cristiano di Erbil (40mila persone hanno accolto 60mila profughi, sfollati in una notte -un esodo biblico-) e che ha costruito in pochi giorni centri di accoglienza eccezionali (e che fanno impallidire di vergogna quanto sta accadendo nella ricca Italia e nella ricca Europa). Una situazione dove non prevaleva la rabbia e il lamento, ma la letizia. “Una pace, una pace nei campi profughi indescrivibile. (…) Non sapevamo darcene una ragione e incontriamo l’ex arcivescovo di Mosul… e abbiamo capito che lui imparava dalla sua gente.” (ma occorre davvero sentire le parole di Fossà, dal minuto 17:30 al minuto 26,30).
Fossà nella prima risposta ci aveva parlato anche dell’unità, in Congo, che era nata tra culture diverse (cattolici, protestanti, animisti, pagani). Così gli abbiamo chiesto come si configurasse il rapporto con l’Islam, che in quelle città (Erbil, Damasco) prendeva la forma di una violenza inaudita e volta contro i Cristiani in particolare. Ancora una volta sorprendente la risposta tutta da ascoltare (dal minuto 26:30 alla fine). Fossà qualifica l’ISIS come pseudo islamico (“… di religioso non hanno proprio nulla…”) e non volto contro i cristiani ma contro l’uomo in quanto tale, e lo fa raccontando la convivenza a Damasco, in piena guerra, di persone di fede diversa così come nei campi profughi (50% cristiani, 50% islamici che convivono in armonia), persone che desiderano semplicemente vivere ed essere felici e che manifestano un’energia di vita che non può che essere espressione dello Spirito. Profondo, quasi mistico, il richiamo al Credo, (“lo spirito che da vita”), così come è ironico il riferimento alla polemica, da noi esploso in quei mesi, del Burkini, rispetto alla tolleranza e compresenza là di donne cristiane e islamiche (“le une tutte velate e le altre spogliate più che non a Rimini!”), fianco a fianco senza problemi. Spazza via ogni ombra di scontro di religioni, a favore di una ricerca dell’umano, vera, reale, presente in quelle terre, e che persone, che prendono a pretesto la fede, vogliono cancellare per progetti ideologici o di potere. La battaglia è aperta, ma non tra cristiani e mussulmani, bensì tra chi desidera vivere e una cultura di morte che serpeggia in forme diverse in tanti ambiti (e terre). (si veda al minuto 26,30 in particolare). Decisamente tutta da meditare la conclusione con una considerazione sull’anno della Misericordia: “là ho capito perché papa Francesco ci ha fatto meditare un anno sulla Misericordia. (…) La misericordia è senza limiti, è la condanna a vivere, a stare bene, senza limiti, (…) senza opporci a chi ci dà la vita. Mussulmani e noi stiamo soffrendo le medesime sofferenze. Non è vero che questa guerra è contro i cristiani – come qui ci fa credere chi brandisce il cristianesimo come stendardo identitario – ma è una guerra contro l’uomo” (min.34) e infine l’affondo sulla vocazione dei cristiani e il senso della loro sofferenza e morte, dove torna una visione che va ben oltre la contingenza (e qui vi lasciamo alle parole di Alfonso).
Decisamente una persona da incontrare. Per cui appuntamento al teatro Novelli!
Torna il concerto dell’ormai famoso “corone”, nato ben quattro anni fa e da allora protagonista di magiche serate da tutto esaurito al Teatro Novelli di Rimini. Il concerto Canta per il mondo riproporrà anche quest’anno musiche e canti popolari con grandi sorprese nel corso della serata. Si svolgerà sabato 20 maggio alle ore 21, presso il Teatro Novelli di Rimini. Ingresso a offerta libera.
Protagonisti saranno sempre loro (ricordate? Ne parlammo lo scorso anno), ovvero l’associazione Il Ponte sul Mare e l’ Ensemble Amarcanto, che insieme ai ragazzi di quella che era stata l’associazione Open hanno iniziato questa straordinaria amicizia, capace di muovere risorse e tanta gente. L’obiettivo anche quest’anno è l’adozione di 13 ragazzi ugandesi, a cui – grazie a quanto si potrà raccogliere – sarà permesso di studiare presso la scuola Luigi Giussani di Kampala, in Uganda. Senza l’aiuto del “corone” questi ragazzi sarebbero destinati al degrado ed alla miseria. Invece, il contributo di ognuno, anche solo partecipando al concerto, potrà accendere una speranza, confermando una strada intrapresa. Un bisogno di “accensione” che però riguarda un po’ tutti, come ci raccontano Ivana e Angela, tra le protagoniste di questa esperienza.
Con loro abbiamo voluto quest’anno capire meglio chi sono questi “pazzi” che ad ogni occasione non mancano di esprimere la loro esuberante passione per il canto (e per il mondo). (Anno scorso fui invitato alla loro cena post concerto e guardate nella clip che succedeva!).
Ivana, Angela, ci raccontate come è nato tutto? Quale la storia e la ragione della nascita del “corone”?
Crediamo ci siano due passaggi fondamentali.
Il primo è che per molti di noi, crescendo, era sempre più vera questa esperienza: non ti concepisci da solo, sei dentro una realtà grande e dici a sì a qualcosa che ti accade intorno. Tutto quello che è nato, fino a giungere all’esperienza del coro, è stato un susseguirsi di fatti, di avvenimenti a cui abbiamo detto sì.
Il secondo, conseguenza del primo, è che nasce un desiderio fortissimo di incontrare gli altri, ovvero chi ha una vita diversa dalla tua. Questo perché concepirsi come costituiti da un Altro, rende famigliare l’alterità di ognuno, con i suoi bisogni, le problematiche, le contraddizioni.
Così noi, genitori che avevano dato vita a Ponte sul mare, circa una trentina di famiglie, per aiutarci e sostenerci nell’educazione dei figli – che prima di tante cose contingenti hanno bisogno di una grande compagnia in cui crescere – abbiamo incontrato Laura e Anna, che già guidavano l’Ensemble Amarcanto, gruppo di giovani, e meno giovani, appassionati del canto e che ci hanno proposto un gesto di carità mettendo a disposizione il loro talento musicale.
Di qui l’amicizia, lo stringersi di rapporti e l’idea di preparare una serata per sostenere i progetti con cui AVSI sta aiutando situazioni di grandissima difficoltà nel mondo.
Infine, grazie ad AVSI, nasce la grande amicizia con i ragazzi della scuola Luigi Giussani di Kampala, fino ai “collegamenti”.
Spiegateci…
Il primo è stato anno scorso, ma quello più bello e commovente è stato pochi mesi fa. In sostanza da due anni, prima di iniziare il grande lavoro di prove per arrivare al concerto, ci colleghiamo via Skype con i ragazzi che sosteniamo. Quest’anno è stata la scoperta di ritrovarsi uniti in un bisogno: il bisogno loro di aiuto e il bisogno nostro di uscire dalla nostra situazione, di aprirci al mondo, di non soffocare dentro una vita già predeterminata. Il loro, un bisogno urgente, perché senza la scuola, non hanno futuro. Il nostro, altrettanto intenso, perché non si può vivere solo di se stessi.
Ci hai parlato di grande intensità emotiva in questo collegamento via Skype, lo avete anche trascritto in una lettera (si veda qui)… Cosa ha suscitato questa emozione?
Dall’Italia all’Africa abbiamo fatto sentire i nostri canti a loro, e loro avevano imparato canti per noi. Sono stati bravissimi. Abbiamo visto il cammino che hanno fatto da anno scorso, ed è stato davvero notevole. Questo ce li ha fatti sentire vicini, veramente parte di noi. Bisogna tenere conto che la situazione là è davvero impossibile. Ci sono classi di 100 persone, ragazzi abbandonati, e loro erano riusciti persino a comporre musica e parole per noi.
Un cambiamento in atto…
Esatto. E non solo in loro. Noi abbiamo vissuto al nostro interno un fiorire. Una di noi, Manuela, al momento di laurearsi in sociologia, ha ricevuto la richiesta del suo prof. – che la sentiva raccontare di questa esperienza di aggregazione – di fare la tesi sull’esperienza nostra.
Come vive l’esperienza del coro durante l’anno?
Come accennavo, si prova e si fa il concerto. E ad ogni serata di prove si vive questa esperienza dell’incontro. Ma poi gli incontri si moltiplicano e ci chiamano a cantare in varie occasioni. Ad esempio quest’anno andremo a cantare nei paesi dei terremotati del centro Italia. Anche qui seguendo quel che succede: i ragazzi di Gioventù Studensca hanno costruito questa bellissima collaborazione e amicizia con alcuni abitanti di Sarnano e di altri paesi vicini. Ci hanno chiesto di andare a fare un concerto per loro che saranno in gita là il 4 giugno e per la popolazione, e noi abbiamo accettato subito. Seguiamo quanto di buono accade e ci è chiesto.
E la serata del 20 maggio? Che sorprese ci riserverà? Quale il tema?
Il grande tema è lo stesso che ha scelto quest’anno AVSI, ovvero i migranti. Avremo la testimonianza del medico Alfonso Fossa’ (presto proporremo la nostra intervista, realizzata per conoscerlo meglio -ndr). I canti seguiranno questo filo rosso andando a toccare le tradizioni dei popoli in viaggio verso le nostre terre, sulla falsariga anche del bellissimo lavoro fatto da Amarcanto in alcuni suoi concerti di qualche mese fa. Non mancheranno sorprese e un finale esplosivo, che però non posso proprio rivelare!