Il virus che ammorba la scuola e i suoi anticorpi

Mio articolo uscito su BuongiornoRimini il 6 novembre 2020

C’è un virus ancora più grave del CoronaVirus. È più subdolo, nascosto, eppure assai più devastante. Non riguarda i corpi. Non riguarda la nostra biologia. Qui non c’entrano mutazioni, diffusioni, fattori RT di contagio. Riguarda l’anima, riguarda l’intelligenza e la volontà. Riguarda la libertà.
C’è un virus che sta uccidendo la nostra libertà, perché sta uccidendo la nostra capacità di confrontarci con la realtà, chiudendoci in una dimensione meccanica e priva di passione per le cose.

Questa pandemia è particolarmente attiva nella scuola, il luogo dove si dovrebbero crescere le anime, formare le persone, aprire le menti. Invece oggi è il luogo dove vige la potenza di questo virus occulto e non dichiarato. Eppure nella scuola ci sono forti anticorpi, che hanno permesso alla stessa di resistere fino ad ora. La scuola, malgrado sia così infetta e maleodorante, resta un luogo dove persone vive si incontrano.

Le persone che portano questi anticorpi talvolta sono i docenti. Dovrebbe essere questo il loro compito precipuo. Certamente non sempre è così. Possiamo dire che il virus, in questo secondo caso, trova la sua vittoria. Portatori sani di anticorpi, spesso, sono gli stessi studenti. Con la loro baldanzosa naturalezza, con una incredibile e spontanea energia, sparigliano spesso le carte. A loro basta poco. Una domanda, una considerazione, un gesto magari poco opportuno ma che porta tutto il desiderio di una vita vera, di una conoscenza non artefatta, di una passione non spenta nei confronti di quanto si va facendo. Basta poco, e la lezione rinasce. In questo tempo di Lockdown nella scuola sono accadute cose di grande portata profetica, per chi intenda guardarle.

Due esempi. Uno del virus ammorbante. Uno degli anticorpi più forti del virus.

In questi giorni, studenti e insegnanti si sono visti traditi nel loro sforzo di dare un senso al proprio percorso. Salvato l’anno scolastico a marzo scorso, inventando una didattica a distanza che non era dovuta da contratto, messo in piedi a settembre tutto un apparato di sicurezza per cui a scuola senza dubbio ci si sentiva in un luogo sicuro (non vi è stata diffusione del CoronaVirus tra le aule, ma semmai in altri luoghi), a causa delle mancanze di altri attori (in primis il problema dei trasporti) docenti e studenti si sono visti settimana scorsa di nuovo costretti ad una sconfortante didattica a distanza (che comunque resta sempre meglio che nulla). Dapprima per il 75 % delle classi, ora per il 100%. A fronte di questa forte e palpabile delusione, la beffa. Increduli, i docenti di numerose scuole hanno letto in circolari comprovate da normative varie, che se anche tutti i propri studenti della mattinata fossero stati destinati a casa, il prof doveva essere “in presenza”. In presenza nell’assenza. Costretto da circolari bizantine a fare lezione a distanza, ma da scuola. Così la scuola diveniva di fatto un “non luogo”.

Quegli stessi insegnanti che hanno salvato l’anno scolastico con un impegno a casa propria che non era previsto da nessun contratto e che risultava perfino illegittimo (erano tenuti a marzo a non firmare il registro, perché risulta “illegale” far lezione da casa, con conseguenza di una complicatissima procedura per assegnare voti e assenze), ecco, proprio costoro che, senza tirarsi indietro di un millimetro hanno ostinatamente voluto “far lezione”, ora vengono chiamati a una sorta di “lavoro forzato”, ovvero ad uno sforzo senza altro significato se non quello che può essere immaginato quale “punitivo”. 

Difatti, fatta salva ovviamente la possibilità di accogliere a scuola quei docenti che mancassero di strumenti, non si capisce perché mai un prof debba fare da scuola – mentre la nazione intera tenta di limitare i contatti sociali e gli spostamenti – quel che può fare con più efficacia da casa. Come era facile prevedere, per aggiungere note di grottesco a questo noir dai sapori stantii, si è subito visto come le scuole non siano affatto preparate ad accogliere l’interezza delle lezioni via web. Cadute di connessione, computer non predisposti, disturbo dato da una organizzazione oggettivamente complessa hanno portato mediamente (stima data dal racconto degli insegnanti stessi e degli alunni) a una perdita del tempo di lezione che si avvicina ad un terzo rispetto al lavoro che poteva essere fatto da casa (in certi casi anche oltre la metà).

In una classe vuota, con i ragazzi sul monitor, la domanda spontanea era se tutto questo fosse uno strano sogno. Una specie di incubo, un “sonno della ragione”. Ora qualcuno sembra essersene accorto. Paiono essere mutati i bizantinismi interpretativi. Meno male. Ma resta indelebile questa settimana di follia giuridicamente corretta (o forse no?).

Ma veniamo agli anticorpi.

Si potrebbe parlare di tante cose ma per capire quali siano gli anticorpi che salveranno la scuola, e di conseguenza l’intera società, basta un semplice episodio. Banale e inconcludente. Ma salvifico.

Due giorni fa mi accorgo che un ragazzo sta seguendo dal terrazzo. Accadeva anche a  primavera, talvolta. E, tra me e me, dicevo “fan bene, lo farei anche io se potessi!”. E magari ci usciva anche una battuta sugli Aristotelici che facevano lezione passeggiando… Ma a novembre no. Qualcosa non torna. Oggi, dalle 8 del mattino, è ancora sul terrazzo, avvolto in un pesante piumino invernale.

E allora incuriosito chiedo, “ma perché sei sul terrazzo, non hai freddo? Ci sono problemi di silenzio o di spazio in casa…?”. La risposta è stata fulminante nella sua semplicità: “Prof, mi sono appena trasferito e non ci è arrivato ancora il wi fi. Ho finito in una giornata i giga del mio cellulare, ma ho scoperto che c’è un wi fi libero qui vicino. Purtroppo prende solo da qui. Così seguo le lezioni dal terrazzo. Mi sono costruito una copertura, una tenda…  Il problema è che ieri c’era nebbia e si bagnavano i fogli! Così dopo 3 ore son dovuto entrare in casa e disconnettermi”. Sono a bocca aperta. Questo ragazzo, un normale nostro studente non particolarmente “secchione”, pur di seguire le lezioni è stato per una settimana intera ogni mattina sul suo terrazzo per 5 ore di fila. Senza dire nulla. Senza lamentare difficoltà di connessione. Senza trovare scusanti per una più che comprensibile assenza, magari autorizzata dai genitori. In questo gesto semplice, ma decisamente significativo, in questo moto della libertà del tutto personale e “disarmato”, si cela qualcosa che c’entra con la possibilità di una rinascita della scuola e della società.

Possiamo starne certi. Vinceremo il virus. E non intendo certo il Covid, che, a fronte dell’assurdità in cui siamo immersi, è poca cosa davvero (ed è tutto dire).

Dio salvi l’Italia

Se Mattarella ha deciso di porre uno stop così eclatante ad un percorso che pareva essere sulla via della conclusione, qualcosa di grave, di molto grave, assai più di quanto possiamo già sapere o immaginare, aleggia tra le quinte del dibattito politico di questi giorni.

Certamente la situazione non può essere ridotta alle semplificazioni che penetrano la nostra pelle, con la complicità dei social. “Mattarella servo della Merkel”. “Democrazia defraudata”. “Volontà popolare schiacciata”. Dittatura del Presidente”.

Slogan che non possono essere il criterio per un giudizio che permetta di ricostruire la nostra democrazia. e un’Italia più forte. Slogan che non posso che cozzare contro i “Poteri forti” e infrangersi in mille pezzi, con la naturale conseguenza di portare al disastro la nazione intera, destinata a deflagrare sulla spinta di iracondi desideri contrapposti.

In questa situazione, il punto di speranza – data l’assenza della politica – è il tessuto sociale ancora presente in Italia. Gruppi e gruppetti di amici appassionati alla politica che, fuori dai giochi, si aiutino a vincere la reattività e la passività  (due facce dello stesso errore).

Vincere la semplificazione iraconda è il primo dato.
Il secondo è l’amore per la realtà che non coincide mai con semplici schemi (di destra o di sinistra, penta stellati-sovranisti o europeisti, democraticisti o putiniani).
Il terzo è vivere da subito un elemento di positività e di speranza, da difendere, da sostenere. Non il risentimento ma la speranza, la cui certezza sia il presente che soddisfa, che riempie l’esistenza e che pertanto ha rilievo, conta, pesa inferendo senso di responsabilità, fino ad evitare sbandate istintive alla “tanto peggio” (tipico di chi non ha nulla da difendere).

Confrontandomi con amici in alcuni di questi gruppetti, che si stanno moltiplicando spontaneamente, in sé senza alcuna pretesa e futuro ma di cui sono profondamente grato come l’elemento più utile oggi, ho chiesto – proprio per vincere la tentazione della reazione istintiva – all’amico e grande saggio della politica Nicola Sanese una sua opinione.

Questi i punti che ci ha girato in una chat e che credo meritino una più ampia diffusione.  Nicola ha acconsentito di riportarli su questo blog, malgrado siano ovviamente precari, quali semplici appunti scritti su WhatsApp.

Il dibattito nella chat citata si era innescato dopo un mio post che suonava così: “Conte rinuncia. La situazione precipita. Preghiamo per l’Italia.”.

Così Nicola Sanese:

” In estrema sintesi:
1. Situazione molto critica iniziata dal 4/12/17 e dagli errori dell’ ex-premier Renzi.
2. Legge elettorale “Rosatellum” del tutto inadeguata.
3. Passo debole di Di Maio-Salvini l’avere indicato un non eletto il 4/3.
4. Mattarella ha assecondato al meglio l’esito del voto del  4/3 , ma ha avvertito i due di alcuni limiti invalicabili.
5. L’inesperienza di Conte e la “prepotenza” dei due “escono” dal campo della politica.
6. Nel crollo delle evidenze va aggiunto il consumarsi del sistema democratico.
7. La saggezza politica (da chiedere si, con la preghiera) è un governo di tutti per: blocco aumento IVA, legge di bilancio e legge elettorale modificata.
NB: apprezzo molto il vs dialogo
PS: Nel passato più volte ci furono stop su candidati ministri “.

Che dibattiti di tale profondità si moltiplichino, vincendo l’istinto forcaiolo (e impotente) è l’unica speranza per il medio termine.  Il breve sarà sicuramente durissimo.

Dio salvi l’Italia.

 

Al concerto “Canta per il mondo” di sabato 19 maggio, Marco Ponselè, giovane operatore di AVSI, ci racconterà la sua Africa

Sarà Marco Ponselè, il testimonial della serata che il Coro popolare e l’Ensemble Amarcanto regaleranno alla città sabato sera alle ore 21, presso il Novelli dei Rimini.

Marco Ponselè

Marco, giovanissimo, da un anno lavora in AVSI. Una scelta professionale ma anche di vita, di ricerca di un lavoro che possa permettere di realizzare il “sogno della giovinezza” (Giovanni XXIII).
In Marco l’entusiasmo per una vita che si va costruendo (e nel migliore dei modi) è palese, ed è contagioso. Nelle sue parole i drammi dell’Uganda, del Sud Sudan, del Kenia non sono occasione per una cupa percezione di quello che non va (ed è tanto), ma un terreno da arare, un campo di lavoro, una strada, pur irta di ostacoli, da percorrere con energia e sguardo aperto al futuro.

Vi proponiamo una video intervista, realizzata via Skype, dagli uffici di Milano dove Marco lavora insieme a Lorenzo (intervistato ieri) e Maria (già presente a Rimini ottobre scorso).

Marco ci ha parlato del primo suo vero incontro con AVSI, frutto di un viaggio e di una collaborazione nata ai tempi della tesi di laurea in Università Cattolica in management, per la quale passò un periodo in Kenia. Un incontro che nel tempo si è trasformata in una scelta di lavoro.

Nel descrivere il suo lavoro, definito come  “corrispondente” al suo desiderio, ha toccato quelle realtà di AVSI  che proprio il concerto di sabato andrà a sostenere, ovvero l’Uganda.

Colpito dal desiderio di riscatto e di costruire la propria vita che le persone incontrate in Africa gli hanno testimoniato, Marco ha sottolineato come “tale desiderio rimanga dentro”, costituisca la molla per cui si possa costruire una realtà grande come AVSI. Un desiderio di costruire la propria vita e la società che fa sì che la scuola di Kampala sia tale “da far invidia a tante nostre scuole”, un luogo bello, “dove desideri starci”. Dunque una positività e una vita rinnovata, di cui sentiamo tutti il bisogno. Anche noi comodi occidentali.

Ma merita di essere ascoltata per intero questa clip di soli 15 minuti, ma decisamente intensa.

Buona visione e ci si vede sabato (domani) sera!

AVSI 2018: una casa per tutti

 

Lorenzo Franchi

In attesa del concerto del Coro Popolare di sabato prossimo, abbiamo intervistato Lorenzo Franchi, responsabile della Campagna AVSI 2018, ovvero la raccolta fondi che permette di sostenere ben 149 progetti sparsi in 30 paesi del mondo.

Con lui vogliamo capire meglio le ragioni di un impegno divenuto così esteso  e tale da riguardare  un numero sempre crescente di volontari.

Lorenzo partiamo dal tema che avete scelto quest’anno. La casa.  Perchè?

L’idea di casa che stiamo raccontando non è solo un luogo fisico, ma un luogo dove una persona si può sentire accolta, guardata, curata se ne ha bisogno. Intendiamo tutti quei luoghi dove una persona può intrecciare relazioni. È la casa intesa come dimora, come luogo in cui trovare se stessi. Questo concetto si presta bene come “ombrello” che raccoglie i vari progetti che sosteniamo quest’anno: il progetto della Luigi Giussani High School di Kampala, l’asilo di Qaraqosh, Portofranco in Italia e  gli “ospedali aperti” in Siria. È decisamente interessante, in tal senso, quanto dice in un video girato a Kampala, all’interno del quale un prof. della scuola afferma: “chiunque viene qui si sente a casa”, concetto ribadito da un ragazzo, durante l’inaugurazione dell’anno della scuola. Cerimonia importante con studenti, famiglie, i prof., autorità, e prende la parola Odong, uno studente, dicendo “questa non è una scuola” e si interrompe. Istanti di silenzio, tra il terrore degli insegnati che hanno pensato “chissà cosa dirà adesso!
Poi prosegue: “questa non è una scuola, perché questo posto è casa mia. Qui infatti sono atteso, guardato e amato in ogni istante. È per questo che al mattino non cammino ma corro per venire qui.” 

Notevole. Vogliamo fare una panoramica sugli altri progetti sostenuti questo anno?

Partiamo dalla Siria. In un paese straziato dall’odio, ridotto in poco tempo a condizioni inimmaginabili tra cui l’emergenza sanitaria che è altissima (si parla di 11 milioni e mezzo di persone che non hanno possibilità di curarsi), nasce nel 2016, grazie alla sollecitazione del nunzio apostolico Mario Zenari, il progetto Ospedali aperti. È un progetto che porterà cure a 40mila persone. Già quest’ anno abbiamo curato 4mila persone. Una goccia nell’oceano, ma accogliere gratuitamente tutti (vi sono ospedali funzionanti, ma a pagamento e le persone non possono accedervi), senza distinzione di credo (accogliamo cristiani, sunniti, sciiti…) o di provenienza, è una grande rivoluzione in un paese connotato dall’odio.

Ospedali in Siria (clicca sull’immagine per leggere maggiori informazioni)

 

In particolare l’intervento su cosa verte?

Abbiamo potenziato tre ospedali, con macchinari, strumentazioni, strutture. Abbiamo istituito un ufficio per valutare i casi di più forte urgenza e di reale bisogno (verificando che siano veramente persone prive di risorse). Ospedali aperti accende una speranza, perché fa capire che si può essere accolti per quello che si è, senza alcun retropensiero o interesse.  In un paese dilaniato per ben 7 anni da una guerra che nasce da pretesti religiosi, la nostra presenza fa comprendere che ci può essere un modo diverso di vivere.

Passiamo all’asilo di Quaraqosh.

L’asilo di Qaraqosh (clicca per maggiori informazioni)

Qui è particolarmente evidente il concetto di casa. Liberata la città dall’ISIS, i 50mila profughi che in tempi rapidissimi erano dovuti fuggire nel 2014, ora possono tornare. Ma tutto è da ricostruire. La prima cosa che hanno chiesto è stato di costruire un asilo per i propri figli, sulla scia dell’esperienza entusiasmante vissuta nei campi profughi, dove avevamo iniziato un’esperienza simile. È lì, nei campi profughi di Erbil, che li avevamo incontrati. Offrivamo loro la prima assistenza ma poi è nato un asilo di 150 bambini. E’ da quella esperienza che hanno voluto ripartire. L’asilo è cresciuto fino a raggiungere 400 bambini. E’  l’unico funzionante ed è il centro, il volano, della rinascita della città.
L’obiettivo è quello di ricostruire l’umano, cosa ben più difficile (e importante) che non ricostruire gli edifici.

Portofranco invece opera in Italia…

Portofranco, aiuto gratuito allo studio (clicca per maggiori informazioni)

Portofranco, la rete di docenti che aiuta gratuitamente ragazzi in difficoltà con lo studio, sta incontrando centinaia e centinaia di stranieri. Sta diventando cioè uno strumento di integrazione eccezionale, un luogo dove italiani e stranieri, alunni e docenti, si incontrano e si riconoscono nel bisogno di crescere, di imparare un metodo, di trovare un terreno comune. Portofranco sta facendo molto per l’integrazione.

Tornando all’Uganda, la situazione come si configura?

La “Luigi Giussani High School” di Kampala (clicca per maggiori informazioni)

La situazione è di grande povertà. L’Uganda accoglie un milione e cinquecentomila profughi del Sud Sudan, dove una guerra che si sta protraendo dal 2013 ha già causato 50mila morti. Un paese duramente provato, che vede AVSI presente da tanto tempo. Qui fortissimo è il rapporto con Rose Busingye, l’infermiera che ha costituito un centro di assistenza per donne ammalate di AIDS a Kampala.
La Luigi Giussani High School, l’hanno voluta loro per i propri figli, perché rinate in un rapporto personale con Rose hanno voluto che per i loro bambini potesse aprirsi una speranza, ovvero la possibilità di vivere la bellezza della vita che hanno cominciato ad assaporare.  (si veda integralmente il video linkato sopra, dove Rose interviene più volte). 

Senza dubbio, in questo mare di bisogno, l’opera di AVSI è una goccia…

AVSI i progetti e la diffusione nel mondo

Certo, e vorremmo fare molto di più, avere molte più risorse. Ma non è questo il punto. AVSI intende educare le persone. Ogni intervento tende a generare una novità in chi ci incontra così che questa vita nuova possa poi dilatarsi. La sfida è la possibilità di far crescere dei soggetti vivi, nelle zone del mondo disastrate ma anche qui in italia.
È una sfida, dunque, che riguarda ognuno di noi. Riguarda anche il semplice volontario che aiuta la campagna con un’iniziativa come le tante nate a Rimini, tra cui quella del Coro.

Cosa significa per te lavorare in AVSI?

Oltre ad essere una professione, AVSI per me è un luogo dove posso avere uno sguardo privilegiato sulla realtà.  È un lavoro che mi tiene aperto sul mondo intero.

Quanto sono importanti le iniziative come quella di sabato sera?

Esprimono bene questa azione corale, in cui ognuno ha un compito. Oltre a questo, ci forniscono risorse decisamente significative. Sono un migliaio i nostri sostenitori e, grazie a tutti voi, ci arrivano un milione e trecentomila euro. Con il sostegno a distanza sono assistiti 25mila bambini.  Sono dati importanti. Ma ancor più, con queste attività spesso così creative come la vostra, seminiamo un principio differente dentro la realtà che viviamo.
Dentro il bisogno di cura, di sviluppo, di educazione cerchiamo di far emergere quello che nel profondo sta a cuore ad ogni uomo. È su questo riconoscimento di un bisogno profondo che nasce e si costruisce una casa comune dove sentirsi pienamente accolti.

 

“Canta per il mondo”: dare casa al desiderio di pienezza di ogni uomo

Torna il concerto del Coro Popolare (detto il “corone”), la realtà nata a Rimini oramai cinque anni fa dal singolare incontro tra genitori e ragazzi preoccupati di costruire un valido percorso educativo – l’associazione di Famiglie Onlus Il Ponte sul Mare –  e l’ensemble Amarcanto. Quest’anno, sulla scia della bella esperienza di anno corso, si aggiunge il giovanissimo Piccolo coro delle scuole Karis, guidato da Teresa Forlani. Il tutto coordinato con esperienza da Laura Amati e Anna Tedaldi.

L’appuntamento è per il 19 maggio, al teatro Novelli di Rimini, alle ore 21 (vedi la locandina).

Siamo al quinto anno, tanti ne sono passati dal primo concerto, ma è più che mai vivo il desiderio di incontrarsi e di porre nella città un principio di novità, una possibilità di incontro e di risposta ai propri bisogni più profondi. È questa infatti la ragione ultima che muove i circa 70 componenti del coro, i quali mettono in gioco se stessi e la loro passione per la bellezza, attraverso il canto, per giungere ai confini del mondo, sia con la ricerca musicale, sia, concretamente, rispondendo alle urgenze che incontrano. Anche quest’ anno, infatti, i proventi del concerto andranno a sostenere gli studi di 14 studenti in Uganda. I ragazzi frequentano la Luigi Giussani High School, un’ oasi di umanità in un paese già martoriato dalla guerra, in preda oggi alla povertà e terra di accoglienza di profughi provenienti dal Sud Sudan.

A descrivere le sofferenze, ma anche le speranze e le scintille di vita presenti in quelle terre (tra cui la scuola è una delle perle più preziose), sarà Marco Ponselè, membro di AVSI e di recente impegnato proprio in Sud Sudan e che vanta forti legami con il Kenia e soprattutto l’Uganda.

AVSI è la realtà che coordina 150 progetti di aiuto concreto alle popolazioni in ben 30 paesi tra le zone più bisognose del pianeta. Quest’anno la raccolta fondi lanciata in Italia sostiene quattro progetti: un’ospedale in Siria aperto a tutte le persone, di qualsiasi ceto e credo religioso; un asilo a Qaraqosh, la città da poco liberata dall’ISIS; l’associazione Portofranco, che in Italia garantisce un aiuto allo studio a centinaia di ragazzi, tra cui numerosi stranieri, fornendo così un’esperienza di integrazione di straordinario valore; ed infine proprio la Luigi Giussani High School.

La formula della serata sarà quella sperimentata con successo gli anni scorsi: ad introdurre il concerto vi sarà la testimonianza di Ponselè,  per poi viaggiare nel mondo intero, grazie alla musica, seguendo una traccia ben precisa, dettata dal tema che ha caratterizzato tutte le iniziative di AVSI di quest’anno.

Il tema scelto per il 2018 è la casa, intesa non solo come dimora fisica, ma come luogo di accoglienza e di incontro. Luogo in cui uno trova se stesso.

Ed è proprio questa, in fin dei conti, l’esperienza del “corone”, che da Rimini si dilata al mondo, come già gli anni scorsi abbiamo scritto ampiamente.

Quest’anno questa intuizione originale è ancora più evidente.

È sempre più forte infatti il pullulare di iniziative che nascono spontanee e che vanno ad incontrare i bisogni crescenti di una società sempre più liquida. Liquida nelle sue componenti d’origine. Non sappiamo più chi siamo. Non riconosciamo più la nostra terra come nostra “casa”. Non abbiamo più luoghi di reale incontro.  Una perdita di coscienza resa ancora più acuta, ma non causata, dalla presenza di numerosi migranti, stranieri che fuggono dalle situazioni che AVSI tenta di alleviare e confortare nelle zone d’origine. Nascono così gruppi e realtà che si muovono per rispondere anche qui, in Italia, al bisogno di dimora, di istruzione, di accoglienza.

Il Coro Popolare di Rimini è un grande ponte lanciato tra il bisogno di trovare ed offrire una dimora. Cercare e trovare la propria casa ed offrirla a chi l’ha perduta è un tutt’uno. E questo si realizza, in primo luogo, in uno sguardo, in un incontro (dove tutto si ricompone, dove la casa prende forma  nel proprio animo), fino a giungere a volerla costruire, raccogliendo denaro, producendo iniziative, magari partendo come testimonieranno i volontari di AVSI, che nei prossimi giorni interpelleremo per farveli conoscere meglio e che sabato sera avremo presenti fisicamente a Rimini.

La casa è un movimento della persona, che genera un’amicizia che diventa un luogo umano, una dimora dove ritrovarsi. Condividere questa casa con chi non la possiede, perché distrutta o mai costruita, è un passo conseguente e necessario.  Ed è così che accade che gli amici del Coro possano giungere a sostenere una mezza classe di ragazzi, strappati ad un destino, altrimenti privo di speranza. È così che AVSI si impegna, senza pretese risolutive, a costruisce una casa per tutti.

Nei prossimi giorni approfondiremo quello che fa AVSI nel mondo e la grande opportunità che la serata di sabato offre ad ognuno di noi.

Opportunità, in primo luogo, di ritrovare la propria casa.

Nel 2014 il Coro Popolare già cantava “Voglio una casa”, anticipando il tema 2018 di Avsi. 

Meeting 2017: la riscoperta del proprio inizio

Papa Francesco ha descritto, in anticipo, l’effettiva prima giornata del Meeting 2017. Così si legge nel suo discorso di saluto:

Come evitare questo “alzheimer spirituale”? C’è una sola strada: attualizzare gli inizi, il “primo Amore”, che non è un discorso o un pensiero astratto, ma una Persona. La memoria grata di questo inizio assicura lo slancio necessario per affrontare le sfide sempre nuove che esigono risposte altrettanto nuove, rimanendo sempre aperti alle sorprese dello Spirito che soffia dove vuole.
Come arriva a noi la grande tradizione della fede? Come l’amore di Gesù ci raggiunge oggi? Attraverso la vita della Chiesa, attraverso una moltitudine di testimoni che da duemila anni rinnovano l’annuncio dell’avvenimento del Dio-con-noi e ci consentono di rivivere l’esperienza dell’inizio, come fu per i primi che Lo incontrarono.

(…)

Quello sguardo sempre ci precede, come ci ricorda sant’Agostino parlando di Zaccheo: «Fu guardato e allora vide» (Discorso 174, 4.4). Non dobbiamo mai dimenticare questo inizio. Ecco ciò che abbiamo ereditato, il tesoro prezioso che dobbiamo riscoprire ogni giorno, se vogliamo che sia nostro. Don Giussani ha lasciato un’immagine efficace di questo impegno che non possiamo disertare: «Per natura, chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita […]. Ma, a un certo punto, la natura dà al bambino, a chi era bambino, l’istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi. […] Deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto! Se non diventa problema, non diventerà mai maturo […]. Portato il sacco davanti agli occhi, […] paragona quel che vede dentro, cioè quel che gli ha messo sulle spalle la tradizione, con i desideri del suo cuore: […] esigenza di vero, di bello, di buono. […] ,Così facendo, prende la sua fisionomia di uomo» (Il rischio educativo, Milano 2005, 17-19).

È la descrizione di questa prima giornata di Meeting, dove si rinnova lo stupore per una compagnia capace di generare giudizi nuovi e dotati di realismo. Giudizi da parte di chi ama la realtà e non la piega a giudizi preconfezionati.

Così, in particolare Luciano Violante, nel suo intervento delle ore 19, ha ribadito per ben due volte la sua stima e ammirazione per questa “strana compagnia”. Dapprima sostenendo che il Meeting è rimasto l’unico luogo dove si può parlare confrontandosi su valori, ovvero mettendo in gioco ideali che valgono per la vita (“confrontarsi e costruire tra persone diverse è uno dei grandi risultati del vivere”).  Poi, interrompendo il suo discorso ampio e articolato su democrazia e cambiamento d’epoca, affermando: “Vedete, voi siete una cosa straordinaria, perché siete una comunità (…) non avete delegato la vostra vita a un terzo, siete voi i protagonisti”. 

È notevole, e sorprendente, questo incontro di un uomo che, proveniente dalla tradizione della sinistra (e precisamente comunista, una provenienza che ben si avverte nelle sue analisi, alcuni profonde e geniali, altre che possono essere discutibili), trovi realizzato il suo desiderio di costruire una socialità nuova nella compagnia cristiana, riconoscendola come unico luogo rimasto oggi capace di questa coesione, di questo comune sentire in cui ognuno può essere protagonista. È impressionante la cordialità genuina con cui Violante parla ai giovani e meno giovani di questo popolo, in particolare nei momenti informali, come è accaduto oggi (quasi per caso) con una decina di riminesi, dimenticando lo scorrere del tempo e gli impegni precedentemente presi. Una forma di incontrarsi che è consueta al Meeting, che ne costituisce la sua stessa storia.  Una storia costellata di questi grandi incontri tra diversità che si scoprono vicine e cordiali (per citarne alcuni: Tarkovskij, Evtuschenko, Testori, i monaci buddisti, Joseph Weiler,  Wael Farouq, Bertinotti, Violante).

È un Meeting che non si sottrae alle sfide dell’oggi, come accaduto durante l’incontro sull’intelligenza artificiale e sulle sue affascinanti e inquietanti prospettive. Un Meeting che si confronta con l’attuale governo, portando il primo ministro Gentiloni a slanci di orgoglio nazionale di non poco conto e di cui occorre ritrovarne il significato più autentico (e non semplicemente retorico).

Il Meeting c’è e ripropone l’autentico messaggio cristiano, ovvero quello di un amore sconfinato per la realtà intera, senza alcuna pregiudiziale ma con la certezza che Cristo salva.

Domani, lunedì, (oggi per chi legge), tra i 4 o 5 eventi che personalmente giudico di rilievo, il must  sarà l’ incontro tra l’abate Lepori e il monaco buddista Shodo Habukawa (vedi programma). Un’antica amicizia tra persone di differente cultura, iniziata con don Giussani e oggi più viva che mai.

Buon Meeting!

Barcellona, il Meeting e quel che accende la speranza

Il terrorismo è tornato a colpire. Siamo alla vigilia di un evento, qual è il Meeting di Rimini,  che da quasi 40 anni si colloca al centro della storia e dei cambiamenti epocali che hanno contraddistinto questo passaggio di millennio. L’inizio della settimana riminese non può non essere segnato dalle domande, dalle inquietudini, dal bisogno di trovare una strada che gli eventi di Barcellona sollevano.

In uno scambio di battute tra amici, in margine alla pubblicazione del breve ma significativo volantino di Comunione e Liberazione uscito dopo l’attentato di Barcellona, riferendosi al passo, “È più che mai necessario testimoniare l’amore alla vita che abbiamo conosciuto”, Marco ha esclamato: “è il motivo per cui continuiamo a fare il Meeting”.
Credo che nella semplice battuta di Marco ci stia tutto il Meeting. Una dimensione ancora oggi così ignota a tanti, anche assai prossimi all’evento riminese, da scoprire e riscoprire (parafrasando il titolo del Meeting: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”).

È l’origine del Cristianesimo. È l’origine del movimento di CL, nella figura oggi più che mai attuale di don Giussani. È quella  instancabile e indistruttibile passione per la vita e per la realtà, senza infingimenti, senza sovrastrutture e senza progetti, se non quell’ Uomo (Cristo) che ha fatto nascere una scintilla di speranza (“faccio nuove tutte le cose”) in tempi non certo migliori e più facili dei nostri.

Certo, è facile equivocare un evento che tratta di tutto (perché nulla è escluso dallo sguardo rigeneratore di Cristo, dalla politica alla storia, dalle scienze alla poesia, senza dimenticare, arte, filosofia, economia…) e su cui ognuno può porre il suo sguardo selettivo. Da sempre il Meeting ha subìto, sui media in particolare, uno sguardo ridotto tale da generare assurde polemiche, contro cui recentemente abbiamo avuto anche l’occasione di controbattere divertiti (per la banalità delle posizioni espresse). 

In genere sui media – in particolare a metà degli anni ’80- è la politica a farla da padrone (allora il Meeting era craxiano, ricordate?) e qualcuno misura l’evento solo a partire da quello. Poca cosa. D’atro canto, non si può che scrollar la testa a legger ancora oggi l’articolo su La Repubblica, laddove si colloca il Meeting tra le varie feste di partito o sindacali (“Fra Imola e Rimini, la Romagna protagonista dei raduni politici di fine estate. Cl parte per prima con il suo meeting.”). Una semplificazione che non coglie la realtà dell’evento, ovviamente. Un po’ come confrontare una processione con un Gay pride o una sfilata per la pace con un comizio di partito. Cose diverse.

D’altro canto lo stesso atteggiamento – cieco a quel che CL e il Meeting sono in se stessi – lo denota chi oggi tira per la giacchetta il movimento  perché si starebbe collocando troppo poco a destra, rispetto ad anni fa. Come se non fosse cambiato nulla nell’Italia attuale. Come se il movimento si fosse identificato con uno schieramento o con una soluzione politica. Come se nella letteratura cristiana non esistesse un documento, assai amato dentro il movimento, che proclama che il cristiano è “senza patria” (Lettera a Diogneto).

Da questo punto di vista, la libertà dalla politica che vuol dettare l’agenda e costruire una sua patria a chi invece è libero (venga questa agenda da destra come da sinistra, che sia quella di chi comanda, come quella di chi vorrebbe comandare), ben la esprime Vittadini con la sua intervista al Corriere. Giudizi che potranno essere veri o sbagliati, ma che indicano un criterio di libertà e realismo interessante. Peraltro di forte pertinenza rispetto ai rischi di semplificazione e banalizzazione che il dibattito politico in Italia sta correndo da qualche tempo (nell’articolo si parla dell’illusione di un “uomo solo” – di nome Renzi, o Berlusconi o Grillo, non importa – che possa risolvere i problemi dell’Italia).

Certo, per chi fisicamente non sarà presente in fiera in questi sette giorni (la stragrande maggioranza degli italiani, ovviamente), restano i media, che riferiscono del Meeting come di un “raduno politico”.  Siamo di fronte a quanto oggi troppo spesso accade nei dibattiti (e non solo in quelli dei media, ma anche tra la gente). Una sorta di terrore della differenza, della complessità e della ricchezza della realtà. Ancora una volta siamo vittime di una semplificazione funzionale. Sui media, si tratta di semplificare la realtà in caselle pre-digerite, perché possa essere assimilata da persone dall’intestino pigro. E così al destrorso si conferisce l’idea di una meeting “festa dell’unità”, al sinistrorso si conferisce l’immagine di un meeting sempre pronto a seguire il grande capitale, al “pro life” si offre l’idea di un meeting disattento ai temi etici, ecc. Il tutto con pezzetti di realtà, ben isolati dal tutto. L’esito è quello di solleticare l’istintiva insofferenza che una situazione di crisi rende così viva  nelle persone e dunque farsi leggere. La vittima è la realtà, ma non solo. Vittima è anche la speranza, quell’inizio di vita che affiora, soffocato dal clamore e dall’iracondia.

Invece quel “tutto”, ovvero quell’ “altro” di cui parlavamo prima, resta la cosa più interessante e la risposta veramente pertinente ai grandi drammi dell’oggi. Drammi e problematiche che, sfogliando il programma del Meeting, si ritrovano in abbondanza. Quell’ “altro” da riguadagnare per possederlo realmente e non lasciarsi trascinare nell’orbita di una cultura della morte.

È un cammino che sta accadendo nel mondo intero attorno al movimento ed alla Chiesa. Significativa (ed anche divertente nella sua vivacità e semplicità), a questo proposito, la presentazione della Bellezza disarmata, il testo di don Julian Carron, attuale guida di CL, proprio a Barcellona, la città martoriata dai “cultori della morte”.

Dialogando con Pilar Rahola, giornalista di La Vanguardia, atea e protagonista di tante battaglie civili spesso lontane dalla tradizione cristiana, si trova un punto di interesse comune fondamentale, che la stessa giornalista ha sottolineato, scrivendo un articolo all’indomani del suo incontro con Carron. Così si è espressa su La Vanguardia“In alcuni passi del libro, Julián parla della fine dell’Illuminismo, un Illuminismo che ha operato bene nel porre la ragione al centro dell’universo umano, ma male nel credere che questo fosse l’unico motore possibile. Certo è che, dalla mia posizione di non credente, sono d’accordo con lui: l’Illuminismo ha fallito nel suo intento di porre la ragione come misura e soluzione di tutto. Per questo motivo in questo momento di profondo smarrimento, con ideologie totalitarie che ci minacciano e democrazie in pieno naufragio, la parola di Gesù torna a essere un’idea luminosa.” E conclude dicendo: “Termino con una provocazione: che i cristiani escano dall’armadio. Forse non tutti abbiamo una fede come la loro, ma la loro fede rende tutti migliori.

Ma merita di essere ascoltato per intero il video dell’incontro.

E buon Meeting a tutti coloro che vogliono uscire dall’armadio delle loro ideologie !

 

 

 

La vittoria di Charlie Gard

Un paio di giorni fa Charlie Gard è volato in cielo. I genitori hanno rinunciato a procedere nella loro battaglia, riconoscendone l’impossibilità. L’ospedale ha proceduto secondo le proprie prerogative.

Non ci interessa, qui, proseguire una battaglia che è stata irta di malintesi e banalità, che abbiamo in parte documentato in due lunghi articoli (leggi il primo e il secondo). Malintesi e banalità che fan fuori una complessità che il dialogo con alcuni amici, tra cui medici e persone appassionate alla vita ed alla vicenda, ha confermato e che la Chiesa stessa riconosce in questi casi, come gli articoli del Catechismo voluto da Ratzinger attestano (si veda art. 2278 e 2279 del Catechismo), lasciando margini di azione terribilmente ampi, tutti in mano ai medici ed ai famigliari.

Vogliamo porre lo sguardo su quello che realmente e profondamente è accaduto.

Da una parte, ancora una volta, si è affermata la tragedia che riguarda ogni uomo. La sconfitta delle proprie aspirazioni, la prova fattuale che “non ce la possiamo fare”. La morte è il riscontro sicuro e oggettivo di questa impotenza a realizzare i propri desideri.

Con la vicenda di Charlie Gard si è visto, tuttavia, anche altro. Si è visto che il desiderio dell’uomo di vivere, di amare, di combattere è potente. È capace di stringere insieme migliaia e milioni di uomini. I genitori di Charlie sono stati la testimonianza di questa forza e in tantissimi ci siamo stretti attorno a loro (pur con diverse valutazioni sulle opportunità da seguire, sulle quali i medici stessi si sono trovati divisi, anche a causa del condizionamento mediatico), commossi per questa tenacia e questo amore al proprio figlio.

Viene in mente il Leopardi della Ginestra, il Leopardi del titanismo, che piega il suo pessimismo verso un volontaristico e imponente sforzo di compassione e un appello all’unione del genere umano per combattere contro la natura matrigna.

Ma resta la domanda. È una battaglia che può essere vincente? La risposta è chiara. No.

Vengono in mente i miti del Foscolo (unica consolazione per l’uomo, destinato al nulla), oppure, in tempi più recenti la bella canzone di Guccini, Le cinque anatre. Se anche una sola continuerà il suo volo, mentre le altre 4 cadono, questa sarebbe la prova che “si doveva volare”. Il problema è che neppure quell’unica anatra, nel nostro caso, può continuare il volo per raggiungere il suo Sud.

Ma allora che significato ha la tenacia dei genitori e la commozione del mondo intero (commozione capace di muovere perfino i potenti)?

A chi non si accontenta di miti, sia il mito pro-life (che cancella i dati della vicenda nella sua complessità – si veda da ultimo la dichiarazione del GOSH del 23 luglio per capire quanta demagogia si sia messa in campo) -, sia il mito dell’eliminazione del dolore e della morte (che non disturbi i passanti, per carità, che non susciti troppe domande), resta una sola soluzione.

La soluzione è quella di non deviare l’urgenza della domanda che Charlie testimonia: a che vale la vita?  Perché il grande spettacolo della vita, se poi ci viene improvvisante portato via?

Di qui  la necessità – di cui dicevamo a margine dei precedenti post – di poter sperimentare da subito scintille di resurrezione, ovvero di vittoria.

Costruire luoghi dove è possibile sperimentare da subito la vittoria sulla morte, dove tale vittoria è altrettanto quotidiana e reale quanto la presenza della morte che ci pervade, è la vera buona battaglia. Luoghi che diano senso e speranza anche alla tenera e cara vita di Charlie, e senso e speranza al dolore di quanti lo hanno amato così fortemente.

Lo ricordava don Giussani, nel 1982, come cifra risolutiva per la vita di ognuno.

« “Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede”. Questa è la vittoria che vince l’inesorabile degradazione verso la morte, la mortificazione della vita, l’anticipo del sepolcro che è l’abitudine: la fede, il riconoscimento di qualcosa che accade, di ciò che accade, del senso della vita che accade, di Cristo che viene tra noi». (don Giussani, Una strana compagnia).

La nostra fede, come reale riconoscimento di un avvenimento, e non miti (progressisti o conservatori, pragmatici o valoriali) creati da noi e che inesorabilmente saltano la realtà nella sua fattualità (rende in bianco e nero ciò che è pieno di sfumature). Quella realtà che dobbiamo imparare ad avere il coraggio di amare.

Per questo serve , oggi più che mai, l’intelligenza della fede, affinché si abbia finalmente il coraggio di guardare ciò che c’è, senza sogni e aggiustamenti.

Amare la complessità

Io non so niente
ma mi sembra che ogni cosa
nell’aria e nella luce
debba essere felice

Credo che se c’è una cosa che insegna la vicenda del piccolo Charlie, sia proprio questa: imparare ad amare la complessità.

Le semplificazioni e le battaglie in nome di certezze preventive hanno generato interventi in rete, ed anche sui giornali, di cui non si avvertiva onestamente il bisogno.
In una vicenda in cui i colpi di scena si avvicendano a cadenza quotidiana (tanto la vicenda medica e giuridica è intricata per chi non possieda la cartella clinica di Charlie), occorre prudenza e attenzione vigile. Ultimo, tra i colpi di scena, è la richiesta dei medici del Great Ormond, l’ospedale dove è in cura Charlie, di riaprire la questione, rivolgendosi all’Alta Corte inglese per riesaminare il proprio giudizio alla luce delle richieste dell’ospedale Bambin Gesù del Vaticano. (Si legga qui). E speriamo che si aprano davvero speranze, per quanto la luce sia flebile.

Bisognerà seguire la vicenda dunque, ora per ora, per capire di più e meglio.

È sempre più chiaro che la grossolana mole di certezze che, da una parte come dall’altra, ha caratterizzato il dibattito è veramente inappropriata e sbagliata come approccio.

E mi ci metto dentro anche io (che pur mi son preso del “Pilato”, “traditore” e quanto altro potete immaginare di bassissimo e nefando, per aver osato avere dubbi e cercare di riflettere). Malgrado il lunghissimo post di un paio di giorni fa, frutto di giorni di letture e riflessioni, ancora molto sfuggiva. Il post è stato però l’occasione, quale onesto tentativo di comprendere, per risposte e approfondimenti importanti, di cui ringrazio i lettori (e invito a leggere i commenti, preziosi in coda al precedente articolo).

Mi sfuggiva ad esempio la lunga intervista a Colombo che avevo letto e apprezzato ma non adeguatamente interiorizzato e fatta mia. Oggi molti amici si chiedono quali siano le coordinate (sia mediche, che etiche, che teologiche) della questione. Credo che l’intervento di Colombo dia il contesto giusto e vada preso come linea maestra per ogni successiva discussione. Bisogna avere la pazienza di leggerlo tutto fino in fondo (in particolare al punto “3” senza fretta. (Si legga qui)

Anche l’intervista al  dott. Cesana su Il Foglio, permette di comprendere  quanta prudenza occorra avere. Si rompono dunque anche schemi consolidati, nel panorama del “mondo cattolico” tra i cosiddetti “battaglieri”, e fedeli alla linea, e le “colombe” (categorie idiote per il mondo cattolico, dove la più grande battaglia è quella dell’agnello immolato, ovvero Cristo). E meno male che gli schemi si rompono.  (Si legga qui Cesana)

Il problema vero è riconoscere e dare credito a quelle “scintille di resurrezione” di cui parlavo nell’articolo precedente, vero aspetto interessante e pertinente (resurrezione da non ridurre a una “posizione per cui combattere”). Scintille presenti nell’attività di tanti medici, tra cui la dott.ssa Parravicini, ma attestata anche dalla bella lettera di Valeria Bertilaccio.

Ma perché questo accada occorre amare la complessità. Non ridurre la realtà al “già saputo”.

Ma a quale condizione è possibile amare la complessità?

C’è solo un modo per potersi addentrate nella realtà senza aver timore che questa ci porti via speranza, vita, valore. Occorre “credere” che la realtà sia densa di significato, comunque si ponga, in ogni suo aspetto. Un “credere” che diventa esperienza ragionevolmente fondata nell’incontro con Cristo, laddove si scopre che il Logos si è incarnato ed è la stoffa di cui è fatta la realtà (“la realtà invece è Cristo”, San Paolo).

Pertanto, se proprio all’interno di media cristiani si sono aperte battaglie grossolane (e tardive, ci ricordano amici che vivono a Londra), – magari da parte di tanti ingenuamente- è per poca fede e non per urgenza della fede. La battaglia che la realtà ci chiede, per uscire dal vortice del nulla, è un’altra.  È la domanda di esistenza, di vita, dell’esserci. È la preghiera perché Charlie  e la sua famiglia si salvino (dalla morte, prima che non dai tribunali).  Lo aveva capito perfettamente Giorgio Gaber, a cui ieri abbiamo dedicato, con gli amici del Centro culturale Il Portico del Vasaio, una serata conviviale di ascolto e di riflessione. In Io e le cose afferma “Io non so niente / ma mi sembra che ogni cosa / nell’aria e nella luce / debba essere felice.”

Per il resto, prima di brandire “casi” come armi per sostenere una propria idea, occorre passione per capire, certi che la realtà non tradisce.

E questa è la fede che ho imparato da Giussani che in fin di vita sostenne, “la realtà non mi ha mai tradito”.

I nuovi complessi problemi etici che si sono aperti da tempo, potranno generare nuove soluzioni di pensiero, solo a partire da questo, laico e di fede (ovvero pienamente razionale), approccio.

È per questo preziosa l’ “altra parte” del dibattito. Quella fatta di ricerca, richieste di chiarimento, lettura appassionata, attenzione ai dati. Una ricerca che ha portato a nuove e più consapevoli domande che oggi richiedono  risposte decisamente urgenti.

L’intensificazione di questo lavoro di “presa di coscienza” è sicuramente generativo di una nuova speranza.

https://youtu.be/trg8sx5J_HE

 

 

Charlie e quel mistero insondabile che è la (fine della) vita

La vicenda di Charlie Gard ha aperto ferite. Domande (molte) e risposte (poche, ma ne emerge una assolutamente decisiva e va guardata con reale interesse). Emerge una diversità di opinioni. Battaglie non esattamente sacrosante e battaglie invece profonde e vere, ma salvo alcuni casi soffocate da un senso di enorme, ed inerme, impotenza.

Senza dubbio la domanda più grave è il significato e il senso di tutto quanto è in gioco. Ha senso una sentenza che non accoglie la volontà dei genitori di tentare tutto perché il proprio figlio viva? Ha senso il precedente veto dei medici ad operare scelte da parte della famiglia per una nuova “cura”? Ha senso tuttavia perseguire una “cura” che si affermi come non produttiva se non di nuovi dolori (così dicono con diversi livelli di certezza)? Ma perché negarne la possibilità? E perché lottare così tanto per un figlio che “non ha futuro”? E poi, oggi terribilmente urgente, che cosa è eutanasia e cosa accanimento terapeutico?

E soprattuto dove consiste il valore di una vita?

Ad alcune di queste domande, risposte sono giunte, ad altre no.  Ci sono dati che, peraltro, il clamore mediatico non ha messo bene in rilievo. Tra l’altro ringrazio le obiezioni di alcuni miei alunni, ora studenti di medicina, e di alcuni colleghi, perché mi hanno aiutato ad andare più a fondo. Premetto che di tutta la vicenda e delle risposte che mi sono state date, c’è qualcosa che proprio non torna ancora. In sostanza ritengo che “staccare la spina”, di fatto,  non sia una risposta ma un cedimento. Necessario? Opportuno? Comunque un cedimento, una sconfitta di fronte a “quella battaglia che nessun uomo potrà mai vincere” (Springsteen). Occorre capire se ci sono margini di speranza su questa battaglia, che in fondo è quella di tutti. Solo così sarà possibile illuminare di una luce diversa anche la vicenda di Charlie. Occorrono scintille di resurrezione perché altrimenti non è fottuto solo Charlie, ma anche tutti noi.  Questa storia mette a nudo questa terribile verità. Siamo ingannati dalla vita o questa ha un senso (malgrado tutto, ma proprio tutto, anche malgrado, e dentro, drammi come quelli di Charlie)? L’amarezza della canzone di Springsteen fotografa la stessa amarezza che proviamo di fronte a Charlie. Ma questa è specchio della nostra vita, delle nostre giornate.

Senza arrivare a questo punto, si produce ingiustizia, anche sostenendo le idee giuste, È così ingiusto (moneta di segno opposto ma dello stessa natura di chi propaga la morte)  fare battaglie senza conoscere i dettagli e l’unicità di questo caso. Anzi l’unicità di tutti questi casi, avendo connotazioni veramente delicate, come dimostrano gli interventi di numerosi medici cattolici – anch’essi divisi nelle opinioni –  e come dimostra la pratica effettiva in tanti ospedali cattolici. A dimostrazione del fatto che il problema ha una sua delicatezza tutta particolare e che le questioni che si aprono sono nuove e prive di risposte pre-definite, pur entro l’alveo certo che ha chiarito il Papa:  si lotta per la vita, non per altro.

Alcune risposte, dal punto di vista giuridico, vengono da Ilaria Bertini che, da Londra, in questo non facile articolo chiarisce la complessità di come sia nato il “caso” giuridico, con passaggi sulla patria potestà e sulla posizione iniziale della famiglia, utili per capire meglio (ma non tutto viene ad essere illuminato) che nel concreto di questo caso non si tratta di compiere una divisione manichea tra “buoni” e “cattivi”. Il testo integrale della sentenza della Corte europea è poi stato pubblicato, in inglese, dall’amico Paolo Facciotto. Sempre da Londra, anzi dall’ Ormond Street Hospital, dove è accolto Charlie, proveniva una lettera di un’infermiera, Letizia Zuffellato, che sostanzialmente difendeva l’operato dei medici di un ospedale che – ricordiamolo – è considerato un’eccellenza, aprendo nuove e più ampie considerazioni (decisiva quella relativa all’impotenza di fronte al desiderio di tenere in vita un proprio figlio).

I due interventi hanno suscitato una marea di critiche, a volte virulente (veri e propri insulti), segno di quanto la vicenda sia importante e sentita, ma anche di una reattività, istintiva e violenta, a volte non comprensibile, sicuramente non tollerabile.

Se le due lettere sono state oggetto di una sorta di ostracismo, tuttavia, sul sito Vita.it, una realtà non esattamente anti-vita ovviamente, è ospitato l’intervento di Alessandra Rigoli, dottoressa cattolica, che si schiera con i medici londinesi, a partire dalla sua esperienza personale e spiegando perché non sarebbe in questo caso “eutanasia”.

Dall’altra parte si legge su Avvenire di un caso, definito analogo a quello di Charlie, in cui il bambino, anziché i pochi mesi di vita diagnosticati, ha già raggiunto i nove anni e la madre testimonia la positività della loro esistenza, pur segnata dall’inabilità totale.   Torna a parlare del caso italiano (il bimbo è soprannominato Mele) Il Sussidiario, con un articolo più ricco di dettagli. Si apprende che al momento in Italia non si sarebbe potuta creare la situazione inglese («In Italia la legge vieta l’interruzione delle cure nei bambini senza il permesso dei genitori. Questo diritto diventerebbe, anche da noi, molto più incerto se passasse la legge sulle DAT in discussione al Senato») e che una cura sperimentale negli USA in realtà è in atto, e dunque potrebbe essere un’opportunità. Dato che, invece, da altri (dai “tribunali” inglesi ed europei, ma anche da medici cattolici) viene del tutto negato.

Appare chiaro che forse non ci si stia intendendo su numerosi dettagli, ma forse non ci si intende su che significhi “vita” .

Mele, Emanuele Campostrini,  intanto, a dispetto della diagnosi delle prime settimane, va a scuola (vedi l’articolo integrale). La famiglia Gard e la famiglia Campostrini (che aveva inviato un video appello perché si lasciasse vivere Chiarlie) si sentono quotidianamente.

In rete si trovano numerosissimi altri articoli, espressione delle due direzioni di opinione.  Sempre Vita.it ricorda, intervistando Luca Manfredini, referente per la terapia del dolore e cure palliative dell’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova, che in Italia i bambini che necessitano di cure palliative (che non hanno speranza di guarigione) sono 35mila e solo il 15% ne può usufruire. Fatto di cui nessuno si occupa.  Cure palliative, non eutanasia. L’eutanasia non può mai essere contemplata – al contrario di come sembra affermare la legislazione belga, contro cui si è scagliato l’International Children’s Palliative Care Network (ICPCN) – come opzione percorribile in questi casi.

Ma è questo il caso di Charlie? Alla fine dell’articolo  si chiarisce la questione ricalcando la posizione della dott.ssa  Rigoli. (Si veda qui per intero l’articolo). Il finale tenta di chiarire uno dei grandi dilemmi: «nessun intervento medico è consentito a meno che i suoi vantaggi non superino i danni. Quando la cura non è più possibile, tali benefici e danni devono essere considerati in senso ampio, in un modo che comprende anche gli interessi emotivi, psicologici e spirituali così come quelli fisici. Poiché è la famiglia dei bambini che li conosce meglio, tale considerazione si basa sulle discussioni tra la famiglia e il team sanitario (e quando possibile, il bambino stesso) per stabilire se gli interventi sono equilibrati e nel migliore interesse del bambino. Quelli che non lo sono – cioè il cui danno supera i benefici – dovrebbero essere interrotti o evitati. Questo non costituisce eutanasia».

Come si vede la questione è estremamente complessa (ma sarebbe un errore grave avere paura della complessità) e non sono giustificate battaglie all’arma bianca, mentre risultano a dir poco sconsolanti i tentativi di far apparire silenti e assenti le istituzioni della Chiesa da parte di  “ultras cattolici”, tirandole per la giacchetta. In tal senso si veda il solito Socci che conclude il suo articolo con l’umile e  devota espressione, “un Papa vero non si comporta così”. In realtà già i vescovi inglesi erano intervenuti, così come mons. Paglia e lo stesso presidente della CEI Bassetti e mentre Socci si apprestava a pubblicare le sue parole di fuoco, il papa interveniva con un tweet a cui è seguito un comunicato tramite il suo portavoce (si veda qui). La posizione del papa è quella della difesa della vita e della relazione di Charlie con la propria famiglia (ma su questo pare che essi abbiano perso la patria potestà nel momento che sono entrati in contenzioso con l’ospedale, come prevede la legge inglese – vedi articolo Bertini-).

Intanto il fronte della certezza negativa sul destino di Charlie si rompe e, come riporta Il Sussidiario, “il presidente dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, Mariella Enoc, ha confermato la disponibilità ad accogliere Charlie Gard”. Vi sono contatti in corso per salvargli la vita e si è interessato persino il presidente americano Donald Trump. Anche il ministro Lorenzin si è complimentato con l’ospedale vaticano. Improvvisamente la questione sembra prendere un’altra luce. Sono così certe le prime evidenze mediche?

È certo che una cultura che avanza l’eutanasia come soluzione rapida e indolore ai drammi della vita esiste e intende porsi senza mezzi termini come risolutiva per tante situazioni delicate, dove la vita è più fragile.  Paolo Vites, il 28 giugno, ha riportato l’opinione dello scienziato ateo Dawkins, a riguardo dell’aborto. Dawkins sostiene che un feto umano è meno simile ad un uomo adulto che non un maiale adulto. Un modo di esprimersi che indica la presenza di una cultura che ha smarrito il valore della vita umana, il suo mistero, la sua preziosa unicità, e che va fortemente combattuta.

L’orrore che nasce da alcuni passaggi della vicenda di Charlie è il timore e l’impressione che si stia aggiungendo un tassello verso questa direzione, definendo e delineando quelle che sono considerate “vite indegne di essere vissute”. Un pensiero oggi diffuso nella mente di tanti, senza comprenderne la vera barbarie, del tutto analoga a quella nazista. In tal senso è assai significativa l’opposizione del vescovo di Munster, Von Galen, e di tutto il popolo della sua diocesi al programma di eutanasia di Hitler, il terribile programma AktionT4.

Le avvisaglie di questa “cultura di morte” sono state messe in luce da lungo tempo. In occasione del dibattito intorno al caso Eluana, l’associazione riminese Hannah Arednt invitò il dott. Mario Melazzini, malato di SLA. Durante la conferenza si espresse provocatoriamente, affermando che nella sua situazione non era preoccupato di “aver diritto a morire dignitosamente” (come allora si chiedeva da più parti alla legislazione italiana), bensì di aver diritto a vivere, poiché in tanti paesi, specie di cultura anglo-sassone, non si curano più i malati terminali; le loro cure sono ritenute costose e inutili, e li si lascia morire. Parole che paiono profetiche.

Melazzini, poi, sempre a Rimini, presentando un suo libro al Meeting, affermò “Quando mi hanno comunicato che avevo la Sla ho pensato che di questa malattia si muore. Ora mi rendo conto che il mio male mi ha dato più di quanto mi ha tolto ed è questo sguardo che voglio dall’infinito. Apprezzare con gioia la vita, ma con la consapevolezza del Mistero che ci circonda… anche su una sedia a rotelle non si smette mai di cercare”. Una cultura che non riconosce più il valore della vita, anche nella malattia, esiste e c’è chi la combatte mostrando che la vita c’è dove meno te l’aspetti.

Sarebbe invece grave prendere a pretesto questo caso, per innescare una presunta “battaglia di popolo”.  È una posizione rischiosa, perché prevale un progetto sulla presenza di una vita (una e irripetibile), che c’è ed è il vero punto di rinascita, il quale non potrà consistere in una nuova presunta cultura, nata sull’onda emotiva di un fatto così straziante, e non dalla reale presenza di vita rinnovata.  In tal senso occorre, in primo luogo, recuperare un reale senso del valore dell’esistenza. Non di una concezione dell’esistenza ma dell’esistenza stessa. Alcuni fatti sono d’aiuto a capire questo ultimo punto e la possibilità di una svolta in questo dibattito.

Il primo fatto è che se migliaia di persone si sono stracciate le vesti di fronte alla sorte di Charlie, un’amica che vive a Londra mi scrive un paio di giorni fa: “La cosa più triste per me è la solitudine dei genitori, su cui certo anche qualche medico ha le sue colpe, come poi è emerso dalla sentenza. (…) Non c’era nessuno davanti all’ospedale. Tutti su Facebook a fare crociate.”

Un’annotazione semplice ma di importanza capitale.

La comprendiamo meglio se leggiamo la bellissima lettera della dott.ssa Eugenia Parravicini, medico nel reparto di patologie neonatali, in un importante ospedale di New York. Una lettera che ha un tenore differente, vivo e positivo,  e che prende maggiore significato se letta alla luce dell’attività della dott.ssa Parravicini, che ben si può desumere da questo  video, che mostra cosa stia facendo a New York. Scintille di resurrezione.

 

 

È qui, su questo fronte del riappropriarsi della vita e del suo insondabile mistero, che si colloca la riflessione di Prosperi e del dott. Corsi, pubblicata , come lettera, qualche giorno fa sul sito di CL.

Evitando di considerare la storia di Charlie come un’arma da scagliare contro la “cultura della morte” (Charlie non è un’arma, Charlie è lui, è terribilmente malato e il suo destino è misterioso), offre i criteri per un giudizio (la difesa della vita e il valore della relazione con i genitori) ma soprattutto rilancia le domande che sono sottese da questa terribile vicenda. Domande sulla morte e sulla vita.  Domande che trovano una risposta in quello che la Parravicini ha costruito, esprimendo un’indomabile esperienza di vita. Che sperimenta concretamente che significhi sperare contro ogni speranza.

Senza questa esperienza, senza questi sprazzi di resurrezione, ogni battaglia è perduta in partenza. Avrebbe terribilmente ragione Springsteen, geniale laddove afferma che “c’è qualcosa che muore per strada questa notte. Quando la scommessa viene infranta, (…) questo ti ruba qualcosa dal profondo dell’anima. Come quando viene detta la verità e questa non fa alcuna differenza e qualcosa nel tuo cuore diventa di ghiaccio.”

Senza sprazzi di resurrezione saremmo di ghiaccio e privi di vita, già sconfitti, sia sul fronte pro-life che sul fronte di coloro che vogliono staccare la spina, anzi tante spine. Quelle spine che ci ricordano le parole del preconio pasquale: “Nessun vantaggio per noi essere nati, se Lui non ci avesse redenti”.

Come non diventare di ghiaccio di fronte ai duri colpi della vita e mantenere vivo il “sogno della giovinezza” (Giovanni XXIII)?

È la questione che solleva il dramma che sta vivendo Charlie. Un dramma che, nascosto tra le apparenze del quotidiano, è in realtà dentro ognuno di noi in ogni frangente delle nostre giornate.