C’è un virus ancora più grave del CoronaVirus. È più subdolo, nascosto, eppure assai più devastante. Non riguarda i corpi. Non riguarda la nostra biologia. Qui non c’entrano mutazioni, diffusioni, fattori RT di contagio. Riguarda l’anima, riguarda l’intelligenza e la volontà. Riguarda la libertà. C’è un virus che sta uccidendo la nostra libertà, perché sta uccidendo la nostra capacità di confrontarci con la realtà, chiudendoci in una dimensione meccanica e priva di passione per le cose.
Questa pandemia è particolarmente attiva nella scuola, il luogo dove si dovrebbero crescere le anime, formare le persone, aprire le menti. Invece oggi è il luogo dove vige la potenza di questo virus occulto e non dichiarato. Eppure nella scuola ci sono forti anticorpi, che hanno permesso alla stessa di resistere fino ad ora. La scuola, malgrado sia così infetta e maleodorante, resta un luogo dove persone vive si incontrano.
Le persone che portano questi anticorpi talvolta sono i docenti. Dovrebbe essere questo il loro compito precipuo. Certamente non sempre è così. Possiamo dire che il virus, in questo secondo caso, trova la sua vittoria. Portatori sani di anticorpi, spesso, sono gli stessi studenti. Con la loro baldanzosa naturalezza, con una incredibile e spontanea energia, sparigliano spesso le carte. A loro basta poco. Una domanda, una considerazione, un gesto magari poco opportuno ma che porta tutto il desiderio di una vita vera, di una conoscenza non artefatta, di una passione non spenta nei confronti di quanto si va facendo. Basta poco, e la lezione rinasce. In questo tempo di Lockdown nella scuola sono accadute cose di grande portata profetica, per chi intenda guardarle.
Due esempi. Uno del virus ammorbante. Uno degli anticorpi più forti del virus.
In questi giorni, studenti e insegnanti si sono visti traditi nel loro sforzo di dare un senso al proprio percorso. Salvato l’anno scolastico a marzo scorso, inventando una didattica a distanza che non era dovuta da contratto, messo in piedi a settembre tutto un apparato di sicurezza per cui a scuola senza dubbio ci si sentiva in un luogo sicuro (non vi è stata diffusione del CoronaVirus tra le aule, ma semmai in altri luoghi), a causa delle mancanze di altri attori (in primis il problema dei trasporti) docenti e studenti si sono visti settimana scorsa di nuovo costretti ad una sconfortante didattica a distanza (che comunque resta sempre meglio che nulla). Dapprima per il 75 % delle classi, ora per il 100%. A fronte di questa forte e palpabile delusione, la beffa. Increduli, i docenti di numerose scuole hanno letto in circolari comprovate da normative varie, che se anche tutti i propri studenti della mattinata fossero stati destinati a casa, il prof doveva essere “in presenza”. In presenza nell’assenza. Costretto da circolari bizantine a fare lezione a distanza, ma da scuola. Così la scuola diveniva di fatto un “non luogo”.
Quegli stessi insegnanti che hanno salvato l’anno scolastico con un impegno a casa propria che non era previsto da nessun contratto e che risultava perfino illegittimo (erano tenuti a marzo a non firmare il registro, perché risulta “illegale” far lezione da casa, con conseguenza di una complicatissima procedura per assegnare voti e assenze), ecco, proprio costoro che, senza tirarsi indietro di un millimetro hanno ostinatamente voluto “far lezione”, ora vengono chiamati a una sorta di “lavoro forzato”, ovvero ad uno sforzo senza altro significato se non quello che può essere immaginato quale “punitivo”.
Difatti, fatta salva ovviamente la possibilità di accogliere a scuola quei docenti che mancassero di strumenti, non si capisce perché mai un prof debba fare da scuola – mentre la nazione intera tenta di limitare i contatti sociali e gli spostamenti – quel che può fare con più efficacia da casa. Come era facile prevedere, per aggiungere note di grottesco a questo noir dai sapori stantii, si è subito visto come le scuole non siano affatto preparate ad accogliere l’interezza delle lezioni via web. Cadute di connessione, computer non predisposti, disturbo dato da una organizzazione oggettivamente complessa hanno portato mediamente (stima data dal racconto degli insegnanti stessi e degli alunni) a una perdita del tempo di lezione che si avvicina ad un terzo rispetto al lavoro che poteva essere fatto da casa (in certi casi anche oltre la metà).
In una classe vuota, con i ragazzi sul monitor, la domanda spontanea era se tutto questo fosse uno strano sogno. Una specie di incubo, un “sonno della ragione”. Ora qualcuno sembra essersene accorto. Paiono essere mutati i bizantinismi interpretativi. Meno male. Ma resta indelebile questa settimana di follia giuridicamente corretta (o forse no?).
Ma veniamo agli anticorpi.
Si potrebbe parlare di tante cose ma per capire quali siano gli anticorpi che salveranno la scuola, e di conseguenza l’intera società, basta un semplice episodio. Banale e inconcludente. Ma salvifico.
Due giorni fa mi accorgo che un ragazzo sta seguendo dal terrazzo. Accadeva anche a primavera, talvolta. E, tra me e me, dicevo “fan bene, lo farei anche io se potessi!”. E magari ci usciva anche una battuta sugli Aristotelici che facevano lezione passeggiando… Ma a novembre no. Qualcosa non torna. Oggi, dalle 8 del mattino, è ancora sul terrazzo, avvolto in un pesante piumino invernale.
E allora incuriosito chiedo, “ma perché sei sul terrazzo, non hai freddo? Ci sono problemi di silenzio o di spazio in casa…?”. La risposta è stata fulminante nella sua semplicità: “Prof, mi sono appena trasferito e non ci è arrivato ancora il wi fi. Ho finito in una giornata i giga del mio cellulare, ma ho scoperto che c’è un wi fi libero qui vicino. Purtroppo prende solo da qui. Così seguo le lezioni dal terrazzo. Mi sono costruito una copertura, una tenda… Il problema è che ieri c’era nebbia e si bagnavano i fogli! Così dopo 3 ore son dovuto entrare in casa e disconnettermi”. Sono a bocca aperta. Questo ragazzo, un normale nostro studente non particolarmente “secchione”, pur di seguire le lezioni è stato per una settimana intera ogni mattina sul suo terrazzo per 5 ore di fila. Senza dire nulla. Senza lamentare difficoltà di connessione. Senza trovare scusanti per una più che comprensibile assenza, magari autorizzata dai genitori. In questo gesto semplice, ma decisamente significativo, in questo moto della libertà del tutto personale e “disarmato”, si cela qualcosa che c’entra con la possibilità di una rinascita della scuola e della società.
Possiamo starne certi. Vinceremo il virus. E non intendo certo il Covid, che, a fronte dell’assurdità in cui siamo immersi, è poca cosa davvero (ed è tutto dire).
Un paio di giorni fa Charlie Gard è volato in cielo. I genitori hanno rinunciato a procedere nella loro battaglia, riconoscendone l’impossibilità. L’ospedale ha proceduto secondo le proprie prerogative.
Non ci interessa, qui, proseguire una battaglia che è stata irta di malintesi e banalità, che abbiamo in parte documentato in due lunghi articoli (leggi il primo e il secondo). Malintesi e banalità che fan fuori una complessità che il dialogo con alcuni amici, tra cui medici e persone appassionate alla vita ed alla vicenda, ha confermato e che la Chiesa stessa riconosce in questi casi, come gli articoli del Catechismo voluto da Ratzinger attestano (si veda art. 2278 e 2279 del Catechismo), lasciando margini di azione terribilmente ampi, tutti in mano ai medici ed ai famigliari.
Vogliamo porre lo sguardo su quello che realmente e profondamente è accaduto.
Da una parte, ancora una volta, si è affermata la tragedia che riguarda ogni uomo. La sconfitta delle proprie aspirazioni, la prova fattuale che “non ce la possiamo fare”. La morte è il riscontro sicuro e oggettivo di questa impotenza a realizzare i propri desideri.
Con la vicenda di Charlie Gard si è visto, tuttavia, anche altro. Si è visto che il desiderio dell’uomo di vivere, di amare, di combattere è potente. È capace di stringere insieme migliaia e milioni di uomini. I genitori di Charlie sono stati la testimonianza di questa forza e in tantissimi ci siamo stretti attorno a loro (pur con diverse valutazioni sulle opportunità da seguire, sulle quali i medici stessi si sono trovati divisi, anche a causa del condizionamento mediatico), commossi per questa tenacia e questo amore al proprio figlio.
Viene in mente il Leopardi della Ginestra, il Leopardi del titanismo, che piega il suo pessimismo verso un volontaristico e imponente sforzo di compassione e un appello all’unione del genere umano per combattere contro la natura matrigna.
Ma resta la domanda. È una battaglia che può essere vincente? La risposta è chiara. No.
Vengono in mente i miti del Foscolo (unica consolazione per l’uomo, destinato al nulla), oppure, in tempi più recenti la bella canzone di Guccini, Le cinque anatre. Se anche una sola continuerà il suo volo, mentre le altre 4 cadono, questa sarebbe la prova che “si doveva volare”. Il problema è che neppure quell’unica anatra, nel nostro caso, può continuare il volo per raggiungere il suo Sud.
Ma allora che significato ha la tenacia dei genitori e la commozione del mondo intero (commozione capace di muovere perfino i potenti)?
La soluzione è quella di non deviare l’urgenza della domanda che Charlie testimonia: a che vale la vita? Perché il grande spettacolo della vita, se poi ci viene improvvisante portato via?
Di qui la necessità – di cui dicevamo a margine dei precedenti post – di poter sperimentare da subito scintille di resurrezione, ovvero di vittoria.
Costruire luoghi dove è possibile sperimentare da subito la vittoria sulla morte, dove tale vittoria è altrettanto quotidiana e reale quanto la presenza della morte che ci pervade, è la vera buona battaglia. Luoghi che diano senso e speranza anche alla tenera e cara vita di Charlie, e senso e speranza al dolore di quanti lo hanno amato così fortemente.
Lo ricordava don Giussani, nel 1982, come cifra risolutiva per la vita di ognuno.
« “Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede”. Questa è la vittoria che vince l’inesorabile degradazione verso la morte, la mortificazione della vita, l’anticipo del sepolcro che è l’abitudine: la fede, il riconoscimento di qualcosa che accade, di ciò che accade, del senso della vita che accade, di Cristo che viene tra noi». (don Giussani, Una strana compagnia).
La nostra fede, come reale riconoscimento di un avvenimento, e non miti (progressisti o conservatori, pragmatici o valoriali) creati da noi e che inesorabilmente saltano la realtà nella sua fattualità (rende in bianco e nero ciò che è pieno di sfumature). Quella realtà che dobbiamo imparare ad avere il coraggio di amare.
Per questo serve , oggi più che mai, l’intelligenza della fede, affinché si abbia finalmente il coraggio di guardare ciò che c’è, senza sogni e aggiustamenti.
La vicenda di Charlie Gard ha aperto ferite. Domande (molte) e risposte (poche, ma ne emerge una assolutamente decisiva e va guardata con reale interesse). Emerge una diversità di opinioni. Battaglie non esattamente sacrosante e battaglie invece profonde e vere, ma salvo alcuni casi soffocate da un senso di enorme, ed inerme, impotenza.
Senza dubbio la domanda più grave è il significato e il senso di tutto quanto è in gioco. Ha senso una sentenza che non accoglie la volontà dei genitori di tentare tutto perché il proprio figlio viva? Ha senso il precedente veto dei medici ad operare scelte da parte della famiglia per una nuova “cura”? Ha senso tuttavia perseguire una “cura” che si affermi come non produttiva se non di nuovi dolori (così dicono con diversi livelli di certezza)? Ma perché negarne la possibilità? E perché lottare così tanto per un figlio che “non ha futuro”? E poi, oggi terribilmente urgente, che cosa è eutanasia e cosa accanimento terapeutico?
E soprattuto dove consiste il valore di una vita?
Ad alcune di queste domande, risposte sono giunte, ad altre no. Ci sono dati che, peraltro, il clamore mediatico non ha messo bene in rilievo. Tra l’altro ringrazio le obiezioni di alcuni miei alunni, ora studenti di medicina, e di alcuni colleghi, perché mi hanno aiutato ad andare più a fondo. Premetto che di tutta la vicenda e delle risposte che mi sono state date, c’è qualcosa che proprio non torna ancora. In sostanza ritengo che “staccare la spina”, di fatto, non sia una risposta ma un cedimento. Necessario? Opportuno? Comunque un cedimento, una sconfitta di fronte a “quella battaglia che nessun uomo potrà mai vincere” (Springsteen). Occorre capire se ci sono margini di speranza su questa battaglia, che in fondo è quella di tutti. Solo così sarà possibile illuminare di una luce diversa anche la vicenda di Charlie. Occorrono scintille di resurrezione perché altrimenti non è fottuto solo Charlie, ma anche tutti noi. Questa storia mette a nudo questa terribile verità. Siamo ingannati dalla vita o questa ha un senso (malgrado tutto, ma proprio tutto, anche malgrado, e dentro, drammi come quelli di Charlie)? L’amarezza della canzone di Springsteen fotografa la stessa amarezza che proviamo di fronte a Charlie. Ma questa è specchio della nostra vita, delle nostre giornate.
Senza arrivare a questo punto, si produce ingiustizia, anche sostenendo le idee giuste, È così ingiusto (moneta di segno opposto ma dello stessa natura di chi propaga la morte) fare battaglie senza conoscere i dettagli e l’unicità di questo caso. Anzi l’unicità di tutti questi casi, avendo connotazioni veramente delicate, come dimostrano gli interventi di numerosi medici cattolici – anch’essi divisi nelle opinioni – e come dimostra la pratica effettiva in tanti ospedali cattolici. A dimostrazione del fatto che il problema ha una sua delicatezza tutta particolare e che le questioni che si aprono sono nuove e prive di risposte pre-definite, pur entro l’alveo certo che ha chiarito il Papa: si lotta per la vita, non per altro.
I due interventi hanno suscitato una marea di critiche, a volte virulente (veri e propri insulti), segno di quanto la vicenda sia importante e sentita, ma anche di una reattività, istintiva e violenta, a volte non comprensibile, sicuramente non tollerabile.
Appare chiaro che forse non ci si stia intendendo su numerosi dettagli, ma forse non ci si intende su che significhi “vita” .
Mele, Emanuele Campostrini, intanto, a dispetto della diagnosi delle prime settimane, va a scuola (vedi l’articolo integrale). La famiglia Gard e la famiglia Campostrini (che aveva inviato un video appello perché si lasciasse vivere Chiarlie) si sentono quotidianamente.
In rete si trovano numerosissimi altri articoli, espressione delle due direzioni di opinione. Sempre Vita.it ricorda, intervistando Luca Manfredini, referente per la terapia del dolore e cure palliative dell’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova, che in Italia i bambini che necessitano di cure palliative (che non hanno speranza di guarigione) sono 35mila e solo il 15% ne può usufruire. Fatto di cui nessuno si occupa. Cure palliative, non eutanasia. L’eutanasia non può mai essere contemplata – al contrario di come sembra affermare la legislazione belga, contro cui si è scagliato l’International Children’s Palliative Care Network (ICPCN) – come opzione percorribile in questi casi.
Ma è questo il caso di Charlie? Alla fine dell’articolo si chiarisce la questione ricalcando la posizione della dott.ssa Rigoli. (Si veda qui per intero l’articolo). Il finale tenta di chiarire uno dei grandi dilemmi: «nessun intervento medico è consentito a meno che i suoi vantaggi non superino i danni. Quando la cura non è più possibile, tali benefici e danni devono essere considerati in senso ampio, in un modo che comprende anche gli interessi emotivi, psicologici e spirituali così come quelli fisici. Poiché è la famiglia dei bambini che li conosce meglio, tale considerazione si basa sulle discussioni tra la famiglia e il team sanitario (e quando possibile, il bambino stesso) per stabilire se gli interventi sono equilibrati e nel migliore interesse del bambino. Quelli che non lo sono – cioè il cui danno supera i benefici – dovrebbero essere interrotti o evitati. Questo non costituisce eutanasia».
Come si vede la questione è estremamente complessa (ma sarebbe un errore grave avere paura della complessità) e non sono giustificate battaglie all’arma bianca, mentre risultano a dir poco sconsolanti i tentativi di far apparire silenti e assenti le istituzioni della Chiesa da parte di “ultras cattolici”, tirandole per la giacchetta. In tal senso si veda il solito Socci che conclude il suo articolo con l’umile e devota espressione, “un Papa vero non si comporta così”. In realtà già i vescovi inglesi erano intervenuti, così come mons. Paglia e lo stesso presidente della CEI Bassetti e mentre Socci si apprestava a pubblicare le sue parole di fuoco, il papa interveniva con un tweet a cui è seguito un comunicato tramite il suo portavoce (si veda qui). La posizione del papa è quella della difesa della vita e della relazione di Charlie con la propria famiglia (ma su questo pare che essi abbiano perso la patria potestà nel momento che sono entrati in contenzioso con l’ospedale, come prevede la legge inglese – vedi articolo Bertini-).
Le avvisaglie di questa “cultura di morte” sono state messe in luce da lungo tempo. In occasione del dibattito intorno al caso Eluana, l’associazione riminese Hannah Arednt invitò il dott. Mario Melazzini, malato di SLA. Durante la conferenza si espresse provocatoriamente, affermando che nella sua situazione non era preoccupato di “aver diritto a morire dignitosamente” (come allora si chiedeva da più parti alla legislazione italiana), bensì di aver diritto a vivere, poiché in tanti paesi, specie di cultura anglo-sassone, non si curano più i malati terminali; le loro cure sono ritenute costose e inutili, e li si lascia morire. Parole che paiono profetiche.
Melazzini, poi, sempre a Rimini, presentando un suo libro al Meeting, affermò “Quando mi hanno comunicato che avevo la Sla ho pensato che di questa malattia si muore. Ora mi rendo conto che il mio male mi ha dato più di quanto mi ha tolto ed è questo sguardo che voglio dall’infinito. Apprezzare con gioia la vita, ma con la consapevolezza del Mistero che ci circonda… anche su una sedia a rotelle non si smette mai di cercare”. Una cultura che non riconosce più il valore della vita, anche nella malattia, esiste e c’è chi la combatte mostrando che la vita c’è dove meno te l’aspetti.
Sarebbe invece grave prendere a pretesto questo caso, per innescare una presunta “battaglia di popolo”. È una posizione rischiosa, perché prevale un progetto sulla presenza di una vita (una e irripetibile), che c’è ed è il vero punto di rinascita, il quale non potrà consistere in una nuova presunta cultura, nata sull’onda emotiva di un fatto così straziante, e non dalla reale presenza di vita rinnovata. In tal senso occorre, in primo luogo, recuperare un reale senso del valore dell’esistenza. Non di una concezione dell’esistenza ma dell’esistenza stessa. Alcuni fatti sono d’aiuto a capire questo ultimo punto e la possibilità di una svolta in questo dibattito.
Il primo fatto è che se migliaia di persone si sono stracciate le vesti di fronte alla sorte di Charlie, un’amica che vive a Londra mi scrive un paio di giorni fa: “La cosa più triste per me è la solitudine dei genitori, su cui certo anche qualche medico ha le sue colpe, come poi è emerso dalla sentenza. (…) Non c’era nessuno davanti all’ospedale. Tutti su Facebook a fare crociate.”
Un’annotazione semplice ma di importanza capitale.
Evitando di considerare la storia di Charlie come un’arma da scagliare contro la “cultura della morte” (Charlie non è un’arma, Charlie è lui, è terribilmente malato e il suo destino è misterioso), offre i criteri per un giudizio (la difesa della vita e il valore della relazione con i genitori) ma soprattutto rilancia le domande che sono sottese da questa terribile vicenda. Domande sulla morte e sulla vita. Domande che trovano una risposta in quello che la Parravicini ha costruito, esprimendo un’indomabile esperienza di vita. Che sperimenta concretamente che significhi sperare contro ogni speranza.
Senza questa esperienza, senza questi sprazzi di resurrezione, ogni battaglia è perduta in partenza. Avrebbe terribilmente ragione Springsteen, geniale laddove afferma che “c’è qualcosa che muore per strada questa notte. Quando la scommessa viene infranta, (…) questo ti ruba qualcosa dal profondo dell’anima. Come quando viene detta la verità e questa non fa alcuna differenza e qualcosa nel tuo cuore diventa di ghiaccio.”
Senza sprazzi di resurrezione saremmo di ghiaccio e privi di vita, già sconfitti, sia sul fronte pro-life che sul fronte di coloro che vogliono staccare la spina, anzi tante spine. Quelle spine che ci ricordano le parole del preconio pasquale: “Nessun vantaggio per noi essere nati, se Lui non ci avesse redenti”.
Come non diventare di ghiaccio di fronte ai duri colpi della vita e mantenere vivo il “sogno della giovinezza” (Giovanni XXIII)?
È la questione che solleva il dramma che sta vivendo Charlie. Un dramma che, nascosto tra le apparenze del quotidiano, è in realtà dentro ognuno di noi in ogni frangente delle nostre giornate.
Dopo una serata passata con amici, leggendo un libro altrettanto amico e confrontandoci appassionatamente;
dopo aver in particolare ragionato sulla rilevanza della Chiesa nella vita quotidiana, approfondendo il portato, nell’esistenza concreta, della fede, guidati dalle sapienti, profonde e semplici ad un tempo (ma non facili), riflessioni di don Giussani e don Carron;
dopo una serata in cui abbiamo balbettato qualcosa su come la vita può divenire più umana grazie a Cristo, può diventare più sensata e razionale grazie al rapporto reso finalmente presente e percorribile con il Mistero;
oramai tornato a casa e messomi a lavorare ancora per un po’,
un amico presente all’incontro, (Roberto, che ringrazio), mi gira questo filmato che ho guardato attonito e stupito, decisamente ammirato, un minuto fa. Una notizia il cui titolo avevo letto senza poter approfondire durante le giornate scorse.
Ebbene, fotografia perfettamente quanto stavamo cercando di comprendere su cosa sia il Cristianesimo: un modo più umano di vivere tutto, compreso il dolore e qui persino il torto più atroce subito.
Avevamo letto della rilevanza esistenziale dell’Incarnazione (Dio che si fa uomo) e specificamente questi passaggi: “Cristo risorto conclama che tutto nella storia è redimibile, che non si perde nulla nel vortice degli eventi.” Oppure, “La comunicazione di verità che il divino nella Chiesa fa arrivare agli uomini mostra la sua validità proprio nel non dimenticare nulla, nel valorizzare il bene e nel giudicare o trasformare il male.”
Parlandoci, abbiamo scoperto che anche per noi queste espressioni sono diventate vere. Ma di fronte a questa testimonianza occorre mettersi in ginocchio ammirati.
È accaduto, dopo i terribili attentati, in una televisione egiziana, ed è riportato qui nella trasmissione di Tv2000.
Si comprende bene dove sia il punto di svolta, ancora oggi come duemila anni fa, per l’umanità intera.
Come sappiamo, è morto, all’età di 91 anni, Zygmunt Bauman, il grande intellettuale che, seppure già di ampia notorietà, in questi ultimi tempi ha dimostrato una capacità di sguardo profetico rispetto alla società occidentale così acuta e pervicace, da poter raggiungere il grande pubblico. Notevoli, in particolare, le assonanze che Bauman ha avvertito con le parole e la figura di papa Francesco, uomo visto come lanciato oltre la crisi del post moderno.
Quello che mi colpisce in Bauman è il fatto che il vecchio “vizio” della filosofia occidentale (conoscere l’ “intero”), sembri rinascere, arricchito da una sensibilità per i movimenti della società, fin nei suoi aspetti più legati al costume, alla vita quotidiana, alle dinamiche economiche o di evoluzione tecnologica, con insolita freschezza.
La sua analisi della (ovvia ma drammatica) fragilità dei rapporti tra uomini senza legami, perseguita come progetto sociale ed oggi potenziata dal virtuale, già l’avevo percepita come illuminante, in una sua intervista collocata alla fine di un drammatico documentario relativo alla vita in Svezia (Qui puoi leggere il mio articolo, mentre purtroppo il filmato è stato rimosso dalla Rai).
Ma leggo proprio questa sera, al mio rientro dopo un’appassionata chiacchierata, a cena con amici, su temi vari, l’articolo di commiato di Repubblica, che propone, all’interno della pagina in rete, un’intervista video (in inglese con sottotitoli in italiano) e che potete leggere e vedere qui. Nel filmato di 10 minuti, il grande tema della attuale migrazione dei popoli è legato da Bauman al tema della contemporaneità.
Bauman sostiene che modernità e migrazioni siano inscindibili (non vi sono queste senza l’altra). La modernità genera trasformazioni, che a loro volta generano spostamento di popoli, di quegli uomini cioè che non rientrano nell’ordine (generato nel disperato tentativo di controllare il caos) e che dunque devono andarsene. Ma al minuto 3, 45 il giudizio diventa drammatico. I migranti “diasporici” (come sono quelli attuali) tendono a non integrarsi, a convivere con due e tre identità contemporanee (di cui essi stessi diventano portatori), destinate a non integrarsi affatto.
Sottolineatura che mette in luce il carattere epocale e drammatico dell’attuale movimento dei popoli, non risolvibile dunque né con un giudizio di chiusura (“fermiamo i flussi con i muri”, giacché la migrazione è tutt’uno con la modernità), né con un giudizio di generica apertura (di stampo “buonista”, – Bauman mette in luce il carattere drammatico e di “dis integrazione” che questo fenomeno ha in sé). Una impossibilità di integrazione che è generato e genera la società delle incertezze. Questo l’ultimo affondo terribile: si crede che la “società della incertezza” sia generata dall’immigrazione (e l’immigrato diviene capro espiatorio, utile alla politica di basso respiro), ma al contrario questa ne è un effetto. Baumann parla in tal senso di “ambiente dell’incertezza” (minuto 4,15 circa e seguenti) come connotato proprio della modernità. Gli immigrati sono “l’avamposto del grande ignoto”. E Bauman prosegue, affermando: “il grande ignoto è lì, nel cyber spazio”, inafferrabile. E qui sembra aprirsi una dimensione più ampia, capace di abbracciare anche il grande tema dell’assenza di legami, della solitudine, del virtuale.
Riflessioni che mettono in luce uno sguardo, quello di Bauman, capace di analizzare il dato singolo nell'”intero” della vita dell’uomo, della società e dei destini dell’umanità. Le numerose dinamiche dell’esistenza contemporanea (migrazioni, incertezza, crollo di evidenze, vita virtuale, capitalismo, individualismo, assenza di legami, ecc.) trovano una singolare coralità di visione, seppure non (ancora – e sarà lunga a venire-) una risposta fondativa.
Decisamente un pensatore con cui è essenziale entrare in dialogo.
Dialogo decisamente piacevole per chi, come il gruppo di amici di questa sera, ama trovarsi a ragionare di queste cose senza lasciarsi schiacciare dal peso delle idee, ovvero uomini “connessi ma non soli”, desiderosi di costruire nuovi “legami fondativi”, certi – per dirla alla Bauman – che “l’indipendenza non sia la felicità” ed “alla fine porti ad una completa, assoluta, inimmaginabile noia”.
Proseguendo la riflessione sulla centralità della Misericordia per rispondere al dramma affettivo, esistenziale ed intellettuale del nostro tempo (giacché non si tratta di questione pietistica ma primariamente di ragione, intesa come natura dell’uomo), mi imbatto di nuovo nella figura del grande Giovanni Testori.
Già in un mio precedente articolo, primo di questa serie (primo articolo – secondo articolo), avevo riportato passi di Testori in cui egli stesso racconta la sua conversione in maniera estremamente pertinente al tempo attuale ed alla riflessione intrapresa.
Propongo qui questi due video appaiati.
Il primo è l’omelia di don Giussani alla sua morte (1993). La registrazione – purtroppo parziale ma probabilmente quasi integrale – parte con questa parola, perdono, quale chiave per comprendere la vita di Testori (“eri dominato da questa parola, perdono”). Le parole del Gius sembrano completamente immerse nell’attuale percorso della Chiesa e contemporanee all’uomo di oggi.
Il secondo è un servizio su di lui, in cui compare egli stesso mentre recita In Exitu. Realismo, bisogno, grido lancinante e urlo viscerale al destino, ma anche presenza di Uno che risponde: Cristo, il perdono realizzato e presente.
Credo che i due video si illuminino reciprocamente in maniera chiara e intensa.
«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa. L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».
(Lettera postata su Facebook da Antoine Leiris, che si rivolge ai terroristi che venerdì hanno ucciso la moglie, al concerto degli Eagles of Death Metal al teatro Bataclan di Parigi).
Questo è l’occidente che vincerà la battaglia. È la radice umana e cristiana della nostra storia. Cristiana, e dunque, per definizione stessa, aperta all’uomo, all’uomo in tutte le sue condizioni, fino a giungere a quel dolore che nessuno ha il coraggio di guardare. Quel dolore che è un abisso, a cui tuttavia siamo stati educati a guardare attraverso gli occhi della croce e della resurrezione. E da cui nasce la potenza di quell’altra parola, perdono. Parola che pare impossibile all’uomo.
Di contro ad ogni facile semplificazione, occorre distinguere e capire, certi che esiste una ricchezza preziosa, capace di darci l’opportunità di uscire dall’empasse in cui siamo caduti.
Il valore della lettera di Leiris, infatti, è nella testimonianza di una diversità presente, non ancora cancellata, di un vivere capace di vincere la morte e l’odio.
Per questo la testimonianza di amici mussulmani, amici cari di cristiani, come FarahdBitani o Wael Farouq, sono oggi preziose, perché percorsi rinnovati e in atto di una possibile novità per l’uomo, chiamato, ora come sempre, a rispondere alla domanda che ci accomuna tutti: che cosa regge di fronte alle sfide dell’esistenza?
La risposta al terrorismo passa per le vite di ognuno di noi, chiamati a non dimenticare, come vorrebbero che facessimo, questa domanda.
Il mio amico Arca, scrive su Facebook, riportando Pasolini…
Non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine, o con i discorsi, con gli scritti, con i versi: la lotta più dura è quella che si svolge nell’intimo delle coscienze, nelle suture più delicate dei sentimenti.
Pier Paolo Pasolini – “Vie Nuove” n. 51
28 dicembre 1961
Uniti nel tentativo di rispondere ci si riscopre assieme, pur da posizioni differenti.
È il voler il bene dell’altro in quanto altro. È l’anima dell’Europa.
Come dice Leiris, se saremo fedeli a questo, siamo già vincitori.
Con centinaia di amici, davanti al sagrato del Duomo di Rimini. Con noi il vescovo, arrivato trafelato da una manifestazione ufficiale con le autorità in piazza, … e tutti noi grati per la sua vicinanza e paternità.
Le parole di don Carron, i canti stupendi della tradizione cristiana, i volti attoniti e commossi, ma lieti e certi degli amici di sempre, di chi tante volte ti ha aiutato a ripartire.
E poi l’ascolto delle parole del papa. “È una terza guerra mondiale. Non è un gesto religioso, né umano. Non si può comprendere…”.
Infine il saluto, la preghiera (bellissima) e la benedizione del nostro vescovo Francesco.
Si esce e si torna, insieme a moglie, figlie e amici, Per strada si incontra qualche tuo studente… Parole intanto sul telefonino con chi da scuola chiede cosa si possa fare… Settimana prossima ci sarà molto da lavorare.
E si esce con una certezza. Noi non moriremo. Ci possono anche ammazzare, ma non moriremo.
Per grazia, non moriremo. Lieti nella prova.
Testo consegnato al rosario tenuto a Rimini poche ore fa:
Comunione e Liberazione si unisce alla commozione, al dolore e alla preghiera di Papa Francesco per le vittime degli attacchi di Parigi e per il popolo francese: «Queste cose sono difficili da capire. Non ci sono giustificazioni per queste cose, questo non è umano» (Papa Francesco al telefono con TV2000). Don Julián Carrón, presidente della Fraternità di CL, ha dichiarato: «Davanti ai nostri occhi c’è un’evidenza: la vita di ciascuno è appesa a un filo, potendo essere uccisi in qualsiasi momento e ovunque, al ristorante, allo stadio o durante un concerto. La possibilità di una morte violenta e feroce è divenuta una realtà anche nelle nostre città. Per questo i fatti di Parigi ci mettono davanti alla domanda decisiva: perché vale la pena vivere? È una provocazione che nessuno di noi può evitare. Cercare una risposta adeguata alla domanda sul significato della nostra vita è l’unico antidoto alla paura che ci assale guardando la televisione in queste ore, è il fondamento che nessun terrore può distruggere».
«Chiediamo al Signore di poter affrontare questa terribile sfida con gli stessi sentimenti di Cristo che non si lasciò vincere dalla paura: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia” (I Pt 2,23). Con questa Presenza negli occhi potremo guardare perfino la morte, a cominciare da quella di coloro che hanno perso la vita a Parigi, offrire ai nostri figli un’ipotesi di significato per stare davanti a queste stragi e a ciascuno di noi una ragione per tornare al lavoro lunedì mattina continuando a costruire un mondo all’altezza della nostra umanità, con la certezza della speranza che è in noi». Con queste parole don Carrón ha invitato tutti gli amici del Movimento ad aderire ai momenti di preghiera che saranno proposti dalle diocesi, in unità con il Papa e con tutta la Chiesa.
Le parole del papa
Santità quali pensieri e sentimenti davanti alla carneficina di Parigi ? “Sono commosso e addolorato. Non capisco ma queste cose sono difficili da capire, fatte da essere umani. Per questo sono commosso, addolorato e prego. Sono tanto vicino al popolo francese tanto amato, sono vicino ai familiari delle vittime e prego per tutti loro”.
Lei ha parlato tante volte di una terza guerra mondiale a pezzi ? “Questo è un pezzo, non ci sono giustificazioni per queste cose”. Soprattutto non ci può essere una giustificazione religiosa ? “Religiosa e umana. Questo non è umano. Per questo sono vicino a tutta la Francia che le voglio tanto bene”.
Leggo con sgomento, le vicende relative agli attacchi jhadisti di Parigi, nel cuore dell’Europa, nel cuore della Francia laica e democratica, il paese che maggiormente ha scommesso con altezzosa caparbietà sulla possibile costruzione di una società laica e asettica rispetto ad ogni fede ed ogni religione.
Mentre la Francia instillava il suo credo laico, combattendo le sue radici cristiane -ad esempio vietando categoricamente riferimenti ai simboli cristiani in scuole, ospedali e luoghi pubblici -, era poi non curante del montante crescere di una realtà nemica al suo interno. Lo stesso può dirsi dell’Italia e, forse, di ogni paese europeo.
Ora siamo in guerra, non nascondiamocelo più. Come ha detto papa Francesco, una strisciante Terza Guerra mondiale combattuta a pezzetti. Un pezzetto è qui tra noi. Gli eventi di Parigi sono stati anticipati dalla scoperta di una rete jihadista, che ha una sua sede anche a Merano. Qualcuno dovrebbe anche ricordarsi delle tristi vicende legate al mullah Krekar, e di come sotto giudizio finirono giornalisti e membri dei servizi segreti italiani, accusati di essere spie e infamati con tanto di pubblica gogna, per essere poi prosciolti da ogni capo d’imputazione, mentre si salutavano le doti dialoganti del Mullah, oggi rivelatosi come l’artefice di una pericolosa rete jihadista.
Queste constatazioni non tolgono la necessità di costruire un dialogo, semmai l’aumentano, ma tolgono ogni alibi a chi crede possibile la costruzione di una società (e di un dialogo) priva di identità.
La natura vive un horror vacui, sostenevano i medievali aristotelici. Se in natura, la fisica preferisce altre spiegazioni, di certo questo principio ha valore per la società umana. Se si costruisce sul vuoto, questo vuoto viene riempito da qualcuno. Se dimentichiamo le radici che hanno costruito la più appetibile società, oggi, del pianeta, raggiunta per questo da tanti popoli disperati, qualcun altro la estirperà per occuparne le terre e assorbirne le ricchezze materiali e spirituali.
I fatti di Parigi sono un monito a ritrovarsi uniti, a sostenere e recuperare la coscienza di quel che siamo.
È curioso che tutto questo accada mentre approfondivo con i miei studenti la tragedia nazista, vista con gli occhi dei ragazzi della Rosa bianca. Proprio ieri sera in venticinque a immedesimarsi con la vita e discutere sulla storia di un pugno di giovani non disposti a cedere al vuoto, a voler affermare un “pieno”, costituito dalla propria cultura, dalla propria coscienza, dalla propria sete di Assoluto. Curioso che proprio questa mattina a lezione, riprendendo i contenuti, insistessi sul fatto che quelle vicende non sono lontane da noi, sono battaglia quotidiana, sono la sfida di ogni giornata. Qual è il pieno che ci spinge ad andare al lavoro o allo studio ogni mattina? Abbiamo un pieno da difendere, per cui lottare, in cui sperare?
Gli eventi di Parigi sembrano portare l’inderogabile necessità della scelta di nuovo tra noi, sembrano sollevarci da ogni torpore e porci la domanda inquietante: tu chi vuoi essere? Tu chi sei?
Di fronte al male disperato di bande di aguzzini, tu che luce porti? Fuggi? Hai paura, impotente e tremolante? Oppure vivi un’esperienza invincibile?
Domanda pertinente, da porci l’un l’altro, che ulteriori notizie svelano terribilmente occultata e scientemente elusa da tempo. La vicenda del veto, posto a una classe di scuola elementare toscana, a visitare una mostra perché vi erano rappresentati crocefissi, l’astiosa distanza che nella scuola, nella cultura, nella società, si prende rispetto all’evento cristiano, come fosse nemico giurato dell’Europa e non suo padre, svela l’ottundimento del pensiero, incapace di riconoscere donde venga il pericolo oggi. Proprio come ai tempi di Hitler, allora spaventati dagli Ebrei, anche oggi nessuno si accorge da dove viene il reale pericolo e dove stanno le reali risorse.
Uno svuotamento dell’anima e della dignità di un popolo, quale quello perseguito da troppi decenni, è il vero pericolo che ci potrebbe rendere inermi di fronte alla violenza rinascente. Oggi come allora, non mancano i suonatori di violino, lugubre melodia dei campi di concentramento tedeschi, che coprono il dolore di chi soffre, per un gioco della società e dei potenti che, ora, tuttavia, si fa davvero pericoloso.
Occorre svegliarsi e tornare a guardare la realtà nella sua ingombrante portata di dramma e di lotta.
Chi può lo faccia subito. È tempo di svegliarsi dal sonno.
Sono allergico alle feste, ai convenevoli, a tante cose… Per cui il mio compleanno lo dice Facebook, mentre io di solito lo taccio.
Devo però riconoscere che l’augurio di un caro amico, Francesco Giuseppe Pianori, mi ha fatto lasciare tutto e mettermi a scrivere qui.
Ecco cosa ha scritto sulla mia bacheca Facebook:
Auguri di Buon Compleanno, Emanuele. “E mentre, lieve, l’ombra cede al chiaror nascente, fiorisce la speranza del Giorno che non muore” Passano gli anni, si susseguono i giorni e il compimento si avvicina. Il tempo non ci è nemico…
Un inno che ho recitato mille volte durante le Lodi, ma che non ho mai pensato di correlare a quel segno del passare degli anni che è il compleanno.
È proprio vero, il tempo non ci è nemico, è l’approssimarsi del compimento. “Noi siamo fatti per conoscere chi ci ha fatto”, cosa mai può farci paura? E posso dire con orgoglio che adoro invecchiare, mi piace percorrere questa strada, più in fretta possibile, certo della meta e gustando ogni passo, anche quelli dove inciampo brutalmente.
E così anche scorrere semplicemente le centinaia di auguri sulla bacheca, uno ad uno, alcuni di sconosciuti, altri di carissimi amici, tanti dei propri alunni, fa percepire (grazie al post di Pianori) la verità di quelle parole del don Gius, dedicate al suo amico Angelo. L’unico vero significato lieto del festeggiare il proprio compleanno.
«Carissimo, è la prima volta ch’io ti faccio gli auguri per il tuo compleanno. È la prima volta che ne so la data. E nel compiere questo lieve atto di amicizia provo una gioia così grande, ch’io mi meraviglio di me stesso. Immagini se tu non fossi nato, quale meravigliosa cosa di meno ci sarebbe al mondo? Una meravigliosa cosa che c’è perché è tutta un dono. Il compleanno è il giorno in cui fisicamente si sente l’amore di Dio che ci ha fatti, potendoci non fare: «prior dilexit nos»: ci si sente «fatti», con stupore. È il giorno in cui si adora nostro papà e nostra mamma: lo strumento sensibile. Crea tante altre cose meravigliose! È un augurio così violento, quasi lo facessi a me stesso. Sento la tua gioia, di trovarti tra i tuoi monti. Auguri anche di goderti tanto anche questi».
C’è qui tutto il segreto del fascino della filosofia che insegno; mi sovviene la scoperta della nozione tomista dell’ esse ut actus, della perfezione dell’essere nel suo semplice porsi, una ricchezza infinita nel semplice atto di esistere.
Lieti perché ci siamo. Ecco perché è bello farsi gli auguri.