La terza guerra (civile) mondiale

In questa strana estate, che si macchia di sangue in maniera crescente, occorre forse riarticolare la profetica espressione di papa Francesco sul tempo odierno, già pronunciata nel 2014 e poi ripetuta più volte. Disse che siamo in guerra, una “guerra mondiale combattuta a pezzi”. Ora ce ne stiamo accorgendo tutti. Ma oggi scopriamo anche che questa guerra non è combattuta solo da organizzazioni terroristiche o di impronta totalitaria, quale l’ISIS (un totalitarismo che prende le forme dell’ islamismo radicale, ma che possiede assonanze impressionanti con quello marxista e nazista insieme), bensì dal vicino di casa, dall’immigrato dei sobborghi delle grandi città, oppure dai giovani bene che per un motivo o per l’altro si trovano in totale scontro con la nostra civiltà. Il collante dell’islamismo è ben presente, ma pesca da origini complesse e che ultimamente portano a un vuoto abissale, da cui l’uomo ha cercato sempre, maldestramente, di difendersi.

È la guerra del vicino di casa, di volo in aereo, di quartiere.

Ecco perché  forse dovremmo chiamarla, guerra civile mondiale. Non per toglierle il suo significato geopolitico, ma semmai per indicare il carattere interno all’Occidente di questo conflitto assurdo, così come sono state d’altro canto definite anche le due guerre mondiali (vedi il saggio E. Nolte La guerra civile europea. 1917-1945 –  Nazionalsocialismo e bolscevismo).

Vi è anche un altro motivo per cui sembra opportuno utilizzare questa denominazione.

Il secondo motivo è adombrato nelle parole di ieri del papa in prossimità della GMG che si tiene oggi e nel prossimo fine settimana con milioni di ragazzi a Cracovia. Così si è espresso: “Circa quello che chiedeva padre Lombardi, si parla tanto di sicurezza, ma la vera parola è guerra. Il mondo è in guerra a pezzi: c’è stata la guerra del 1914 con i suoi metodi, poi la guerra del ’39-’45, l’altra grande guerra nel mondo, e adesso c’è questa. Non è tanto organica forse, organizzata sì non organica, dico, ma è guerra. Questo santo sacerdote è morto proprio nel momento in cui offriva la preghiera per la chiesa (il giornale La Notizia scrive “per la pace”, ma le due preghiere coincidono – ndr), ma quanti, quanti cristiani, quanti di questi innocenti, quanti bambini vengono uccisi. Pensiamo alla Nigeria – ha esortato – ‘ma quella è l’Africa’. No, è guerra, non abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra perché ha perso la pace.” (cit. da Ansa)

Lo stesso aveva detto padre Ibrhaim a Rimini (vedi il filmato della conferenza assolutamente attuale)  denunciando anche, con candore francescano ma senza mezzi termini, le responsabilità degli USA e dell’Europa, fino ad esprimersi “le vostre tasse, una parte di questi soldi finisce nella mani dell’ISIS”. (Padre Ibrahim poi, al minuto 6 e 30 circa, nega la denominazione di guerra civile, ma per allargarne l’orizzonte a più Stati, intendendo che ciò che succede ad Aleppo non è solo guerra civile interna ma guerra tra più potenze. Noi qui confermiamo l’orizzonte mondiale, ma intendiamo dire che è “guerra civile” per la sua capillarità e quotidianità. Dunque è una guerra mondiale, ma civile, ovvero fatta anche da semplici cittadini, spesso sbandati o problematici, cellule indipendenti e autonome che rendono capillare e ancor più devastante l’impatto psicologico sull’Occidente).

Insomma: il pericolo viene dal vicino di casa e dall’ipocrisia dei potenti, che utilizzano un forma ideologica di Islam che, come andiamo da tempo ripetendo, nel suo insieme deve crescere, approfondirsi e chiarirsi.

Non è questa dunque una guerra civile, che prende forme polivalenti e che si maschera dietro a motivazioni religiose? (vedi sempre papa Francesco ieri)

Di fronte a questa situazione, del tutto nuova e di cui realisticamente siamo chiamati a prendere atto, ci sono due atteggiamenti del tutto errati, seppure contrapposti. 

All’indomani del terribile attentato ad Orlando dell’ 11-12 giugno, all’interno di un noto locale gay, i richiami de Il Foglio ad identificare l’evento quale una espressione di terrorismo islamico, a fronte del tentativo invece di deviare l’attenzione sul problema dell’abuso delle armi nel paese oppure verso il problema dell’omofobia, erano giusti (perché si sono udite parole, anche nel discorso di Obama, del tutto fuorvianti) ma insufficienti, come poi ha dimostrato lo svelarsi dell’identità dell’attentatore, decisamente complessa e tutta da decifrare (omosessuale egli stesso e così riconosciuto da compagni di gioventù, poco religioso, frequentatore del locale fino a poco prima e di recente avvicinatosi ad un Imam radicale). All’ analisi del Foglio che definisce i fronti come nettamente contrapposti e dunque facilmente individuabili in due schieramenti che devono necessariamente fronteggiarsi in forme lineari, manca qualcosa che invece pare essenziale.

Allo stesso modo la reazione opposta, ben più grave perché decisamente tendenziosa ed espressione di uno degli elementi del male che ci attanaglia, de Il Fatto quotidiano, dimostra un’altra via del tutto errata. Il Fatto ha pubblicato il 13 giugno (stessa data dell’articolo de Il Foglio) un video di un’omelia di una sacerdote italiano, titolando «“Gli omosessuali meritano la morte”. L’omelia del parroco contro le unioni civili».  Errata la pubblicazione, perché pubblicarla il giorno dopo gli eventi di Orlando (l’omelia era del 28 maggio, due settimane prima) non è certo una scelta neutra o per dovere di cronaca ma vuol far sorgere nel lettore questo giudizio: “vedete, i cristiani sono come gli islamici, fomentatori di violenza; il problema è eliminare ogni religione fonte di ogni regresso”.

Ma la questione si intreccia ancora di più in un intrigo di torti e ragioni, dove chi ha realmente torto (l’ideologia del nulla) trova ragioni per sostenersi in improbabili battaglie di civiltà (a proposito, questo fine settimana ci sarà il Gay Pride a Rimini. Tanto per gradire) in cui il nulla delle forme leggere leggere, prende in carico su di sé diritti e rispetto della persona, in una mescolanza di elementi in cui l’eterogenesi dei fini (e della nostra fine) la fa da padrona.

Infatti, occorre aver il coraggio (tutto cristiano) di dire che errati sono anche i toni dell’omelia che hanno permesso di titolare al Fatto in quel modo.

Un’operazione di menzogna, quella del Fatto Quotidiano, è indubbio.

Sia  perché invece è intrinseco al cristianesimo la costruzione della pace, come in questo secolo XX e XXI sta emergendo sempre più chiaramente – in particolare grazie agli ultimi pontefici da Giovanni Paolo II in poi-, portando nuova giovinezza al fatto (avvenimento) cristiano (questo sì, veramente quotidiano e reale).

Sia perché quanto ha pubblicato il Fatto Quotidiano, nasce da un’assolutizzazione ed estrapolazione di una frase, a sua volta de-contestualizzata dal parroco e utilizzata da lui stesso in maniera piuttosto goffa e impropria.

Proviamo ad analizzare. Il Fatto titola virgolettando “gli omosessuali meritano la morte”, attribuendola al parroco (o a San Paolo, comunque al cristianesimo). Il parroco cita San Paolo che nella lettera ai Romani cap 1,26-ss.  afferma “E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose -si parla di ogni deviazione sessuale, ndr – meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa”.  Il Fatto gioca sporco, correlando la vicenda Orlando (data di pubblicazione), alle vicende Unioni di fatto e legge del governo Renzi, complice la verve del parroco, ed entrambi bypassano  la necessità di contestualizzare e comprendere il significato di quel passo (ad esempio di quale morte si parla? Mai sentito parlare di “morte dell’anima” che riguarda ogni peccato? E che c’entra la morte di omosessuali per terrorismo con la morte dello spirito ovvero la dannazione eterna?).

Insomma il parroco ha ingenuamente steso un tappeto di velluto ai fomentatori del nulla, coloro che sta combattendo anche lui. E un video di tal genere è oggettivamente un’ottima arma per chi porta avanti alcune tesi (fede=violenza=terrorismo fondamentalista=omofobia=cattolicesimo, ecc. ecc.).

Ma questo passaggio deve far riflettere su quanto è in gioco oggi.

Da una parte vi sono  i fautori del nichilismo che stracciano i principi secolari che hanno costruito questa nostra benedetta società, ancora riconosciuta come appetibile, e che di qui (dal cristianesimo e dal suo senso profondo della persona – che appunto è spirito e non solo istinto, vedi San Paolo-) è nata. Un nichilismo che si trova assai più vicino agli attentatori di quanto non appaia.

Dall’altra vi sono i cristiani che devono fare un passo, che sono chiamati ad essere più coraggiosi e consapevoli di ciò che portano. È quanto sollecita, con incredibile lucidità, papa Francesco.

Il coraggio dei cristiani oggi, infatti, non consta nell’alzare battaglie improbabili, pena l’essere simili al don Chisciotte di Cervantes, che si ritrova a combattere contro i mulini a vento. Il coraggio vero oggi, e che chiederà a qualcuno o a tanti il martirio,  è il coraggio della personalizzazione della fede (Carron). È il coraggio di quanto ha comunicato padre Ibrahim, testimoniando ciò che sta facendo ad Aleppo. In mezzo alla guerra e all’Isis, attorniato da fedeli che andando a Messa rischiano la morte (letteralmente, e l’omicidio del sacerdote durante la Messa è un presagio fosco per l’Europa), padre Ibrahim costruisce. Semplicemente costruisce tutto quanto è umano e cristiano. Perché i due termini, lo si voglia ammettere oppure no, coincidono. Giovanni Paolo II nel 1983 in Università Cattolica a Milano disseTutto ciò che contrasta con quanto vi è di autenticamente umano, contrasta parimenti col cristianesimo. E, viceversa, un modo distorto di intendere e di realizzare i valori cristiani ostacola altrettanto lo sviluppo dei valori umani in tutta la loro pienezza. Nulla di genuinamente umano è chiuso al cristianesimo; nulla di autenticamente cristiano è lesivo dell’umano. Nel messaggio cristiano trova arricchimento, sviluppo, pieno chiarimento la genuina sapienza umana.

Espressione (nulla di ciò che umano è contro Cristo, nulla di ciò che è autenticamente cristiano è contro l’uomo) che ascoltai, da studente, accovacciato nei chiostri della Cattolica  e che, oltre a divenire un ricordo indelebile,  è divenuto programma di studio, di lavoro e di vita.

In sostanza oggi è urgente la risposta alla domanda: cosa è il cristianesimo?  Cosa ha di buono e vero dopo duemila anni?  Credo non sia facile desumerlo dalle parole di quella omelia. Certamente vanno evitati i duplici errori, di cui sopra.

E così mentre le strategie “belliche” dell’occidente sono macchiate da terrificanti ipocrisie (si veda l’intervista sul Sussidiario a Gian Micalessin) che generano morte, la speranza viene dal virgulto di una fede che procede ed è viva nella storia, come Giuseppe Frangi interpreta  la GMG attualmente in corso.

Interessante poi vedere come l’intuizione della GMG sia già presente in quel discorso di Giovanni Paolo II a Milano, quando uscendo salutò gli studenti.

“Miei carissimi studenti, vi ringrazio per la vostra presenza, per la vostra solidarietà, una parola diventata direi internazionale, o almeno italiana (allora in tanti lì presenti avevamo foulard e spillette con la scritta Solidarnosc, come vicinanza agli operai polacchi che lottavano contro il regime comunista). La incontro nei diversi posti della vostra e nostra patria, l’Italia. Allora vi ringrazio per questa solidarietà, e poiché siamo già verso la fine del mese di maggio, vi auguro anche i successi possibili nelle prove che vi attendono, i cosiddetti esami. E vi lascio per il momento con la speranza di incontrarvi di nuovo, non so dove. Ma gli studenti, i giovani, si incontrano dappertutto. Dappertutto sono le università, dappertutto sono gli studenti, dappertutto sono i giovani e dappertutto è la speranza dell’avvenire” (qui il discorso integrale al corpo docente)

Di qui si riparte, per la costruzione della civiltà del nuovo Millennio. Non da polemiche vuote (esse stesse figlie del nichilismo), funzionali solo al “nemico”. Ma dalla speranza che risiede nella risposta al cuore dei giovani e dell’uomo, pieno di quel desiderio di infinito che ti porta ad uscire da te (dalle tue piccole o grandi idee) e a riconoscere che l’altro è un bene. Oggi, in un momento dove ci vogliono far credere che  l’altro – anche il passeggero al tuo fianco o il passante in strada – sia un nemico, c’è bisogno urgente di questo riconoscimento.

 

Avevo intervistato un santo

È arrivata subito, ed ha riempito i mass media, la notizia della morte di Vittorio Tadei, una delle ultime figure, ancora viventi, di grande imprenditore della cultura cattolica. Uno di quelli che hanno costruito l’Italia negli anni ’50, per capirci. Un uomo di tempra, capace di concretezza e di umanità, di spirito pratico e di grande fede. Se l’Italia crebbe oltre ogni aspettativa e smise di essere un’ “Italietta”, almeno parzialmente,  in buona parte lo dobbiamo a persone di questa stoffa. Una testimonianza, quella di Vittorio, che ancora oggi lascia sentire la sua voce. La Teddy, da lui fondata, continua ad essere un faro nel mondo dell’economia locale e internazionale. E il metodo, raccontano le figlie, è sempre quello segnato da Vittorio.

Nel 2011 ebbi l’opportunità di intervistarlo. Allora dirigevo Oltre, periodico della Karis Foundation, che uscì per qualche anno. Tra le notevoli interviste che abbiamo avuto occasione di fare (Stefano Zamagni, Wael Farouq, Waters…) , quella di Vittorio è una delle più impressionanti. Titolai il pezzo Oltre Steve Jobs, poiché mi parve chiaro che Vittorio possedeva una lungimiranza che faceva pensare ad un visionario, come lo era Jobs, ma, allo stesso tempo, l’umanità e il senso delle cose che da lui promanava erano decisamente un passo oltre.  Scrissi allora, introducendo il pezzo, Non facile intervistare Vittorio. Lui ama i fatti e non le parole. Tuttavia le parole che escono dalla sua bocca hanno un peso specifico enorme. Semplici e dirette, nascondono anni di esperienza, di tormento e di creatività, di semplicità e di fede. Uscito dall’intervista ho una percezione netta e chiara, che riempie l’animo di positività e che però non posso qui esternare. Posso solo definirla così: ho conosciuto un po’ meglio una persona che non si può non incontrare”.

Allora non mi sembrava delicato (vista la riservatezza di Vittorio) esprimere  quel pensiero che condivisi subito con l’ex alunno Karis che lavorava (e lavora) da lui e che aveva insieme a me condotto l’intervista, Andrea Arcangeli. Uscito guardai Andrea  e gli dissi, “Ho intervistato un santo!”. Credo che ora lo si possa dire, senza dare a questa espressione una connotazione spiritualistica, e neppure di stampo “ecclesiastico”, quasi da santo del calendario. Non ho nessuna competenza in tal senso. Ma se il santo nella chiesa è colui che si affida totalmente a Dio, al Mistero presente e prossimo nella storia dell’uomo, ebbene Vittorio trasudava questo abbandono. Un abbandono che fa venire in mente l’artista Bill Congdon, recentemente riscoperto a Rimini da tanti, grazie ad una iniziativa del Portico del Vasaio.  Anziano, a pochi giorni dalla sua morte, fu intervistato da Red Ronnie e parlò in termini impressionanti dell’ abbandono in cui consiste tutta la vita. In un bell’articolo di Laura Staccoli, si percepisce che la radice della grandezza di queste due vite, sta nella ricerca di ciò che realmente  riempie la vita e nella scoperta che questa ricerca consiste in un abbandono nelle braccia di un Altro che attende. (E nel lettore forse sovverrà qualche richiamo all’anno della Misericordia, ma tutto è uno, la vita è una e nella vita di un grande uomo sta la storia intera, anche nei suoi passi più recenti).

Vi propongo qui di seguito, pressoché integralmente, quell’intervista a Vittorio. Era l’occasione del 50° della Teddy (bellissimo il suo discorso tenuto alla convention dell’azienda e che potete leggere qui, mentre seguendo questo altro link potete vedere il video girato in quell’occasione e che nella parte finale riprende proprio Vittorio mentre parla).

Da sinistra: Vittorio Tadei, Giovanni Gemmani e don Giancarlo Ugolini
Da sinistra: Vittorio Tadei, Giovanni Gemmani e don Giancarlo Ugolini in occasione dell’inaugurazione della sede presso la Comasca della Karis Foundation.

Occorre chiarire anche il filo diretto che lega Vittorio, sempre attento all’educazione dei giovani, con le scuole della Karis.

Insieme a Giuseppe Gemmani (figura che per tanti aspetti presenta similitudini con Vittorio) acquistarono la colonia Comasca e la trasformarono in un edificio adatto per le scuole Karis, accollandosi tutti i costi. Di questi gesti di assoluta gratuità ed utilità sociale e culturale, Vittorio ne ha compiuti a centinaia. Erano la sua quotidianità.

 

 

 

 

Da Oltre n. 2 del marzo 2012

Vittorio, qual è il segreto della Teddy?

Sono le persone a fare la differenza. Sempre. Noi scommettiamo sulle persone. Gli uomini sono tutti uguali, perché immagine di Dio, ma io sono sempre stato affascinato per i tipi appassionati, appassionati alla vita.

Sono 50 anni di Teddy. Siamo in una crisi terribile eppure siete in crescita. Dove è il segreto?

Bisogna sempre cambiare. Noi abbiamo già iniziato un cambiamento importante. Per far questo occorre che chi lavora in azienda sia partecipe dello spirito che qui si vive, che ne sia consapevole così da poter dare il suo contributo unico e irripetibile. Ognuno può e deve essere imprenditore di se stesso. Se è così allora sarà capace di distaccarsi dalle forme vecchie per crearne di nuove, sarà in grado di affrontare i problemi che sempre, di volta in volta, si parano innanzi.

Ma come si fa a diventare imprenditori di se stessi?

Occorre lavorare con un desiderio grande. Lavorare per lo stipendio non basta. É necessario ma non basta. Non basta all’azienda, che ha bisogno di uomini e non di dipendenti, ma non può bastare neppure personalmente. Non rende felici. Questo desiderio di vivere un sogno grande è parte del segreto della Teddy.

(Qui interviene il nostro ex alunno, Andrea Arcangeli)

“Vittorio ti cambia. Quando entri qui scommette tutto su di te e sei responsabilizzato. Ti cambia e ti aiuta a giocarti con tutto te stesso nel lavoro che fai. È accaduto a tanti qui dentro”.

Ma il punto vero è – riprende con energia Vittorio Tadei – che noi abbiamo un Socio di maggioranza tale che la nostra storia non puó andare male. Finché saremo legati a Lui sono certo che andremo avanti per altri 50 anni, anzi 500.

Socio di maggioranza?

È Gesù. Io sono fiducioso, perchè vedo che chi ha preso in mano oggi l’azienda ha fede come e più di me. Allora sono tranquillo. Non verrà a meno il Socio di maggioranza.

E qui tocchiamo il fulcro della questione. Capiamo meglio il “sogno” della Teddy, il pensare in grande, ecc. A dispetto di chi ritiene che fede e affari siano due entità incompatibili, Tadei non intende il riferimento alla fede in chiave spiritualistica o moralistica e chiarisce…

La nostra azienda è portata da un Altro. La mia vita intera è sempre stata portata da un Altro. Io non ho fatto altro che seguire quello che mi veniva chiesto. È Lui che mi ha fatto capire le cose essenziali della vita, tra cui quella principale ovvero la cosa che ti fa contento. Non ti fa contento il denaro o il successo. Io ho capito sempre più che puoi essere contento solo in relazione col Padre eterno. Tutto il resto passa e lascia l’amaro in bocca. Abbiamo bisogno dell’eterno. Questo ci vuole per fare una buona azienda.

Ci ha parlato di relazione con il Padre eterno e di essere portati da Lui. Ma come riconoscerlo? Come riconoscere quello che è chiesto?

Dai fatti. Le parole non servono, bisogna lasciar parlare i fatti.

Ovvero?

Le vicende che accadono nella vita ti chiedono sempre qualcosa. Uno che ha bisogno, l’altro a cui devi dare fiducia, l’incontro con culture differenti… Quel che ti succede, ti parla e chiede una risposta… come la vita di mio figlio Gigi, che mi ha insegnato che occorre sempre rispondere ad un bisogno. (il figlio di Vittorio, Gigi, è morto precocemente e tragicamente ndr).

Perché Gigi è stato così importante?

Gigi è fondamentale per la Teddy, perché ci obbliga a porci la domanda “a cosa serve tutto?” Inoltre ho capito, grazie a lui, quella che è la vera utilità delle persone, che non coincide con quello a cui servono. Gigi, che ci aiuta ancora da lassù, ha portato la dimensione della gratuità in azienda. Io ho imparato tutto da lui e ringrazio don Claudio per come lo ha accompagnato.

E questo é il metodo che ha applicato in azienda?

Nell’azienda e nella vita. Qui abbiamo tanti che vengono da fuori, da situazioni difficili e che ora sono colonne portanti. Nella vita io ho ascoltato i fatti. In realtà io non sono affatto adeguato rispetto a quel che vedo essere accaduto. E sono grato perchè malgrado non sia in grado di farlo, sono stato scelto. Io non ho scelto nulla ma sono stato scelto.

di Certo nella vita sono accaduti a me alcuni passaggi più significativi di altri. In particolare ricordo due frasi. La prima l’ho letta quando avevo 13 anni, nella mia casa bombardata di via Abruzzo. Era il 1948 e camminando tra le macerie, ho trovato un libro aperto dove ho letto queste parole: “L’uomo è amministratore dei beni che dispone e non padrone”. Questa frase per me è liberante. La seconda frase che mi ha guidato in questi 50 anni di storia l’ho letta sul muro di un convento vicino a Pistoia. Ce l’ho ancora stampata negli occhi: “A cosa ti serve conquistare il mondo intero se poi perdi te stesso?” Non capivo quelle frasi. Non avevo nulla, non guadagnavo nulla. Ma ne avvertii il fascino. Compresi che nella vita il problema è solo uno: quello di essere felice, di trovare ció che ti fa felice.

Sembra impossibile che quanto lei ci racconta possa però accadere in un’azienda, possa tenere in piedi un’azienda da quasi 400 milioni di euro di fatturato…

Invece è così. Le faccio questo esempio. Nel 1988 ho preparato la successione alla guida dell’azienda. Io non volevo si creassero frizioni e conflittualità. Doveva guidarla chi era capace di farlo, qualsiasi cognome avesse (Tadei o non Tadei). C’erano due o tre che erano in grado. E io avevo in mente chi, ma non volevo si accendessero difficoltà, che qualcuno ci restasse male. Senza che io lo dicessi, quello che avevo in mente è stato indicato da più di un top manager dell’azienda. In particolare due di loro avrebbero potuto ambire alla guida, ma indicarono lui, Alessandro. Furono capaci di quella volontà di guardare i fatti e la realtà di cui le dicevo prima, perchè effettivamente Alessandro ha una marcia in più. E lui peraltro vive una fede vera. La Teddy va avanti per la fede. Occorre ricordarselo sempre.

Siamo su un giornale di una scuola. Cosa vorrebbe dire ai giovani?

Che cerchino ciò che li fa veramente contenti. Devono sempre inseguire questo ideale. Niente di meno puó essere adeguato loro. E la felicità è data dal seguire Lui. Sempre.

Uscendo, Andrea mi mostra alcuni pannelli in cui sono riassunte le opere di educazione e di assistenza sostenute o direttamente create dalla Teddy. È una sequela impressionante di luoghi e volti, alcuni legati a don Oreste Benzi, altri a Comunione e Liberazione. Nel silenzio, senza alcuna ostentazione, la Teddy opera nella società secondo principi che allargano il cuore e gli orizzonti. E tutto ciò, grazie ad un uomo che ha accettato Chi l’ha scelto. Il tutto dentro una semplicità disarmante, capace davvero di vincere la crisi, su cui Vittorio ci dice “ce ne sono state tante. La crisi significa solo che dobbiamo fare meglio e di più. D’altra parte con un Socio di maggioranza così, chi ci può fermare?”.