Quell’esperienza della croce, a noi sconosciuta

Silence è un capolavoro. Due ore e quaranta incollati allo schermo, senza accorgersi del tempo che passa. Un alternarsi di immagini e volti che scavano nell’anima. Perché nel film non solo é  immortalata la storia dei padri Gesuiti in missione nel Giappone del 1600 e quella del loro popolo – commovente per dignità e statura, nella semplicità e devastazione delle persecuzioni – ma la storia di ognuno di noi. Di ogni spettatore.

Protagonista del film, infatti, é il traditore Kichijiro, fedele fino all’ultimo e traditore fino all’ultimo. Lui, così spregevole, è l’immagine dell’uomo nella sua più profonda e terribile verità. Così, la vita di ogni personaggio del film è sempre sul filo della caduta, del non saper che fare e che scegliere, del non sapere dove sia il bene e il male, del vuoto che sembra sostituire il pieno che Dio ha promesso e lasciato intuire con inaudita certezza.

Si parla del dramma di ogni uomo impegnato seriamente con la propria esistenza.

Lo spettatore, dunque, anche colui che non sperimenti una vita cristiana, si trova pienamente espresso in quelle pur lontane situazioni. E ne prova un fascino infinito.

Raramente mi é capitato di vedere un film più mio, più espressione del dramma della mia e nostra esistenza. D’altro canto la persecuzione, così crudamente descritta, é il nostro futuro, e forse anche un po’ il nostro presente. Ma su questo torneremo a parlarne  più innanzi.

Occorre affrettarsi al cinema, per non perdere questa straordinaria metafora della vita che, non a

Padre Spadaro, a destra, e Martin Scorsese mentre dialogano intorno al film Silence. Nell’intervista Scorsese racconta come questo film sia stato una Grazia per lui

caso, è frutto di una riflessione lunga una vita, come Scorsese chiarisce nella lunga ma bellissima intervista al gesuita Antonio Spadaro.

Provo a costringere l’infinita gamma di sfumature e di spunti che il film suscita in alcuni pochi passaggi che mi sembra meritino di non essere perduti e che credo siano decisivi per l’uomo di oggi.

Occorre dire che, così come amici mi hanno saggiamente consigliato, è decisamente opportuno lasciarsi perturbare privi di qualsiasi condizionamento dal film, nella sua inquietante e fascinosa “ambivalenza” (così la croce pare a noi, “cristiani da pasticceria” – parole del papa che mi ha ricordato un’altra amica dopo la visione del film).  Per questo è consigliabile non leggere le pagine che seguono, se si è prossimi a vedere il film. Una volta visto il film è interessante il confronto, assai più che con queste parole, con la breve ed efficace recensione di Autieri, per le chiavi di lettura suggerite, e con un bell’articolo  sulla rivista mensile Tracce (articolo purtroppo non disponibile online)  per i riferimenti alla storia della chiesa in Giappone, di un tempo e di oggi, espressi intervistando il gesuita De Luca. Uma chiesa, come egli dice “che si mantenne viva, segretamente, benché non ci fossero né chiese, né preti”. Saranno i missionari francesi, nell’Ottocento, a scoprire le comunità segrete dei kakure kirishitan (“cristiani nascosti”). Uno sguardo alla storia della Chiesa cattolica in Giappone, anche solo sulla consueta wikipedia, è decisamente interessante.

Proviamo allora a fissare alcuni punti, consapevoli che potrebbero essere infiniti…

1) Dio parla nel silenzio. É notevole come il protagonista del film sia il cuore dell’uomo di ogni tempo. Un cuore che desidera l’infinito e che lo tradisce ad ogni passo. L’abiura non é solo quella continuativa di Kichijiro, o di padre Ferreira, o degli  altri padri. Ma é anche quella di chi, come padre Garupe, inizialmente identifica con la forma del martirio la propria fede, ridotta a rabbioso tentativo di coerenza. Una riduzione che nasce dalla fragilità di padre Garupe rispetto al più sereno e “forte” padre Rodriguez, che tuttavia, in una sorta di ribaltamento di posizioni, subirà anch’egli prove impossibili per un uomo. L’amore, pacato e sofferto, per quella gente -corpo di Cristo, chiesa nascente- di padre  Rodriguez é esemplare e supera perfino la “forma” del martirio, suggerendo perfino ai kirishitan  di accettare la formale abiura, mentre Garrupe, rabbioso e disperato, grida che non abiurino. La fede non ha forme predefinite. Nemmeno la forma suprema: il martirio.

2) E tuttavia è evidente che il progetto di  potere dell’inquisitore giapponese è quello di estirpare nell’uomo qualsiasi speranza, spingendo all’accettazione di una natura che sembra non risparmiare l’orrido orizzonte della morte ad ogni uomo (come attesta il vecchierel bianco di leopardiana memoria ). L’inquisitore afferma, con cinico distacco, che in Giappone non può crescere nulla di nuovo, che non vale la pena portare una fede per cui le persone saranno destinate a dare la vita, che nella palude di quella tera nulla può mettere radice. Anche la chiesa nascente, pur ricca e feconda (300mila persona in pochi decenni) sarà fatta scomparire.

L’inquisitore

È una cultura della morte, ma ordinata e dotata di un senso compiuto, circolare, che non si apre a nulla nel rischio che spezzi il ciclo della natura. Il Cristianesimo deve sparire perché accende la speranza di rompere questo cerchio e dunque è ancor più pericoloso di Portoghesi, Spagnoli, Olandesi, con i loro interessi economici. Il potere comprende che deve distruggere quel principio di speranza, se vuol mantenere se stesso così inossidabile e rassicurante, capace di organizzare la disperazione.

3) È incredibile l’efficacia della raffigurazione dei padri dopo l’abiura. Non c’è traccia di umanità nei loro volti e nelle loro parole. Freddi, distaccati. Anche infervorati nel difendere le proprie posizioni ma sfuggenti negli sguardi.  L’abiura é terribile, costringe l’uomo a soffocare se stesso, ovvero il desiderio più autentico del proprio cuore, acceso dalla fede cristiana. È una forma di martirio essa stessa. Fiorisce il corpo, ripulito, disteso, e nei volti non c’è più alcun dramma. Ma l’io è morto.

4) Eppure il cuore dell’uomo grida, afferma, quel Dio tradito e, al di là di ogni situazione, Dio parla, opera,  pur misteriosamente e nell’apparente sconfitta. Padre Ferreira (nella verità storica poi si ricrede e viene accolto nuovamente tra i Gesuiti) nomina inavvertitamente il nome di Dio. Se ne avvede padre Rodriguez, ma lui nega. Anche l’abiura, il tradimento e la zelante opera di collaborazione con l’inquisitore giapponese, scientificamente alimentata da una impeccabile strategia da parte del potere, non riesce a cancellare l’azione misericordiosa di Dio, resa particolarmente vivida e presente dal desiderio di pentimento  da parte del peccatore Kichijiro.  Malgrado l’abiura e la nuova vita padre Rodriguez resta padre, è “costretto” ad essere padre.

Scorsese con papa Francesco

E Scorsese ha voluto aggiungere al libro da cui il film è tratto (il romanzo di Shusako Endo, che Scorsese ha letto nel 1988 e che ha scavato nella sua vita) una sorpresa sconcertante, proprio nella scena che descrive la fine dell’esistenza di padre Rodriguez. Una geniale aggiunta di Scorsese che conferma le parole già da espresse  da Rodriguez , “nel silenzio ho sentito la tua voce”.

É misterioso e vertiginoso come Dio possa parlare anche nel fondo del peccato e del tradimento, nell’oscurità della Sua sconfitta. Ma non é forse questa la fede cristiana nella sua intima essenza, quella fede invincibile per il mondo, ovvero la fede nella croce? La “pace che il mondo irride ma che rapir non può?” (Manzoni).

La certezza che nulla è abbandonato – neppure l’abbandono più terribile e infamante – dall’abbraccio di Dio è il grande tema che il film ripropone (senza la pretesa di essere un impeccabile trattato teologico) e che oggi ci conviene guardare con grande attenzione.

Si aprono tempi, infatti, in cui sarà chiesto ad ognuno di prendere posizione a fronte di una società in cui tutto, ma proprio tutto, è contro il cristianesimo. Non ci saranno, presumiamo, le fantasiose torture giapponesi. Tuttavia una forma di ostracismo e rinuncia a pezzi di potere, a pezzi di prestigio sociale,  in nome della fede – nuda, pura – già è richiesta oggi. E continuamente la Chiesa sta richiamando la giusta battaglia per il cristiano di oggi, correggendo sottolineature sciagurate che vanno in direzioni apparentemente ragionevoli.  In tal senso è sufficiente rileggere le Ultime conversazioni di Benedetto XVI, dove il papa emerito si dichiara  preoccupato non per il calo di fedeli o di vocazioni, ma per la perdita della fede.

Ma cosa è questa fede, questo unico punto che conta per la chiesa universale?  Non forme predefinite (né intimistiche, né di militanza esteriore), ma il riconoscimento (fisico, reale, in luoghi che aiutino tale coscienza) del Dio che ci abbraccia ora e sempre, e dunque la possibilità di una vita nuova da subito, anche nella più devastata e lontana situazione che possiamo vivere. Anche in questo inferno interiore di cui siamo terribilmente protagonisti e artefici noi uomini dell’Europa del XXI secolo. Un inferno che, per certi aspetti,  ha poco da invidiare alla vita di fango e di stenti dei kirishitan giapponesi del 1.600.

Bauman e gli uomini connessi ma non soli

Come sappiamo, è morto, all’età di 91 anni, Zygmunt Bauman, il grande intellettuale che, seppure già di ampia notorietà, in questi ultimi tempi ha dimostrato una capacità di sguardo profetico rispetto alla società occidentale così acuta e pervicace, da poter raggiungere il grande pubblico. Notevoli, in particolare, le assonanze che Bauman ha avvertito con le parole e la figura di papa Francesco, uomo visto come lanciato oltre la crisi del post moderno.

Quello che mi colpisce in Bauman è il fatto che il vecchio “vizio” della filosofia occidentale (conoscere l’ “intero”), sembri rinascere, arricchito da una sensibilità per i movimenti della società, fin nei suoi aspetti più legati al costume, alla vita quotidiana, alle dinamiche economiche o di evoluzione tecnologica, con insolita freschezza.

La sua analisi della (ovvia ma drammatica) fragilità dei rapporti tra uomini senza legami, perseguita come progetto sociale ed oggi potenziata dal virtuale, già l’avevo percepita come illuminante, in una sua intervista collocata alla fine di un drammatico documentario relativo alla vita in Svezia (Qui puoi leggere il mio articolo, mentre purtroppo il filmato è stato rimosso dalla Rai).

Ma leggo proprio questa sera, al mio rientro dopo un’appassionata chiacchierata, a cena con amici, su temi vari, l’articolo di commiato di  Repubblica, che  propone, all’interno della pagina in rete, un’intervista video (in inglese con sottotitoli in italiano) e che potete leggere e vedere qui. Nel filmato di 10 minuti, il grande tema della attuale migrazione dei popoli  è legato da Bauman al tema della contemporaneità.

Bauman sostiene che modernità e migrazioni siano inscindibili (non vi sono queste senza l’altra). La modernità genera trasformazioni, che a loro volta generano spostamento di popoli, di quegli uomini cioè che non rientrano nell’ordine (generato nel disperato tentativo di  controllare il caos) e che dunque devono andarsene. Ma al minuto 3, 45 il giudizio diventa drammatico. I migranti “diasporici” (come sono quelli attuali) tendono a non integrarsi, a convivere con due e tre identità contemporanee (di cui essi stessi diventano portatori), destinate a non integrarsi affatto.

Sottolineatura che mette in luce il carattere epocale e drammatico dell’attuale movimento dei popoli, non risolvibile dunque né con un giudizio di chiusura (“fermiamo i flussi con i muri”, giacché la migrazione è tutt’uno con la modernità), né con un giudizio di generica apertura (di stampo “buonista”, – Bauman mette in luce il carattere drammatico e di “dis integrazione” che questo fenomeno ha in sé). Una impossibilità di integrazione che è generato e genera la società delle incertezze. Questo l’ultimo affondo terribile: si crede che la “società della incertezza” sia generata dall’immigrazione (e l’immigrato diviene capro espiatorio, utile alla politica di basso respiro), ma al contrario questa ne è un effetto. Baumann parla in tal senso di “ambiente dell’incertezza” (minuto 4,15 circa e seguenti) come connotato proprio della modernità. Gli immigrati sono “l’avamposto del grande ignoto”. E Bauman prosegue, affermando: “il grande ignoto è lì, nel cyber spazio”, inafferrabile. E qui sembra aprirsi una dimensione più ampia, capace di abbracciare anche il grande tema dell’assenza di legami, della solitudine, del virtuale.

Riflessioni che mettono in luce uno sguardo, quello di Bauman, capace di analizzare il dato singolo nell'”intero” della vita dell’uomo, della società e dei destini dell’umanità. Le numerose dinamiche dell’esistenza contemporanea (migrazioni, incertezza, crollo di evidenze, vita virtuale, capitalismo, individualismo, assenza di legami, ecc.) trovano una singolare coralità di visione, seppure non (ancora – e sarà lunga a venire-) una risposta fondativa

Decisamente un pensatore con cui è  essenziale  entrare in dialogo.

Dialogo decisamente piacevole per chi, come il gruppo di amici di questa sera, ama trovarsi a ragionare di queste cose senza lasciarsi schiacciare dal peso delle idee,  ovvero uomini “connessi ma non soli”, desiderosi di costruire nuovi “legami fondativi”, certi – per dirla alla Bauman – che “l’indipendenza non sia la felicità” ed  “alla fine porti ad una completa, assoluta, inimmaginabile noia”.