Un paio di giorni fa Charlie Gard è volato in cielo. I genitori hanno rinunciato a procedere nella loro battaglia, riconoscendone l’impossibilità. L’ospedale ha proceduto secondo le proprie prerogative.
Non ci interessa, qui, proseguire una battaglia che è stata irta di malintesi e banalità, che abbiamo in parte documentato in due lunghi articoli (leggi il primo e il secondo). Malintesi e banalità che fan fuori una complessità che il dialogo con alcuni amici, tra cui medici e persone appassionate alla vita ed alla vicenda, ha confermato e che la Chiesa stessa riconosce in questi casi, come gli articoli del Catechismo voluto da Ratzinger attestano (si veda art. 2278 e 2279 del Catechismo), lasciando margini di azione terribilmente ampi, tutti in mano ai medici ed ai famigliari.
Vogliamo porre lo sguardo su quello che realmente e profondamente è accaduto.
Da una parte, ancora una volta, si è affermata la tragedia che riguarda ogni uomo. La sconfitta delle proprie aspirazioni, la prova fattuale che “non ce la possiamo fare”. La morte è il riscontro sicuro e oggettivo di questa impotenza a realizzare i propri desideri.
Con la vicenda di Charlie Gard si è visto, tuttavia, anche altro. Si è visto che il desiderio dell’uomo di vivere, di amare, di combattere è potente. È capace di stringere insieme migliaia e milioni di uomini. I genitori di Charlie sono stati la testimonianza di questa forza e in tantissimi ci siamo stretti attorno a loro (pur con diverse valutazioni sulle opportunità da seguire, sulle quali i medici stessi si sono trovati divisi, anche a causa del condizionamento mediatico), commossi per questa tenacia e questo amore al proprio figlio.
Viene in mente il Leopardi della Ginestra, il Leopardi del titanismo, che piega il suo pessimismo verso un volontaristico e imponente sforzo di compassione e un appello all’unione del genere umano per combattere contro la natura matrigna.
Ma resta la domanda. È una battaglia che può essere vincente? La risposta è chiara. No.
Vengono in mente i miti del Foscolo (unica consolazione per l’uomo, destinato al nulla), oppure, in tempi più recenti la bella canzone di Guccini, Le cinque anatre. Se anche una sola continuerà il suo volo, mentre le altre 4 cadono, questa sarebbe la prova che “si doveva volare”. Il problema è che neppure quell’unica anatra, nel nostro caso, può continuare il volo per raggiungere il suo Sud.
Ma allora che significato ha la tenacia dei genitori e la commozione del mondo intero (commozione capace di muovere perfino i potenti)?
La soluzione è quella di non deviare l’urgenza della domanda che Charlie testimonia: a che vale la vita? Perché il grande spettacolo della vita, se poi ci viene improvvisante portato via?
Di qui la necessità – di cui dicevamo a margine dei precedenti post – di poter sperimentare da subito scintille di resurrezione, ovvero di vittoria.
Costruire luoghi dove è possibile sperimentare da subito la vittoria sulla morte, dove tale vittoria è altrettanto quotidiana e reale quanto la presenza della morte che ci pervade, è la vera buona battaglia. Luoghi che diano senso e speranza anche alla tenera e cara vita di Charlie, e senso e speranza al dolore di quanti lo hanno amato così fortemente.
Lo ricordava don Giussani, nel 1982, come cifra risolutiva per la vita di ognuno.
« “Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede”. Questa è la vittoria che vince l’inesorabile degradazione verso la morte, la mortificazione della vita, l’anticipo del sepolcro che è l’abitudine: la fede, il riconoscimento di qualcosa che accade, di ciò che accade, del senso della vita che accade, di Cristo che viene tra noi». (don Giussani, Una strana compagnia).
La nostra fede, come reale riconoscimento di un avvenimento, e non miti (progressisti o conservatori, pragmatici o valoriali) creati da noi e che inesorabilmente saltano la realtà nella sua fattualità (rende in bianco e nero ciò che è pieno di sfumature). Quella realtà che dobbiamo imparare ad avere il coraggio di amare.
Per questo serve , oggi più che mai, l’intelligenza della fede, affinché si abbia finalmente il coraggio di guardare ciò che c’è, senza sogni e aggiustamenti.
La vicenda di Charlie Gard ha aperto ferite. Domande (molte) e risposte (poche, ma ne emerge una assolutamente decisiva e va guardata con reale interesse). Emerge una diversità di opinioni. Battaglie non esattamente sacrosante e battaglie invece profonde e vere, ma salvo alcuni casi soffocate da un senso di enorme, ed inerme, impotenza.
Senza dubbio la domanda più grave è il significato e il senso di tutto quanto è in gioco. Ha senso una sentenza che non accoglie la volontà dei genitori di tentare tutto perché il proprio figlio viva? Ha senso il precedente veto dei medici ad operare scelte da parte della famiglia per una nuova “cura”? Ha senso tuttavia perseguire una “cura” che si affermi come non produttiva se non di nuovi dolori (così dicono con diversi livelli di certezza)? Ma perché negarne la possibilità? E perché lottare così tanto per un figlio che “non ha futuro”? E poi, oggi terribilmente urgente, che cosa è eutanasia e cosa accanimento terapeutico?
E soprattuto dove consiste il valore di una vita?
Ad alcune di queste domande, risposte sono giunte, ad altre no. Ci sono dati che, peraltro, il clamore mediatico non ha messo bene in rilievo. Tra l’altro ringrazio le obiezioni di alcuni miei alunni, ora studenti di medicina, e di alcuni colleghi, perché mi hanno aiutato ad andare più a fondo. Premetto che di tutta la vicenda e delle risposte che mi sono state date, c’è qualcosa che proprio non torna ancora. In sostanza ritengo che “staccare la spina”, di fatto, non sia una risposta ma un cedimento. Necessario? Opportuno? Comunque un cedimento, una sconfitta di fronte a “quella battaglia che nessun uomo potrà mai vincere” (Springsteen). Occorre capire se ci sono margini di speranza su questa battaglia, che in fondo è quella di tutti. Solo così sarà possibile illuminare di una luce diversa anche la vicenda di Charlie. Occorrono scintille di resurrezione perché altrimenti non è fottuto solo Charlie, ma anche tutti noi. Questa storia mette a nudo questa terribile verità. Siamo ingannati dalla vita o questa ha un senso (malgrado tutto, ma proprio tutto, anche malgrado, e dentro, drammi come quelli di Charlie)? L’amarezza della canzone di Springsteen fotografa la stessa amarezza che proviamo di fronte a Charlie. Ma questa è specchio della nostra vita, delle nostre giornate.
Senza arrivare a questo punto, si produce ingiustizia, anche sostenendo le idee giuste, È così ingiusto (moneta di segno opposto ma dello stessa natura di chi propaga la morte) fare battaglie senza conoscere i dettagli e l’unicità di questo caso. Anzi l’unicità di tutti questi casi, avendo connotazioni veramente delicate, come dimostrano gli interventi di numerosi medici cattolici – anch’essi divisi nelle opinioni – e come dimostra la pratica effettiva in tanti ospedali cattolici. A dimostrazione del fatto che il problema ha una sua delicatezza tutta particolare e che le questioni che si aprono sono nuove e prive di risposte pre-definite, pur entro l’alveo certo che ha chiarito il Papa: si lotta per la vita, non per altro.
I due interventi hanno suscitato una marea di critiche, a volte virulente (veri e propri insulti), segno di quanto la vicenda sia importante e sentita, ma anche di una reattività, istintiva e violenta, a volte non comprensibile, sicuramente non tollerabile.
Appare chiaro che forse non ci si stia intendendo su numerosi dettagli, ma forse non ci si intende su che significhi “vita” .
Mele, Emanuele Campostrini, intanto, a dispetto della diagnosi delle prime settimane, va a scuola (vedi l’articolo integrale). La famiglia Gard e la famiglia Campostrini (che aveva inviato un video appello perché si lasciasse vivere Chiarlie) si sentono quotidianamente.
In rete si trovano numerosissimi altri articoli, espressione delle due direzioni di opinione. Sempre Vita.it ricorda, intervistando Luca Manfredini, referente per la terapia del dolore e cure palliative dell’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova, che in Italia i bambini che necessitano di cure palliative (che non hanno speranza di guarigione) sono 35mila e solo il 15% ne può usufruire. Fatto di cui nessuno si occupa. Cure palliative, non eutanasia. L’eutanasia non può mai essere contemplata – al contrario di come sembra affermare la legislazione belga, contro cui si è scagliato l’International Children’s Palliative Care Network (ICPCN) – come opzione percorribile in questi casi.
Ma è questo il caso di Charlie? Alla fine dell’articolo si chiarisce la questione ricalcando la posizione della dott.ssa Rigoli. (Si veda qui per intero l’articolo). Il finale tenta di chiarire uno dei grandi dilemmi: «nessun intervento medico è consentito a meno che i suoi vantaggi non superino i danni. Quando la cura non è più possibile, tali benefici e danni devono essere considerati in senso ampio, in un modo che comprende anche gli interessi emotivi, psicologici e spirituali così come quelli fisici. Poiché è la famiglia dei bambini che li conosce meglio, tale considerazione si basa sulle discussioni tra la famiglia e il team sanitario (e quando possibile, il bambino stesso) per stabilire se gli interventi sono equilibrati e nel migliore interesse del bambino. Quelli che non lo sono – cioè il cui danno supera i benefici – dovrebbero essere interrotti o evitati. Questo non costituisce eutanasia».
Come si vede la questione è estremamente complessa (ma sarebbe un errore grave avere paura della complessità) e non sono giustificate battaglie all’arma bianca, mentre risultano a dir poco sconsolanti i tentativi di far apparire silenti e assenti le istituzioni della Chiesa da parte di “ultras cattolici”, tirandole per la giacchetta. In tal senso si veda il solito Socci che conclude il suo articolo con l’umile e devota espressione, “un Papa vero non si comporta così”. In realtà già i vescovi inglesi erano intervenuti, così come mons. Paglia e lo stesso presidente della CEI Bassetti e mentre Socci si apprestava a pubblicare le sue parole di fuoco, il papa interveniva con un tweet a cui è seguito un comunicato tramite il suo portavoce (si veda qui). La posizione del papa è quella della difesa della vita e della relazione di Charlie con la propria famiglia (ma su questo pare che essi abbiano perso la patria potestà nel momento che sono entrati in contenzioso con l’ospedale, come prevede la legge inglese – vedi articolo Bertini-).
Le avvisaglie di questa “cultura di morte” sono state messe in luce da lungo tempo. In occasione del dibattito intorno al caso Eluana, l’associazione riminese Hannah Arednt invitò il dott. Mario Melazzini, malato di SLA. Durante la conferenza si espresse provocatoriamente, affermando che nella sua situazione non era preoccupato di “aver diritto a morire dignitosamente” (come allora si chiedeva da più parti alla legislazione italiana), bensì di aver diritto a vivere, poiché in tanti paesi, specie di cultura anglo-sassone, non si curano più i malati terminali; le loro cure sono ritenute costose e inutili, e li si lascia morire. Parole che paiono profetiche.
Melazzini, poi, sempre a Rimini, presentando un suo libro al Meeting, affermò “Quando mi hanno comunicato che avevo la Sla ho pensato che di questa malattia si muore. Ora mi rendo conto che il mio male mi ha dato più di quanto mi ha tolto ed è questo sguardo che voglio dall’infinito. Apprezzare con gioia la vita, ma con la consapevolezza del Mistero che ci circonda… anche su una sedia a rotelle non si smette mai di cercare”. Una cultura che non riconosce più il valore della vita, anche nella malattia, esiste e c’è chi la combatte mostrando che la vita c’è dove meno te l’aspetti.
Sarebbe invece grave prendere a pretesto questo caso, per innescare una presunta “battaglia di popolo”. È una posizione rischiosa, perché prevale un progetto sulla presenza di una vita (una e irripetibile), che c’è ed è il vero punto di rinascita, il quale non potrà consistere in una nuova presunta cultura, nata sull’onda emotiva di un fatto così straziante, e non dalla reale presenza di vita rinnovata. In tal senso occorre, in primo luogo, recuperare un reale senso del valore dell’esistenza. Non di una concezione dell’esistenza ma dell’esistenza stessa. Alcuni fatti sono d’aiuto a capire questo ultimo punto e la possibilità di una svolta in questo dibattito.
Il primo fatto è che se migliaia di persone si sono stracciate le vesti di fronte alla sorte di Charlie, un’amica che vive a Londra mi scrive un paio di giorni fa: “La cosa più triste per me è la solitudine dei genitori, su cui certo anche qualche medico ha le sue colpe, come poi è emerso dalla sentenza. (…) Non c’era nessuno davanti all’ospedale. Tutti su Facebook a fare crociate.”
Un’annotazione semplice ma di importanza capitale.
Evitando di considerare la storia di Charlie come un’arma da scagliare contro la “cultura della morte” (Charlie non è un’arma, Charlie è lui, è terribilmente malato e il suo destino è misterioso), offre i criteri per un giudizio (la difesa della vita e il valore della relazione con i genitori) ma soprattutto rilancia le domande che sono sottese da questa terribile vicenda. Domande sulla morte e sulla vita. Domande che trovano una risposta in quello che la Parravicini ha costruito, esprimendo un’indomabile esperienza di vita. Che sperimenta concretamente che significhi sperare contro ogni speranza.
Senza questa esperienza, senza questi sprazzi di resurrezione, ogni battaglia è perduta in partenza. Avrebbe terribilmente ragione Springsteen, geniale laddove afferma che “c’è qualcosa che muore per strada questa notte. Quando la scommessa viene infranta, (…) questo ti ruba qualcosa dal profondo dell’anima. Come quando viene detta la verità e questa non fa alcuna differenza e qualcosa nel tuo cuore diventa di ghiaccio.”
Senza sprazzi di resurrezione saremmo di ghiaccio e privi di vita, già sconfitti, sia sul fronte pro-life che sul fronte di coloro che vogliono staccare la spina, anzi tante spine. Quelle spine che ci ricordano le parole del preconio pasquale: “Nessun vantaggio per noi essere nati, se Lui non ci avesse redenti”.
Come non diventare di ghiaccio di fronte ai duri colpi della vita e mantenere vivo il “sogno della giovinezza” (Giovanni XXIII)?
È la questione che solleva il dramma che sta vivendo Charlie. Un dramma che, nascosto tra le apparenze del quotidiano, è in realtà dentro ognuno di noi in ogni frangente delle nostre giornate.
Oggi DjFabo è morto. La sua vita era assai complicata da tempo. Cieco e paraplegico dopo un incidente, di cui ci fornisce qualche dettaglio questo articolo. Una vita che era diventata un inferno, come lui stesso sosteneva. Il Corriere della Sera titola con una sua frase, “qui senza l’aiuto del mio Stato”. D’altro canto, se non ci pensa l’Italia si vola in Svizzera. In Svizzera la “morte dolce” ha la forma del “suicidio assistito”, ovvero la morte che viene indotta senza intervento diretto del medico, invece previsto nel caso dell’eutanasia (non ammessa neppure in Svizzera). E tuttavia, Fabiano (questo il suo vero nome) non poteva assumere da sé il cocktail di farmaci che lo ha portato alla morte. E così ci ha pensato, non la sua compagna di vita, Valeria che pure lo ha sostenuto in questa scelta, bensì Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni.
C’è una immediata distorsione che balza agli occhi. Una stonatura evidente tra il dramma che si è consumato, – la duplice morte di un uomo, quella durante l’incidente e quella di oggi – e la battaglia perché lo Stato intervenga. Che Fabiano ci sia o non ci sia, così come il dramma che lo ha colpito anni fa (l’incidente e la perdita della sua precedente vita), è sostituito mediaticamente da una battaglia civile affinché “ognuno possa decidere come meglio crede della propria vita”. Interviene anche la signora Welby (moglie di Piergiorgio, che visse un’altra vicenda dai toni simili) affermando “non possono continuare a infliggere ad altri quello che loro non vorrebbero, quello che dal loro punto di vista è più giusto”.
Ma quanti si vedono infliggere dalla vita – e non semplicemente dalla politica- ciò che non si ritiene affatto giusto?
Chi può decidere “come meglio crede” della propria vita? Forse che noi, che non siamo colpiti da situazioni così evidenti e drammatiche, possiamo deciderlo? Nel dire questo non intendiamo imputare nulla a Fabiano, ma stiamo riflettendo su di noi stessi. Se riflettiamo sul serio, possiamo davvero dire che noi della nostra vita possiamo decidere “come meglio crediamo”?
Il dramma sollevato da questa vicenda è ben più grande di quello di una disposizione di legge. Morire in Italia, anziché in Svizzera non toglie infatti di una briciola il dramma nascosto nella storia di Fabiano. E, in fin dei conti, in quella di ognuno di noi.
Qui non c’è in ballo una legge dello Stato, ma una legge intrinseca della vita (e dunque terribilmente insuperabile), che va compresa e imparata a dovere. Compresa, per capire – una volta per tutte – se è una cattiva legge oppure no. E la risposta diventa decisiva rispetto al compito che ogni uomo avverte ogni mattina: un giorno in più da sopportare terribilmente, oppure la costruzione di un nuovo tassello di una splendida opera, qual è la nostra vita (così come è)?
Personalmente non credo di avere ancora capito del tutto cosa significhi questa scommessa, questa partita che siamo chiamati inesorabilmente a giocare, senza che vi siano chance per evitarla. Ma da un po’ di tempo, da un bel po’ di tempo, è fonte di meditazione e di rivisitazione di tante certezze (vecchie e nuove). E questo è fonte di speranza.
Tra i fatti meno recenti che obbligano a riflettere, occorre ricordare la vicenda di Eluana Englaro e la vicinanza al suo dramma da parte di chi era pure contrario alla scelta della dolce morte, come si evince da un semplice ma chiaro volantino, oppure quello sguardo profondo di Enzo Jannacci, in quella sorprendente intervista al Corriere, dove dichiarò “la vita è importante anche quando è inerme e indifesa. Fosse mio figlio mi basterebbe un battito di ciglio”, fino a chiudere l’intervista con quella espressione che era quasi una preghiera laica, “ci vorrebbe una carezza del Nazareno”.
Ma oltre Eluana, ho presente la vita di tanti amici colpiti da gravi malattie o eventi drammatici, fatti che tuttavia diventano qualcosa di inaspettato, ovvero opportunità prima non rivelate.
E poi l’aver avuto l’opportunità di curare la pubblicazione della storia di una ragazza, Marta Bellavista, che a 27 anni muore di tumore, dopo aver vissuto una iniziale guarigione e dunque con tutta la rinascita di aspettative e sentimenti che ognuno può ben immaginare, e che però afferma il valore di ogni secondo del suo respirare. E lo afferma in modo tale che la vita diventa del tutto “altro” da quanto immaginato. Secondo dopo secondo, un guadagno.
Tutte queste storie, tutte queste vicende, insieme ad altre storie difficili, dove il “tutto consueto”, che possediamo e che rimane, non sembra sanare l’insoddisfazione, l’inferno, le atrocità di un vivere che pare non avere senso (quante storie così segnate, quanti amici, quante persone care che vivono l’inferno di un presunto “nulla” che coabita nel presunto “pieno” di tante cose: salute, soldi, affetti -poi infranti da noi stessi), mi portano a pensare che si debba andare ben più a fondo. Ancora più a fondo di quanto scrivevo ai tempi di Eluana (vedi il mio vecchio blog, in data febbraio 2009).
In questo andare più a fondo, emerge il punto di discrimine che svela l’insufficienza di quel titolo del Corriere e di quanto lo stesso djFabo ha sostenuto in questi giorni. L’insufficienza di uno sguardo. La stessa insufficienza che non ci fa capire la vita, neppure quando siamo nel pieno delle nostre forze. Così come quando sembra sparire dai nostri orizzonti.
Sovviene alla mente quanto lo scrittore Saviano ha scritto sul caso del ragazzo sedicenne suicidatosi perché trovato con qualche grammo di hascisc e vittima di una perquisizione in casa. Si è suicidato davanti alla madre. Saviano scrive che tale morte non ci sarebbe stata se le leggi avessero liberalizzato l’uso della droga. Come se il dramma così potesse scomparire. Come se sballarsi non fosse già il dramma. Il dramma di una vita che non conosce la capacità di reggere il duro mestiere di vivere. La notizia, poi, che fu la stessa madre a chiamare gli agenti, le parole di lei, e il risvolto drammatico che tutto questo apre (in qualsiasi direzione lo si voglia guardare), fanno capire l’insufficienza e la portata riduttiva (perfino violenta nella sua banalità) di quanto detto da Saviano. Il quale su facebook non ha mancato di far sentire la sua voce anche su djFabo, andando a scomodare Cristo e la religione, ed incentivando una corsa alla ricerca del nemico (allo Stato è stato aggiunto l’italico popolo di falsa religione. Complimenti Saviano! Di fronte a un uomo che muore si sente proprio il bisogno di nuovi nemici!).
Occorre uscire da questa riduzione, che riguarda la morte di Fabiano e di Eluana, così come la vita di ognuno di noi.
In tal senso ci aiutano due articoli, apparsi in questi giorni.
Il primo è di Benedetta Frigerio. Ci fa vedere che esistono storie diverse. Svela anche lo stile di vita di Fabiano, dedita allo “sballo”, uno sballo non estraneo, ella sostiene, all’incidente in auto. Possiamo sentire insopportabile tale giudizio di Benedetta, e forse lo è, tuttavia è un aspetto che non può essere sottaciuto. Ma soprattutto non possiamo non spostare la nostra attenzione sulla seconda parte dell’articolo, dove si parla di un altro dj, Andrea, che vive una situazione analoga a quella di Fabiano, ma afferma: “questa malattia mi ha tolto quasi tutto, ma mi consente di cogliere il valore di ciò che prima sottovalutavo”. Da leggere.
Il secondo articolo, di Lucia Bellaspiga, presenta un quadro ancora più sorprendente. È l’appello, purtroppo inascoltato, di un ragazzo costretto a vivere senza movimenti da sempre (“può solo pensare”) a Fabiano perché eviti quel gesto, perché eviti di farla finita. Qui si svelano le infinite possibilità che la vita presenta, gli incredibili risvolti che l’esistenza possiede e le opportunità che offre a chi non la rinchiuda in uno schema (come, pur in forme “lievi”, facciamo noi tutti quotidianamente). Matteo, 19 anni, 25 chili, inchiodato ad una carrozzella, non può muoversi, non può parlare. Ma a partire dai 6 anni ha imparato a usare una tavoletta per comunicare ed ora frequenta il liceo, dove quest’anno si maturerà. Certo, gli insegnanti vanno a casa sua (come prevedono progetti di inclusione ampiamente sperimentati per casi meno gravi) e i sacrifici non mancano. Eppure la sua ironia spiazza, ci mette tutti contro un muro, perché capiamo che non abbiamo capito nulla della vita. Quella vita fatta consistere, così spesso, in quello che pensiamo e progettiamo di essa, considerato irrinunciabile, e che invece può essere tolto in un secondo.
Ma cosa è l’essenziale, che nessuno ci può portare via?
Matteo -la cui malattia è dovuta ad un errore dei medici al momento della nascita- ce lo ricorda in un paio di battute fulminanti. Rimando alla lettura dell’intero articolo (imperdibile, per le parole di Matteo stesso).
Il pensiero, poi, vola subito al dott. Melazzini (ammalato di SLA e assessore in Regione Lombardia), ma anche a esperienze vicine, più prossime, come i vecchi amici “handicappati” (oggi non si può più dire così, ma quanta ipocrisia!) della Luce sul Mare di Igea Marina con cui insieme ad alcuni amici, da giovane, passavo la domenica pomeriggio, e balza alla memoria quella loro gioia nello spendere due ore assieme. E come non pensare a chi soffre perché ha perso tutto, magari non l’uso del corpo ma il tutto di una esistenza intera (per terremoto, malattia, anzianità devastanti)…
Storie differenti certo, ma che portano un inferno dentro che fa immediatamente gridare che “non è più vita”. C’è pure chi cade in irrimediabili tunnel, per la perdita del lavoro, della famiglia, e i suicidi di questi tempi di crisi sono lì ad attestare che è ben difficile misurare l’inferno che è nel cuore di ognuno.
E penso di nuovo a lei, a Marta, che insegna in ogni riga del suo diario, che la vita è altro da quello che noi decidiamo che sia. Appunto. Qui si avvicina la radice del problema.
Le ultime parole di Fabiano sono un ringraziamento. “Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato. Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore, di dolore, di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e lo ringraziero’ fino alla morte. Grazie Marco. Grazie mille”.
Alla fine del libro Voglio tutto (dove sono raccolti gli scritti di Marta), abbiamo posto il ringraziamento di Marta (sono le ultime parole proferite nel suo ultimo giorno di vita) a Francesco, l’amico con cui ha imparato che la vita è nelle mani di un Altro (il Nazareno di cui parla Jannacci). Ormai sedata si è tirata su e ha detto a lui che stava uscendo: “Grazie, grazie, grazie”. Poco dopo, la malattia la porterà via ai suoi cari.
Fabiano ripete per tre volte la parola dolore. Marta per tre volte la parola grazie. Ed era provata da quattro anni di un tumore che l’aveva ridotta a zero nel corpo. Entrambi ringraziano. Ma per motivi opposti. Quello di Marta è un grazie per ogni istante vissuto, ogni dolore attraversato, ogni pezzetto di cammino, lieve o atroce che fosse, mentre l’altro è un grazie liberatorio per una vita insopportabile.
Siamo tutti di fronte a questo bivio. La nostra giornata è un bene, oppure è, e resta, in fondo, insopportabile, un dramma da cui essere anestetizzati? Magari con una vita da sballo, o parallela, oppure ridotta ai fine settimana o a serate come quelle cantate da J-Ax in Gente che spera, (“cercando qualcosa di più, in fondo alla sera”).
La vita è qualcosa in cui entrare, comunque sia, oppure da cui fuggire?
Qui si nasconde il vero dramma che Fabiano ci ricorda e che nessuna legge (bella o brutta) potrà eliminare: che cosa rende “sopportabile” l’esistenza? Una risposta che ognuno di noi deve imparare a dare. Possibilmente da subito. Perché la vita incalza.
La risposta di Marta è una bella canche. La sua strada rende vere, e non semplicemente sentimentali, le parole della canzone di Fiorella Mannoia. Che sia benedetta la vita. Sempre.
Chi non vorrebbe poter imparare a dirlo, con forza, di fronte a ogni dramma?
È l’unica chance che abbiamo per toglierci l’inferno che ci abita nel cuore. In Svizzera o in Italia, a questo punto non importa più.
È uscito ieri, 22 settembre, in alcune sale italiane, una decina in tutta la nazione, un conturbante film-documentario di Erik Gandini, video maker bergamasco che da decenni vive in Svezia e assai noto per il suo Videocracy, dedicato all’Italia berlusconiana, film che fece assai discutere. Ma sono numerosi i suoi docufilm che hanno destato clamore (Raja Serajevo,Gitmo, Surplus) e che allo tesso tempo gli hanno portato riconoscimenti e notorietà.
L’ultimo lavoro di Gandini si intitola La teoria svedese dell’amore. Se l’edizione integrale è in proiezione a partire da oggi nelle sale, Rai 3 ne ha pubblicato una riduzione (assai ampia -60 minuti-) che permette perfettamente di entrare all’interno di questo viaggio nel cuore del paese “più civile del mondo”. Un viaggio surreale e decisamente conturbante. Un viaggio in un sogno, un’utopia, che si rivela un incubo.
È davvero istruttiva, e allo stesso tempo emotivamente intensa, la visione del film (non più disponibile sul sito della RAI il film è rintracciabile qui). In questo docufilm non si parla solo di Svezia, ma si tratta del nostro futuro, o meglio di come qualcuno vorrebbe si trasformasse il nostro futuro.
Gandini, in intervista, ammette che il film è a tema, che non è espressione di tutto ciò che è la Svezia (come Videocracy per l’Italia, d’altronde) ma quanto egli documenta è fondato su dati statistici inoppugnabili ed esperienze reali.
Di che si tratta?
In sostanza un progetto politico esplicito, nato nel 1972, ha inteso fare della società svedese la società degli individui che non abbisognano di appartenere a nessuno e che dunque, negli intenti, possono vivere assolutamente liberi e “liberati”. Finalmente rapporti autentici, in quanto liberi e non costrittivi. Liberare i genitori anziani dalla necessità di dipendere dai figli, liberare i figli dai genitori, le donne dagli uomini… sfaldare lo stesso bisogno del partner da parte delle donne per la procreazione, (decisamente ironica la riflessione su quella che dovrà essere la funzione del maschio nel futuro, descritta in una banca del seme e che potete ben immaginare).
Tuttavia l’esito di questo progetto politico-sociale è, ad oggi, una solitudine generalizzata, che assume tratti parossistici, descritti, come si diceva, con ironia ed un sarcasmo agghiacciante, senza perdere mai i tratti di un realismo che rende la visione ancora più drammatica. L’ufficio che si occupa del ritrovamento delle relazioni di persone anziane morte e dimenticate nei loro appartamenti, la descrizione di donne e uomini che non hanno alcuna intenzione di complicarsi la vita con una relazione, di immigrati che sono strappati dai loro valori e cultura, è decisamente significativa. Questa società, che al contrario della nostra italica, funziona (accoglie, integra, provvede, razionalizza), svela una dimensione oscura.
L’impressione che avvolge lo spettatore è quella di essere in un film di fantascienza (sembra di vedere certi film per la televisione degli anni ’70) dove si descrive una società utopica e irrealizzabile. Invece è realtà in Svezia. Ma di più. Con chiarezza si riconoscono le direzioni che taluni dibattiti anche nostrani, consapevolmente o meno, vogliono imprimere alla società.
Si comprende bene come la questione delle famiglie omosessuali, recentemente così dibattuta in Italia, oppure la battaglia per la procreazione assistita, siano veramente un tassello di una vicenda ben diversa. Tant’è che anche un filosofo “allievo indipendente di Marx” e neohegeliano, come egli stesso si definisce, quale Diego Fusaro, ha preso decisa posizione in contrasto ai cosiddetti “nuovi diritti” (si vedano questi due video: video 1; video2), pur all’interno di una sua generale visione di contestazione radicale della società del capitale, quale società dell’ideologia, omologata e totalizzante, del mercato (in cui non c’è posto per la famiglia, ma solo per individui atomizzati).
Il film di Gandini ha il merito di traslare viete discussioni di basso profilo sul cuore della questione. Lo scontro tra cattolici tradizionalisti e laici progressisti, così come spesso si configura, non ha alcun senso di esistere e presenta in sostanza, quale esito coerente, un obiettivo nichilista, come ben descritto nei fotogrammi del documentario. Due poli dialettici che non conoscono la vera battaglia in corso.
La vera battaglia è quella di una resistenza ad un individualismo fondato sul vuoto (autofondativo nelle intenzioni), che si configura come una scommessa errata sull’uomo, una deriva illusoria della libertà. Una prospettiva strisciante e apparentemente vincente, capace di avanzare all’interno dei vari fronti contrapposti, attraverso l’annientamento delle dimensioni più autentiche dell’uomo e che ha certamente come ignari alleati, più o meno zelanti propugnatori di diritti che diritti non sono, ma al contrario capestri in un cui rimanere imprigionati, come acutamente osserva Fusaro. È una lunga storia, che va avanti dai tempi del divorzio e dell’aborto.
Certamente nel film l’antagonismo a questa deriva, sembra non esistere, se non vagheggiando una società primordiale e naif, simbolo tuttavia di una inesorabile resistenza dell’uomo a progetti ideologici così massivi.
Tuttavia il valore di provocazione del filmato è notevole, e l’intervento finale del filosofo Zygmunt Bauman ne segna la profondità. Dopo alcune analisi sulla vita online e offline, Bauman conclude: «La felicità non viene da una vita senza problemi, ma dal superamento delle difficoltà. L’indipendenza non è la felicità; alla fine porta ad una completa, assoluta, inimmaginabile noia.»
Tra le numerosi provocazioni e suggestioni, vorrei presentarne tuttavia una fortemente positiva che ho percepito con chiarezza, accanto alle altre, durante la visione del film.
Il progetto nichilista non vincerà.
Per quanto forti siano le spinte del potere, per quanto gravi le confusioni in cui è caduta la nostra società, con le sue sirene devastanti, la bellezza della famiglia e di rapporti solidi, il bisogno di comunione tra gli uomini, di impastarsi l’uno nell’altro (tutti valori che in qualche modo, talora assai imperfetto, la nostra società mediterranea ha sempre mantenuto vivi) non potranno non tornare ad affascinare l’uomo.
Nel film è palese. La società degli uomini soli è troppo brutta perché prevalga definitivamente, e soprattutto perché si possa realizzare da noi, sud dell’Europa, così immersi nella bellezza come siamo.
Nel frattempo tuttavia, ci aspettano tempi duri, in cui la buona battagliasarà, ancor prima che innescare rabbiosi scontri contro mulini a vento e falsi obiettivi, dimostrare che si può vivere diversamente. Da subito.
La bellezza va inseguita ed amata. Questa è la nostra arma e la nostra vittoria contro il nichilismo.
In questa strana estate, che si macchia di sangue in maniera crescente, occorre forse riarticolare la profetica espressione di papa Francesco sul tempo odierno, già pronunciata nel 2014 e poi ripetuta più volte. Disse che siamo in guerra, una “guerra mondiale combattuta a pezzi”. Ora ce ne stiamo accorgendo tutti. Ma oggi scopriamo anche che questa guerra non è combattuta solo da organizzazioni terroristiche o di impronta totalitaria, quale l’ISIS (un totalitarismo che prende le forme dell’ islamismo radicale, ma che possiede assonanze impressionanti con quello marxista e nazista insieme), bensì dal vicino di casa, dall’immigrato dei sobborghi delle grandi città, oppure dai giovani bene che per un motivo o per l’altro si trovano in totale scontro con la nostra civiltà. Il collante dell’islamismo è ben presente, ma pesca da origini complesse e che ultimamente portano a un vuoto abissale, da cui l’uomo ha cercato sempre, maldestramente, di difendersi.
È la guerra del vicino di casa, di volo in aereo, di quartiere.
Ecco perché forse dovremmo chiamarla, guerra civile mondiale. Non per toglierle il suo significato geopolitico, ma semmai per indicare il carattere interno all’Occidente di questo conflitto assurdo, così come sono state d’altro canto definite anche le due guerre mondiali (vedi il saggio E. Nolte La guerra civile europea. 1917-1945 – Nazionalsocialismo e bolscevismo).
Vi è anche un altro motivo per cui sembra opportuno utilizzare questa denominazione.
Il secondo motivo è adombrato nelle parole di ieri del papa in prossimità della GMG che si tiene oggi e nel prossimo fine settimana con milioni di ragazzi a Cracovia. Così si è espresso: “Circa quello che chiedeva padre Lombardi, si parla tanto di sicurezza, ma la vera parola è guerra. Il mondo è in guerra a pezzi: c’è stata la guerra del 1914 con i suoi metodi, poi la guerra del ’39-’45, l’altra grande guerra nel mondo, e adesso c’è questa. Non è tanto organica forse, organizzata sì non organica, dico, ma è guerra. Questo santo sacerdote è morto proprio nel momento in cui offriva la preghiera per la chiesa (il giornale La Notizia scrive “per la pace”, ma le due preghiere coincidono – ndr), ma quanti, quanti cristiani, quanti di questi innocenti, quanti bambini vengono uccisi. Pensiamo alla Nigeria – ha esortato – ‘ma quella è l’Africa’. No, è guerra, non abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra perché ha perso la pace.” (cit. da Ansa)
Lo stesso aveva detto padre Ibrhaim a Rimini (vedi il filmato della conferenza assolutamente attuale) denunciando anche, con candore francescano ma senza mezzi termini, le responsabilità degli USA e dell’Europa, fino ad esprimersi “le vostre tasse, una parte di questi soldi finisce nella mani dell’ISIS”. (Padre Ibrahim poi, al minuto 6 e 30 circa, nega la denominazione di guerra civile, ma per allargarne l’orizzonte a più Stati, intendendo che ciò che succede ad Aleppo non è solo guerra civile interna ma guerra tra più potenze. Noi qui confermiamo l’orizzonte mondiale, ma intendiamo dire che è “guerra civile” per la sua capillarità e quotidianità. Dunque è una guerra mondiale, ma civile, ovvero fatta anche da semplici cittadini, spesso sbandati o problematici, cellule indipendenti e autonome che rendono capillare e ancor più devastante l’impatto psicologico sull’Occidente).
Insomma: il pericolo viene dal vicino di casa e dall’ipocrisia dei potenti, che utilizzano un forma ideologica di Islam che, come andiamo da tempo ripetendo, nel suo insieme deve crescere, approfondirsi e chiarirsi.
Non è questa dunque una guerra civile, che prende forme polivalenti e che si maschera dietro a motivazioni religiose? (vedi sempre papa Francesco ieri)
Di fronte a questa situazione, del tutto nuova e di cui realisticamente siamo chiamati a prendere atto, ci sono due atteggiamenti del tutto errati, seppure contrapposti.
All’indomani del terribile attentato ad Orlando dell’ 11-12 giugno, all’interno di un noto locale gay, i richiami de Il Foglio ad identificare l’evento quale una espressione di terrorismo islamico, a fronte del tentativo invece di deviare l’attenzione sul problema dell’abuso delle armi nel paese oppure verso il problema dell’omofobia, erano giusti (perché si sono udite parole, anche nel discorso di Obama, del tutto fuorvianti) ma insufficienti, come poi ha dimostrato lo svelarsi dell’identità dell’attentatore, decisamente complessa e tutta da decifrare (omosessuale egli stesso e così riconosciuto da compagni di gioventù, poco religioso, frequentatore del locale fino a poco prima e di recente avvicinatosi ad un Imam radicale). All’ analisi del Foglio che definisce i fronti come nettamente contrapposti e dunque facilmente individuabili in due schieramenti che devono necessariamente fronteggiarsi in forme lineari, manca qualcosa che invece pare essenziale.
Allo stesso modo la reazione opposta, ben più grave perché decisamente tendenziosa ed espressione di uno degli elementi del male che ci attanaglia, de Il Fatto quotidiano, dimostra un’altra via del tutto errata. Il Fatto ha pubblicato il 13 giugno (stessa data dell’articolo de Il Foglio) un video di un’omelia di una sacerdote italiano, titolando «“Gli omosessuali meritano la morte”. L’omelia del parroco contro le unioni civili». Errata la pubblicazione, perché pubblicarla il giorno dopo gli eventi di Orlando (l’omelia era del 28 maggio, due settimane prima) non è certo una scelta neutra o per dovere di cronaca ma vuol far sorgere nel lettore questo giudizio: “vedete, i cristiani sono come gli islamici, fomentatori di violenza; il problema è eliminare ogni religione fonte di ogni regresso”.
Ma la questione si intreccia ancora di più in un intrigo di torti e ragioni, dove chi ha realmente torto (l’ideologia del nulla) trova ragioni per sostenersi in improbabili battaglie di civiltà (a proposito, questo fine settimana ci sarà il Gay Pride a Rimini. Tanto per gradire) in cui il nulla delle forme leggere leggere, prende in carico su di sé diritti e rispetto della persona, in una mescolanza di elementi in cui l’eterogenesi dei fini (e della nostra fine) la fa da padrona.
Infatti, occorre aver il coraggio (tutto cristiano) di dire che errati sono anche i toni dell’omelia che hanno permesso di titolare al Fatto in quel modo.
Un’operazione di menzogna, quella del Fatto Quotidiano, è indubbio.
Sia perché invece è intrinseco al cristianesimo la costruzione della pace, come in questo secolo XX e XXI sta emergendo sempre più chiaramente – in particolare grazie agli ultimi pontefici da Giovanni Paolo II in poi-, portando nuova giovinezza al fatto (avvenimento) cristiano (questo sì, veramente quotidiano e reale).
Sia perché quanto ha pubblicato il Fatto Quotidiano, nasce da un’assolutizzazione ed estrapolazione di una frase, a sua volta de-contestualizzata dal parroco e utilizzata da lui stesso in maniera piuttosto goffa e impropria.
Proviamo ad analizzare. Il Fatto titola virgolettando “gli omosessuali meritano la morte”, attribuendola al parroco (o a San Paolo, comunque al cristianesimo). Il parroco cita San Paolo che nella lettera ai Romani cap 1,26-ss. afferma “E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose -si parla di ogni deviazione sessuale, ndr – meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa”.Il Fatto gioca sporco, correlando la vicenda Orlando (data di pubblicazione), alle vicende Unioni di fatto e legge del governo Renzi, complice la verve del parroco, ed entrambi bypassano la necessità di contestualizzare e comprendere il significato di quel passo (ad esempio di quale morte si parla? Mai sentito parlare di “morte dell’anima” che riguarda ogni peccato? E che c’entra la morte di omosessuali per terrorismo con la morte dello spirito ovvero la dannazione eterna?).
Insomma il parroco ha ingenuamente steso un tappeto di velluto ai fomentatori del nulla, coloro che sta combattendo anche lui. E un video di tal genere è oggettivamente un’ottima arma per chi porta avanti alcune tesi (fede=violenza=terrorismo fondamentalista=omofobia=cattolicesimo, ecc. ecc.).
Ma questo passaggio deve far riflettere su quanto è in gioco oggi.
Da una parte vi sono i fautori del nichilismo che stracciano i principi secolari che hanno costruito questa nostra benedetta società, ancora riconosciuta come appetibile, e che di qui (dal cristianesimo e dal suo senso profondo della persona – che appunto è spirito e non solo istinto, vedi San Paolo-) è nata. Un nichilismo che si trova assai più vicino agli attentatori di quanto non appaia.
Dall’altra vi sono i cristiani che devono fare un passo, che sono chiamati ad essere più coraggiosi e consapevoli di ciò che portano. È quanto sollecita, con incredibile lucidità, papa Francesco.
Il coraggio dei cristiani oggi, infatti, non consta nell’alzare battaglie improbabili, pena l’essere simili al don Chisciotte di Cervantes, che si ritrova a combattere contro i mulini a vento. Il coraggio vero oggi, e che chiederà a qualcuno o a tanti il martirio, è il coraggio della personalizzazione della fede (Carron). È il coraggio di quanto ha comunicato padre Ibrahim, testimoniando ciò che sta facendo ad Aleppo. In mezzo alla guerra e all’Isis, attorniato da fedeli che andando a Messa rischiano la morte (letteralmente, e l’omicidio del sacerdote durante la Messa è un presagio fosco per l’Europa), padre Ibrahim costruisce. Semplicemente costruisce tutto quanto è umano e cristiano. Perché i due termini, lo si voglia ammettere oppure no, coincidono. Giovanni Paolo II nel 1983 in Università Cattolica a Milano disse “Tutto ciò che contrasta con quanto vi è di autenticamente umano, contrasta parimenti col cristianesimo. E, viceversa, un modo distorto di intendere e di realizzare i valori cristiani ostacola altrettanto lo sviluppo dei valori umani in tutta la loro pienezza. Nulla di genuinamente umano è chiuso al cristianesimo; nulla di autenticamente cristiano è lesivo dell’umano. Nel messaggio cristiano trova arricchimento, sviluppo, pieno chiarimento la genuina sapienza umana.”
Espressione (nulla di ciò che umano è contro Cristo, nulla di ciò che è autenticamente cristiano è contro l’uomo) che ascoltai, da studente, accovacciato nei chiostri della Cattolica e che, oltre a divenire un ricordo indelebile, è divenuto programma di studio, di lavoro e di vita.
In sostanza oggi è urgente la risposta alla domanda: cosa è il cristianesimo? Cosa ha di buono e vero dopo duemila anni? Credo non sia facile desumerlo dalle parole di quella omelia. Certamente vanno evitati i duplici errori, di cui sopra.
Interessante poi vedere come l’intuizione della GMG sia già presente in quel discorso di Giovanni Paolo II a Milano, quando uscendo salutò gli studenti.
“Miei carissimi studenti, vi ringrazio per la vostra presenza, per la vostra solidarietà, una parola diventata direi internazionale, o almeno italiana (allora in tanti lì presenti avevamo foulard e spillette con la scritta Solidarnosc, come vicinanza agli operai polacchi che lottavano contro il regime comunista). La incontro nei diversi posti della vostra e nostra patria, l’Italia. Allora vi ringrazio per questa solidarietà, e poiché siamo già verso la fine del mese di maggio, vi auguro anche i successi possibili nelle prove che vi attendono, i cosiddetti esami. E vi lascio per il momento con la speranza di incontrarvi di nuovo, non so dove. Ma gli studenti, i giovani, si incontrano dappertutto. Dappertutto sono le università, dappertutto sono gli studenti, dappertutto sono i giovani e dappertutto è la speranza dell’avvenire” (qui il discorso integrale al corpo docente)
Di qui si riparte, per la costruzione della civiltà del nuovo Millennio. Non da polemiche vuote (esse stesse figlie del nichilismo), funzionali solo al “nemico”. Ma dalla speranza che risiede nella risposta al cuore dei giovani e dell’uomo, pieno di quel desiderio di infinito che ti porta ad uscire da te (dalle tue piccole o grandi idee) e a riconoscere che l’altro è un bene. Oggi, in un momento dove ci vogliono far credere che l’altro – anche il passeggero al tuo fianco o il passante in strada – sia un nemico, c’è bisogno urgente di questo riconoscimento.
È un tempo straordinario per la Chiesa e l’umanità intera. Una situazione in cui ogni certezza ha il bisogno di essere rifondata, ricostruita, riconquistata. Un tempo in cui siamo chiamati a combattere un’immane lotta, uno ad uno, per uscire dall’anestesia degradante che abbraccia la “folla”.
Un tempo che è l’apice della ricchezza e della povertà.
1) Il fatto.
In questo tempo è pressoché normale che vi siano fibrillazioni, incomprensioni, situazioni di tensione. Questo accade sia al livello della storia universale (sistemi politici ed equilibri economici pluridecennali tremano, la Chiesa è stata definita una barca sballottata dalle acque…) che particolare. Così si spiegano, ad esempio, alcune discussioni che si stanno amplificando all’interno di Comunione e Liberazione, movimento che da sempre ha saputo vivere sulla frontiera del tempo, mai evitando le sfide del presente e sapendo selezionare i reali crinali della storia, dalle battaglie riduttive, indotte dal potere.
Anche CL, al pari della Chiesa, vive le medesime tensioni interne. Una parte, pur minoritaria, del movimento, oggi mette in discussione il riferimento del nuovo leader del movimento, don Julan Carron, al fondatore don Luigi Giussani. Una messa in discussione che, al di là dei numeri esigui, seppur qualificati, è decisiva, e non solo per Cl. E dunque va capita bene.
È stato lo stesso Giussani ad aver indicato con chiarezza la prosecuzione del suo carisma in Carron. Cito alcune espressioni riportate in più ambiti: “in Spagna vi sono gli echi delle origini del movimento”, oppure “nell’amicizia di un gruppo di preti spagnoli si gioca la permanenza del carisma nel movimento”. Non ho la possibilità di essere testuale ma che esse siano più che reali, lo attesta una fonte decisamente autorevole. Don Stefano Alberto – detto don Pino – per lungo tempo è stato ritenuto, e a ragione, il possibile successore del Gius alla guida di CL. Ebbene, con sferzante ironia rispetto a chi avanza dubbi e resistenze, don Pino ha sostenuto la seconda delle due frasi in un breve passaggio durante un incontro dell’estate scorsa, in occasione della presentazione del libro “Voglio tutto“, dove si raccoglie la storia di una ragazza, decisamente “giussaniana”, avendone vissuto il carisma con impressionante immedesimazione. Don Pino ricorda la posizione di don Giussani, maturata fin dagli inizi degli anni ’90 su questo tema e ne evidenzia il criterio (già esplicitato da Giussani): l’unità, l’amicizia.
Malgrado questa volontà esplicita, malgrado il giudizio chiaro nel criterio (unità contro interpretazione, si legga per questo la relazione dell’incontro nelle parti finali) e malgrado i frutti e la fioritura del movimento – tra i quali Marta è uno dei più belli e dolorosi-, che continua ad essere ricco di testimonianze vive di fede e di impegno nella società, vi è chi fatica a comprendere tale nesso tra l’origine del movimento e l’amicizia dei preti spagnoli.
Nulla di nuovo da una parte. Da sempre don Gius si è dimostrato un passo avanti rispetto al movimento “che aveva visto nascere” attorno a lui, richiamandolo, sollecitandolo, costringendolo ad un cambio di passo. Chi ne ha fatto e ne fa parte sa bene cosa si intenda dire. Per tutti gli altri è sufficiente ripercorrere i testi di don Giussani o la Vita di don Giussani di Alberto Savorana, oppure se non ci si vuole rifare a questa recente opera (recente dunque “carroniana”), si può far capo alla trilogia di mons. Massimo Camisasca sulla storia del movimento. La storia del movimento è storia di svolte, di riprese, di ricentrature. Una ricentratura sempre coincidente con la straordinaria e commossa constatazione della Presenza di Cristo in mezzo a noi, contrapposta al rischio, altrettanto sempre presente, di far scivolare la propria attenzione sulle conseguenze (operative o culturali) di tale Presenza. Su qualcosa di inessenziale dunque, rispetto all’eccezionalità dell’evento cristiano. In tale senso don Gius ha sempre ribaltato gli equilibri.
Ma oggi la difficoltà da parte di qualcuno di accettare le sollecitazioni di chi guida il movimento è straordinariamente coincidente con la difficoltà di accettare chi guida la Chiesa stessa. È una difficoltà speciale, una difficoltà dell’oggi, con caratteristiche uniche nel suo genere e che qualcuno giustamente assimila al ’68, anno in cui il movimento fu spazzato via dagli eventi per poi rinascere nel giro di pochi anni con più chiarezza. Non è un caso, d’altronde, che l’attuale battaglia sui diritti, sul gender, sulla famiglia, sia stata equiparata dal card. Angelo Scola alla rivoluzione del ’68.
D’altro canto don Giussani ha insegnato sempre a seguire il papa – anche quando non era Giovanni Paolo II -. Invece oggi chi fatica a seguire Carron, fatica anche a seguire papa Francesco e in numerosi casi si arriva ad un’aperta distinzione, compendiata di pubblici giudizi con accuse a volte altisonanti. Il tutto, si comprenderà, è altamente significativo e presenta richiami eccezionali, che possono aiutare a capire meglio la difficoltà dell’oggi.
2) Carron e Bergoglio – Giussani e Wojtyla. Ratzinger la chiave per capire 40 anni di storia e le proiezioni sul futuro.
Papa Bergoglio, pur con un temperamento e provenienze differenti, sta raccogliendo la sfida che Giovanni Paolo II, prima, e Benedetto XVI, poi, hanno lanciato al mondo. La sta raccogliendo e riproponendo in termini pressoché identici. È la stessa sfida che don Giussani ha lanciato agli inizi degli anni ’50.
(Nel filmato papa Francesco, in occasione dell’incontro del 18 maggio del 2013 con i movimenti, entra in San Pietro sulle note di Povera Voce, la canzone che meglio di tutte le altre identifica il carisma di Comunione e Liberazione)
Don Carron ha colto questa inflessione e sta lavorando con grande umiltà all’interno del movimento per mettere a fuoco il cuore della testimonianza di don Giussani e del magistero della Chiesa in questi ultimi decenni. Una testimonianza che non si riduce ad un pensiero predefinito ma, piuttosto, ad una continua premura per un’umanità ferita, manchevole di tutto, in primis del “senso delle cose”, della consistenza delle realtà effimere e quotidiane. Una premura che lascia nella storia perle di pensiero, di giudizi, di lungimiranti vedute sul reale ma che trova la sua origine nel cuore stesso dell’evento cristiano, ovvero la misericordia di Dio verso l’uomo. Ricordo la definizione di misericordia data da don Giussani ad una giornata di inizio d’anno degli universitari negli anni ’80. La misericordia è “una giustizia che ricrea” ed esemplificava con uno stupendo esempio: «la Misericordia di Dio sta in questo: che di fronte ad un corpo macilento, coperto di piaghe purulente, lo guarda e per l’unico centimetro di pelle sana, esclama “che bello”!».
Recentemente Avvenire ha pubblicato l’intervista che il teologo Jaques Servais ha ottenuto dal papa emerito Benedetto XVI ottobre scorso e finora inedita, nella quale Ratzinger spiega inequivocabilmente il nesso tra il suo pontificato (tacendolo, e dimostrando così un’umiltà ed una capacità di servizio alla verità che lo rende un gigante capace di primeggiare tra giganti della fede), quello di Giovanni Paolo II e quello di Francesco. Va letta interamente l’intervista -che peraltro ripresenta la grandezza anche intellettuale di questo papa e la sua capacità di visione profetica-, ma in sostanza Benedetto ci spiega perché la Misericordia è oggi la strada privilegiata della Chiesa. Ci spiega come l’umanità non sia più nella condizione in cui versava al tempo di Lutero – allora temeva il terrible giudizio di Dio, oggi imputa a Dio il male della storia – e come la strada della Misericordia sia l’unica efficace oggi. È questa la strada intrapresa con decisione da Wojtyla – non a caso devoto a S.Faustina, fondatrice delle sorelle della Divina Misericordia – e oggi da Bergoglio – che ha convocato l’anno Santo della Misericordia.
Una pubblicazione il cui significato ha ben colto il vaticanista del Corriere, di decennale esperienza, Luigi Accattoli, il cui articolo è titolato però in maniera superficiale e tale da aprire le consuete dispute: “il sostegno a sorpresa del papa emerito alla linea indicata da Francesco”. Le analisi sono condivisibili e acute, ma il titolo, con quel “a sorpresa”, è banale. Così come non è neppure corretta l’opposizione altrettanto giornalistica e superficiale di Antonio Socci, che usa maldestramente, a suo pro, un articolo apparso sull’Osservatore romano.
A parte questo aspetto, l’articolo di Accattoli riconosce perfettamente tutto il percorso indicato da papa Ratzinger e di fronte ad esso si inchina ammirato. Mette conto di riportare le righe in cui Ratzinger esplicita – per la prima volta – un giudizio sul suo successore.
Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia.
Al contrario, c’è chi ha saputo propagandare tale messaggio, stralciandone pochi passi, come esemplificazione e conferma di proprie tesi complottiste, rispetto alla rinuncia di papa Benedetto (uno dei gesti più grandi e coraggiosi della recente storia della chiesa, segno di grandezza e non di debolezza di Ratzinger, logica che tuttavia sfugge completamente in queste valutazioni terribilmente leggere). Ci riferiamo di nuovo ad Antonio Socci, i cui articoli su Lbero, raccolti nel suo Blog, sono un’ostinata opposizione (e con una continuità che lascia pensare ad una sorta di ossessione) al papa, identificato come il più grande nemico della Chiesa. Parole che richiamano quelle acri e ostili a Roma, pronunciate da Lutero 500 anni fa. Parole che avrebbero addolorato fino alla morte don Giussani, il quale, di fronte ad una Chiesa che in certi frangenti non lo ha certo “appoggiato”, manifestò sempre una fedeltà e una sequela commovente ad essa. Un don Giussani che ebbe il coraggio di affermare, con dolore fino alle lacrime, che “la Chiesa ha abbandonato l’uomo, poiché ha avuto paura, ha avuto vergogna di Cristo”, ma che ha combattuto col suo movimento nella più totale obbedienza alla gerarchia, fino ad esserne il fronte più fedele. Tutti i ciellini degli anni ’70 (per ridursi alla esperienza di cui posso attestare personalmente) hanno imparato l’obbedienza, costitutiva per la propria fede, al papa e ai vescovi all’interno del movimento di CL, mentre molti, forse la maggior parte, dei cristiani provenienti da esperienze parrocchiali, in quei tempi manifestavano mille distinguo e quasi giustificavano – in un’errata interpretazione di don Milani – la disobbedienza pratica e teorica alla gerarchia della Chiesa.
3) le evidenze (non sempre riconosciute)
Nel dibattito attuale, Carron e i responsabili delle varie comunità non stanno chiedendo un “serrate le fila”. Con un atteggiamento tipicamente “giussaniano” si sta chiedendo a tutti di giudicare nella propria esperienza quanto è in gioco, le scelte, le differenti posizioni. Si sta chiedendo se quanto di ciò che si va affermando corrisponda alle esigenze più profonde del proprio cuore. Il tentativo, coraggioso, è quello di scoprire qual è il ruolo di un cristiano nella società di oggi, di fronte alle nuove sfide. La proposta insomma è quella di verificare se sia vero (verificato nella propria personale esperienza) che l’unico compito è quello di testimoniare nel quotidiano la presenza di Cristo (il “caldo abbraccio del Mistero”, la misericordia, il Suo sguardo, una potenza eccezionale che cambia la vita da subito) , un Cristo da rilevare presente nell’unità dei credenti, ma in termini reali e operativi, non conclamati o sbandierati.
Se Cristo è presente, allora non c’è altro da fare che abbracciarLo, e allargare questo abbraccio a tutto il mondo. Ma Cristo “è presente se opera”, ed ecco il grande lavoro di giudizio sulla propria esperienza reale, in atto ora come sempre nel movimento.
In Comunione e Liberazione è sempre stato così. Questo il fascino e la fatica di stare di fronte al movimento. Una realtà urticante tanto è decisa nell’affermare l’essenziale.
È stato così per il grande intellettuale Testori, uno dei più forti amici di CL.
Giovanni Testori, omosessuale, intellettuale maledetto, rimase colpito da Cl, e lo ha detto più volte, non per un programma di lotta, non per teologie raffinate, né per altro. Quanto lo colpì fu la misericordia di Dio che arrivava attraverso i volti e l’umanità di alcuni ragazzi e poi dell’intero movimento.
Non condivideva tutto. Non divenne di CL. Ma seguiva il movimento per un di più di umanità, segno di quell’abbraccio. Oggi qualcuno stralcia anche i suoi interventi, decontestualizzandoli, per contrapporre impegno a testimonianza (denunciando la carenza dell’uno sull’altra). Ma dimentica che Testori fu perturbato e commosso dalla testimonianza di umanità, sola a dare senso alla lotta contro il potere (la sua affermazione “non c’è insurrezione senza resurrezione” è universale, mentre quella reciproca, “non c’è resurrezione senza insurrezione”, da lui pure sostenuta -vedi più sotto-, è legata alle contingenze, come è ovvio). Altro segno della partita in gioco, tutta tesa tra riduzione e apertura di orizzonte all’infinitezza del Mistero che si volge su di noi.
Qui trovate il testo integrale del bellissimo incontro del centro culturale San Carlo di Milano, che ha dato occasione alle consuete e desuete discussioni e che invece manifesta qual era e qual è l’impatto di chiunque, specie se un’anima ferita e intelligente come quella di Testori, con il movimento (ovvero con la visibilità di Cristo). In alcuni passaggi gli echi sulla misericordia sono gli stessi che udiamo oggi.
Così si esprimeva Testori a 10 anni dalla sua conversione, a 10 anni dal suo incontro con il movimento (ma poi il suo intervento merita una lettura completa).
Ma io sono sempre stato un cattivo cristiano, in certi momenti disperato, sono nato non solo in una famiglia cristiana, ma anche in una cultura cristiana. Non è una conversione: è una precisazione del mio povero modo di essere cristiano, a cui sono stato indotto dalla morte di mia madre. Mia madre, morendo, ha ridato peso, grembo, latte a questo mio povero modo di essere cristiano. Comunque, quando scrissi questi articoli, nessun vescovo, nessun cardinale, nessun uomo politico (della Dc) mi ha contattato. Mi hanno invece telefonato quattro ragazzi: «Siamo di Comunione e Liberazione: vorremmo parlarle». E sono venuti nel mio studio; la cosa che mi ha stupito è che non erano tutto quello che dicono essi siano. Non mi hanno mai chiesto niente: come fosse la mia povera vita, quali fossero i miei errori; ma mi hanno accolto (e io credo di averli accolti) come amici. Io non sono di Cl, voi lo sapete: sono molto vicino. Le sono vicino per una cosa sola: perché hanno questo senso dell’amicizia, questo senso dell’umanità, dell’integrità della fede, non è integralismo, checché ne scrivano, e sbagliano a scrivere così, perché scrivono per ignoranza, perché non li conoscono. Sono tutti di un pezzo, poi anche loro fanno errori, per fortuna. Però hanno questa rocciosità per quel che riguarda l’uomo (l’altro, il fratello, di qualunque idea sia, di qualunque stortura – Dio solo sa le storture che avevo ed ho io…). Loro non chiedono niente, non domandano conto di niente. Solo su questo piano di umanità. E io vorrei ricordare qui, forse in molti di voi lo sapete, e forse farà piacere sentirlo ai miei due grandi amici Tino Carraro e Pugelli; don Giussani mi raccontava in segreto (ma non è più un segreto, l’ho già raccontato) cos’è stato per lui la scoperta, il senso più abissale della sua posizione di prete e di uomo, quando subito dopo essere stato ordinato, in una delle prime confessioni, se non la prima, si è trovato di fronte a un giovane che, dall’altra parte del confessionale, non riusciva a dire, a parlare. E lui lo esortava: «non c’è niente che tu abbia fatto che non possa essere perdonato, che non possa essere accolto»; ma l’altro faceva fatica e don Giussani, con le parole che riesce a tirare fuori dalla sua fede, dalla sua umanità, lo invitava fraternamente. A un certo punto sente questo giovane dire: «ho ucciso un uomo». Don Giussani dice che è stato lì un attimo, un’eternità, e poi ha risposto: «Solo uno?». Poi mi diceva: «Lì ho capito cos’è la carità, la fraternità, l’amore, cos’è il perdono di cui lui è soltanto il tratto». E l’altro è scoppiato a piangere. Da allora sono diventati, credo, amici, lui è andato a confessare alle autorità il suo gesto e sono diventati amici. Io, perché sono diventato amico di quelli di Cl? Perché se io dicessi a loro tutte le porcate che ho fatto, direbbero “solo questo?”. Perdete pure tutto; ma non perdete questo senso “oltre tutto”, questa umanità che non si scandalizza di niente. Questo sapere che l’uomo può compiere qualunque gesto, può essere di qualunque parte, ma è prima di tutto uomo, figlio di Dio, creatura redenta da Dio diventato Uomo. Se perdiamo questo perdiamo il senso dell’incarnazione, cioè perdiamo il senso totale del nostro essere cristiani. Questa apertura, sì alla integrità, sì alla solidità, ma come mi diceva continuamente Giussani «senza carità», senza amore, anche la fede è niente. La fede è proprio questo amore: questo amore prima di tutto. Io devo ringraziare questi ragazzi (voi e quelli che c’erano prima di voi: voi siete l’ultima generazione) di questa capacità di amore, di umanità, perché arriverà il momento che la leggeranno anche quelli che oggi non la sanno leggere. Ma se anche non la leggeranno, non importa: l’importante è offrire.
Oggi come allora, questo accade in CL (e nella Chiesa). Oggi come allora CL è la comunità in cui passano le più profonde tensioni della storia, per presentarsi nella loro interezza al Dio che pone il Suo sguardo sull’uomo per riempirlo di sé.
Sotto la via crucis di CL di Rimini, svoltasi questa domenica (domenica delle Palme) con il propio vescovo. La comunità di Cl segue da anni la richiesta del vescovo di svolgerla la domenica delle Palme, così da poterla celebrare insieme.
Qualche giorno fa, ha fatto scalpore la notizia della denuncia di una donna bianca dell’Ohio, unita con la sua compagna, per aver ricevuto lo sperma di un afro-americano, anziché, come richiesto, di un donatore caucasico. Come spiega il Corriere della Sera, un banale errore nella lettura del numero che la banca del seme ha commesso insensatamente (fialetta 330, al posto della fialetta 380). Un banale errore di lettura…
Jennifer Cramblett e Amanda Zinkon avevano trascorso un anno a scegliere il donatore per poter diventare genitori e la scelta era caduta proprio su un uomo bianco perché le due donne vivono in una cittadina poco tollerante con gli afro americani, dove i bianchi rappresentano il 98% della popolazione. Attendevano una bimba bionda con gli occhi azzurri, ma è nata una bambina di razza mista
Ma la vicenda, che ha risvolti – è inutile negarlo – che lasciano affiorare uno strisciante e capillare razzismo tale da far rabbrividire (ambiente bianco, disagio nell’allevare un bimbo nero, e via dicendo), per quanto le due donne affermino che amano la loro bambina, nasconde aspetti ben più importanti.
Vi è uno stridore, uno senso di spaesamento che non va censurato.
Al di là di come la si pensi su questi temi, occorre chiedersi se non vi sia un vizio d’origine, un più radicale equivoco, un’insufficienza di ragioni e di verità nelle scelte, nelle strutture, nell’intera dinamica messa in atto da questo nuovo settore dell’industria medica.
Domandiamoci: ma è giusto selezionare il seme – e dunque l’aspettativa delle caratteristiche del figlio – nel modo che mostra l’immagine qui sotto? Non vi è forse qualcosa che non torna e che non c’entra nulla con la maternità e la paternità? Il figlio, questo mistero che non dipende da me, che non è frutto della mia biologia, ma esito totalmente imprevisto, quand’anche atteso, del mio amore per una donna (che non è come mi aspettavo, che compare nella vita come un elemento del tutto nuovo all’orizzonte), è ancora lì, davanti a me, capace, con la sua novità assoluta e incontenibile, di ridare speranza alla nostra vecchia civiltà?
Lo vedo ancora, offuscato dal mercato delle banche del seme?
I nostri figli non ci appartengono, sostiene la saggezza popolare (sono un dono del cielo, dicono i vecchi), e Gibran utilizza la metafora poetica dell’arco e della freccia.
I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie dell’ardore che la Vita ha per sé stessa.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e non vi appartengono benché viviate insieme. (…)
Voi siete gli archi da cui i vostri figli come frecce vive,
sono scoccati lontano.
Queste news diventeranno sempre più frequenti, così come le pratiche sempre più sbrigative. Entrambe denunciano un deficit che sta all’origine. È una carenza ontologica, una mancanza di senso, un vuoto dell’Essere, che non può essere colmato in questo modo.
È cercare dove non si trova, evitare la ferita lacerante e dolorosa di una mancanza che – proprio essa, che noi disdegnano – è l’unico punto di speranza per un nuovo inizio.