Il ricordo che non oblia

Pubblicato su buongiornoRimini

È singolare come sia facile al contempo celebrare il tema della memoria e del ricordo, e cadere nel più profondo oblio delle ragioni per cui meritano di esistere giornate di questo genere. Oggi, a lezione, uno studente mi chiede: “ma perché ricordare queste persone, questi eventi?”. Domanda tutt’altro che banale, anche alla luce di quel che si vede ripetersi attorno a noi, tra scontri di vecchie ideologie, polemiche pretestuose, parzialità terribili nel ricordare i drammi del nostro tempo.
Per anni abbiamo giustamente celebrato nella Giornata della Memoria (27 gennaio) la tragedia dell’Olocausto (unica nel suo genere), inorridendo per le violenze razziali perpetrate dai Nazisti. Tuttavia troppo spesso questa celebrazione ha avuto un sapore strano, un retrogusto d’artificiosa parzialità, una sorta di occulta retorica falsante che rendeva quel momento non pienamente autentico. Con l’istituzione della Giornata del Ricordo, nel 2004, – giornata che cade il 10 febbraio– si è tentato di porre un parziale rimedio a quell’oblio occulto. Con il ricordo dei caduti nelle foibe e dell’esodo degli italiani del confine orientale, si è finalmente guardato qualcosa che era sotto casa, vicino, prossimo, e dunque ancor più scandalosamente taciuto.
Ma per rispondere alla domanda del nostro studente, occorre fare uno sforzo ulteriore.

Se andiamo a vedere i grandi drammi del Novecento, troveremo un tratto comune, che ci aiuterà in questa ricerca.
Sforzandoci un po’ in questo esercizio di memoria, troveremo ad inizi Novecento la tragedia che il giurista Raphael Lemkin, colui che poi nel ’44 coniò il termine genocidio, intese sottoporre all’attenzione della stessa Società delle Nazioni.

Le marce della morte degli Armeni

Si tratta del genocidio degli Armeni, perpetrato dai Turchi nel 1915 (si parla di circa un milione e mezzo di morti). Ignoto per il grande pubblico e nelle scuole fino a una quindicina di anni fa, tutt’oggi è ben poco conosciuto. Per non parlare della tragedia dell’ Holodomor, ovvero la morte procurata per fame da Stalin agli Ucraini, notoriamente ostili ai principi della rivoluzione, all’interno del contesto della grande carestia ad inizio degli anni ’30 in URSS. Anche questo evento rientra, a parere di Lemkin, nel novero dei genocidi.


Proseguendo questa carrellata esemplificativa, incontriamo la tragedia di Katyn, dove l’URSS tentò di azzerare la coscienza nazionale polacca, decapitandola delle sue classi dirigenti. Ben 22mila ufficiali dell’esercito, a freddo e senza motivazione bellica, furono uccisi e sepolti in fosse comuni presso Katyn. Malgrado da subito fosse chiara la cronologia dell’evento, attestato da rilievi degli operatori della Croce rossa, e dunque la responsabilità dei russi allora occupanti (1940), gli stessi riuscirono ad accreditare fino agli anni ‘90 la tesi della colpevolezza dei nazisti, giunti 3 anni dopo in quell’area e scopritori delle fosse.

Harry Wu

Possiamo poi prendere in considerazione i Laogai, i lager cinesi, tuttora attivi e ben poco noti salvo ai lettori più attenti (il test sui miei studenti ha dato risultati pari a zero per tutto quanto sopra citato), di cui, qui a Rimini, dieci anni fa, potemmo ascoltare una descrizione da un testimone diretto, Harry Wu, ospite del Meeting.

Ma gli stessi Lager russi, fino agli anni ’80 erano un tabù per l’opinione pubblica di massa.
Mi permetto inoltre di tornare a inizio secolo, viaggiando al di là dell’oceano, per ricordare la guerra cristiada, combattuta dal popolo messicano contro la laicizzazione forzata dei governi rivoluzionari di ispirazione massonica.

Il tratto comune di queste esperienze, pur così diverse, è chiaro.
Pur nella loro estrema differenza, queste esemplificazioni (qui necessariamente riportate per cenno e dunque senza i tanti dettagli e distinguo che sarebbero fondamentali per una più approfondita descrizione) possiedono un tratto comune che ci rilancia fortemente sull’oggi e che rende ragione alla preziosa domanda del mio studente, “ma poi perché oggi ricordare questi eventi?”.
Si tratta di un elemento comune che eccede – per spregiudicatezza, dimensioni, brutalità – ogni altra ragione (di potere, di carattere economico o politico, o che faccia capo a violenze e vendette). In tutti questi casi assistiamo al tentativo di costruire una società sulla base di un programma politico che azzera l’uomo reale, la società esistente, il popolo nella sua concreta espressione effettiva. In nome della razza da ripristinare nella sua purezza, in nome della giustizia sociale, in nome di un astratto progresso frutto della pura ragione o in nome di un nazionalismo di maniera, troviamo regimi che si sentono legittimati – e dunque zelanti nell’esercizio del loro potere – a ridefinire i connotati di un popolo, eliminando chi non rientra in quanto già definito.

Oggi occorre tornare a ricordare quegli eventi, perché se ne riconosca l’origine comune, quel vizio della contemporaneità che si condensa nel cedimento alle ideologie portatrici di una tentazione totalitaria. Di contro si tratta di comprendere quale sia l’unico valore che possiamo affermare nella storia, attraverso un’azione politica autenticamente costruttiva: la libertà dell’uomo. Quell’uomo concreto, in carne ed ossa, portatore di limiti ma anche di risorse preziose (talora imprevedibili), e che tuttora è dimenticato, cacciato nell’oblio a causa di slogan, proclami, parole d’ordine, magari foriere di voti ma dimentiche di chi è il reale protagonista delle azioni che proclamiamo.
In fondo è una terribile leggerezza che dobbiamo lasciarci alle spalle e la forza drammatica che alcuni eventi passati possiedono può risvegliarci e farci accorgere che non è possibile accontentarsi di “un gioco tattile sulla superficie delle cose” (Nietzsche), specie se si parla della cosa pubblica e dell’interesse di milioni di persone.

La drammatica vicenda degli esuli italiani del confine orientale, dovrebbe farci ricordare che erano uomini in fuga non solo da vendette legate al conflitto, ma da un regime che mostrava tratti disumani, uomini non accolti adeguatamente dalla stessa loro nazione, spesso in nome di un principio ideologico analogo a quello che fuggivano. Una ostilità ideologica che oggi si ripropone in forme nuove e secondo nuovi slogan. Una “leggerezza” politica che dobbiamo assolutamente sconfiggere, affinché si affermi l’unica risorsa tanto del nostro come di ogni tempo: l’uomo, quale io unico e irripetibile, mai riducibile a categoria sociologica.

Il Natale nel nuovo millennio: la commossa meraviglia per una bellezza povera e drammatica

Spesso Giovanni Paolo II parlava dell’avvento del nuovo Millennio come il tempo di una rinascita del Cristianesimo e di una nuova evangelizzazione (“aprite le porte a Cristo”). Papa Benedetto ha precisato come dovessero cadere tutte le “conseguenze” del Cristianesimo, per attestarci sull’essenziale: Dio che ci viene incontro (parlava di “minoranze creative” e prefigurava il disegno di una chiesa che ha perso e perderà ogni potere mondano). Papa Francesco sta operando fattivamente secondo la dinamica dell’incontro, testimoniando la prossimità di Dio in ogni situazione, in ogni storia particolare, con un impeto tutto nuovo e con forme sorprendenti e libere.

L’esperienza umana, per credenti e non credenti che seguano attentamente il cammino di consapevolezza della Chiesa degli ultimi decenni, è appassionante. È la scoperta continua di una positività insperata, ancor più luminosa se nascosta nelle pieghe più buie della vita. È una “impossibile” positività che vince e si afferma, seppure visibile solo agli occhi di chi è abbastanza “povero” da poter vedere.

Trovo riassunta in questa dinamica tutta la migliore filosofia che gli autori, che insegno da anni, propongono (Socrate, Platone, Tommaso, ma anche Kant stesso ed alcuni aspetti del tanto vituperato Hegel o di Marx, per non dimenticare Nietzsche o Heidegger).  In questo gioco sottile della natura con la ragione, di Dio con l’uomo, si inscrive la grande ricerca della verità di sempre.

Il Natale è semplice ma non è cosa da poco.

È la grandezza di un Mistero che ci dona la ragione per comprendere la realtà e poi sceglie ciò che è impossibile per la ragione per darci una luce definitiva sulla vita.

Ed è necessario che sia così.

Proprio in questi giorni a lezione, studiando Cartesio e Pascal, emergeva come l’intelletto  non possa afferrare il cuore dell’esistenza (ma poi lo sostiene anche, sorprendentemente e criticando l’illuminismo, il giovane Hegel, emblema del razionalismo moderno). Come dunque afferrare il cuore dell’esistenza se non oltrepassando quella ragione, i cui concetti  la mia docente tomista (Sofia Vanni Rovighi) definiva con termini pascaliani, “grandezza e miseria del genere umano”?

Il Natale per un filosofo è cosa strana. Da una parte la sua semplicità e quotidianità lo lasciano attonito e quasi smarrito. Come fosse troppo poco. Dall’altra lo affascinano e lo attirano, come un segreto che pre-sente ma non conosce, un segreto rivelato ai piccoli e di cui lui, che fa del conoscere il suo mestiere, non ne sa nulla.

Trovandomi con numerosi colleghi per una cena insieme, ed essendo prossimi al Natale, ho voluto regalare  loro il Volantone che alcuni amici preparano ogni anno. Ho desiderato in realtà condividere  quanto  ha voluto dire per me questo foglio di carta quest’anno,  riassunto in un video che ho proposto a colleghi, studenti e amici, e che  trovate qui sotto.

Il volantone è una foto , accompagnata da una frase di un altro mio docente all’università (e molto più che un docente), don Luigi Giussani.

Una “storia particolare” è la chiave di volta della concezione cristiana dell’uomo, della sua moralità, nel suo rapporto con Dio, con la vita, con il mondo. La nostra speranza è in Cristo, in quella Presenza che, per quanto distratti e smemorati, non riusciamo più a togliere – non fino all’ultimo briciolo, almeno – dalla terra del nostro cuore per tutta la tradizione dentro la quale Egli è giunto fino a noi.

Quando l’ho visto la prima volta, distrattamente, ho pensato a una suggestiva foto di un presepe. Il tema è, in un bianco e nero cupo, la luce che promana dalla capanna di Betlemme. Osservando meglio, ci si avvede che si tratta di migranti. E qui mi sovviene la lezione che per un corso di aggiornamento  di filosofia avevo udito un paio di mesi fa. Il prof. Elio Franzini, descrivendo la “natura del bello”, concluse in maniera commovente, citando San Francesco e definendo la “bellezza della povertà” quale chiave per capire la natura più profonda del bello.

È anche la chiave di questo volantone che, uscendo – come accadde già diversi anni fa più volte per quello analogo di Pasqua –  dall’immagine iconografica classica, lancia un messaggio eccezionale. Il messaggio che Franzini, inconsapevolmente, ci ha lanciato ad ottobre: “guardiamo queste immagini – si riferiva a drammatiche foto di migranti – vi è una bellezza povera, drammatica, che non ha bisogno di parole ma finché non comprenderemo questa bellezza povera e drammatica noi non comprenderemo il senso che la bellezza ancora oggi ha per noi”.

Il Natale è per tutti, come ha scritto Carron. Il Natale è per questo nuovo millennio, tempo in cui abbiamo smarrito la nostra ricchezza. Il Natale ci permette di guardare nuovamente e realmente quella realtà che ci appare spoglia e povera ma che nasconde una ricchezza inestimabile: l’amore di un Dio che si fa compagno della nostra intera esistenza e che nulla al mondo ci può strappare di dosso o può allontanare dalla nostra vita, qualsiasi condizione stiamo attraversando.

La croce e la svastica

Inauguro con questo articolo, una serie di pubblicazioni che saranno a supporto delle mie lezioni. Rilevo da sempre che quanto nasce come dialogo con gli studenti sia di straordinaria attualità e interesse per tutti. Ecco dunque la sperimentazione di questi articoli “ibridi”: nascono dalla vita a scuola per giungere all’attenzione di tutti, nella speranza di avere tempo ed energia per moltiplicarli.  Potranno essere aggiornati e ripubblicati in date successive, a seconda delle esigenze delle mie lezioni, entro il cui contesto nascono.

Lo scorso anno, un’alunna – non di una mia classe-, in un momento di studio comune tra più studenti di varia provenienza, con estremo candore, esclamò: “Sì certo, il nazismo è nato in ambito cristiano ed anti-ebraico. È una espressione del cristianesimo”. Alle mie obiezioni, che si incentravano sul carattere neopagano del nazismo, come facilmente si evince dall’ideologia che il Fuhrer esprime nel Mein Kampf, le risposte della studentessa facevano leva su una chiara vulgata basata su elementi superficiali ma diffusi, ben propagandati e attestati anche nella scuola. Allora ci si lasciò con qualche domanda in più, ed è già tanto.

Eppure, nei due recenti viaggi,  Berlino e ad Auschwitz, le nostre guide – di diverse provenienza culturale  e in ogni ambito visitato (dal Museo ebraico alla Topografia del terrore, tanto al campo di concentramento di Auschwitz così come di fronte al totalitarismo rosso, ovvero al Museo della Stasi o alle carceri della Stasi) –  hanno sottolineato sempre come tra le prime vittime dell’intolleranza nazista vi fossero stati i sacerdoti.  “Sul campo”, le cose, i fatti, le questioni assumono i loro contorni completi.

Questa distanza – tra quanto raccontato in situazione e quanto recepito dai media a casa propria –  mette bene in luce come vi siano  distorsioni terrificanti in certe forme di esposizione storica.

Certo. Il concordato con Hitler, i silenzi imbarazzanti, il tentativo di evitare uno scontro diretto col regime (motivato dall’esigenza di evitare più profonde sofferenze al popolo stesso), posso essere letti come risposta errata della diplomazia vaticana ad una situazione di cui però si dovrà ammettere almeno la criticità. Arrivare invece a leggerne una collusione, anzi una coesione di carattere culturale, è decisamente una distorsione della prospettiva storica.

D’altro canto così si esprime il manuale (pur valido) in adozione nelle mie classi :

Il rapporto con le Chiese
Anche tra i cristiani vi furono degli oppositori ma soprattutto dopo il 1936. Nei primi
anni, infatti, il regime nazionalsocialista non incontrò difficoltà nei rapporti con le due Chiese tedesche, quella cattolica e quella protestante. (…). I cattolici in genere non manifestarono alcuna opposizione al regime, nonostante anche il partito cattolico del Zentrum fosse stato sciolto.

Una sintesi che può facilmente trarre in errore (solo in parte compendiata poi dalle righe successive). Fa infatti pensare ad un’adesione lineare, semplice, tranquilla da parte del popolo cattolico al regime, salvo qualche “testa calda”. Come vedremo più innanzi nel video che proponiamo – ricco di testimonianze dirette – le cose non stanno così.
Vi è chi vuol piegare il discorso tuttavia espressamente verso un’equazione decisamente antistorica e costoro, diciamolo pure, devono avere dalla loro parecchia forza economica.

Oliviero Toscani, nell’ideare il manifesto del film  Amen di Costa Gavras pensò nel 2002 ad un’immagine che accostava i due simboli, la svastica e la croce, unificandoli. Un chiaro messaggio che intelligentemente la ragazza di cui sopra, chissà da quali altre fonti analoghe, raccolse. L’efficacia mediatica di professionisti ben pagati funziona. Lo sappiamo bene. Una identificazione che d’altro canto serpeggia nel film, in parte basato su documentazione reale, in parte su personaggi inventati. Una tecnica, anche questa, ben diffusa da tempo (parziali verità sono assai funzionali nel costruire una menzogna più credibile).

Ma basta poco per capire l’esatta entità -e complessità- delle cose.

Infatti il Nazismo è evidentemente un neo paganesimo che si ispira ad una ideologia irrazionalistica e vitalistica (e dunque contraria a tutta la tradizione teologica cattolica, nonché europea) e che pesca in miti pre-cristiani.

Così si esprime L. Poliakov in  Il nazismo e lo stermino degli Ebrei, Torino 1961

Hitler sognava di estirpare la religione cristiana e di sostituirla con un nuovo culto e una nuova morale, “una fede forte ed eroica…in un invisibile Iddio del destino e del sangue”.  Stavano a disposizione del “grande semplificatore” tutte le dottrine pangermaniste, le teorie razziste, le semplici credenze popolari che proliferavano in Germania; da esse egli trasse la materie prima per facili e accessibili dogmi. (…) …L’anima della razza, il sangue, il Volk, oggetti di sacra reverenza, resterebbero nozioni vaghe e fluide se non fossero rese tangibili agli occhi dei fedeli opponendo ad esse un’antirazza, un antipopolo.

Antirazza e antipopolo rintracciati per l’appunto negli ebrei. D’altro canto Albert Einstein, ebreo, così ebbe modo di esprimersi:

“Essendo un amante della libertà, quando avvenne la rivoluzione nazista in Germania, guardai con fiducia alle università sapendo che queste si erano sempre vantate della loro devozione alla causa della verità. Ma le università vennero zittite, e non protestarono. Allora guardai ai grandi editori dei quotidiani che in ardenti editoriali proclamavano il loro amore per la libertà. Ma anche loro, come le università vennero ridotti al silenzio, soffocati nell’arco di poche settimane, e non protestarono. Solo la Chiesa rimase ferma in piedi a sbarrare la strada alle campagne di Hitler per sopprimere la verità. Io non ho mai provato nessun interesse o stima particolare per la Chiesa prima, ma ora provo nei suoi confronti grande affetto e ammirazione, perché la Chiesa da sola ha avuto il coraggio e l’ostinazione per sostenere la verità intellettuale e la libertà morale. Devo confessare che ciò che io una volta disprezzavo, ora lodo incondizionatamente”.
(da Intervista di Albert Einstein, Time magazine, 23 dicembre 1940)

L’espressione di Einstein fu da lui successivamente confermata, seppure moderata, come si desume da una lettera (1943) che  conferma questo suo pensiero seppure in forma più blanda e sebbene successivamente affermi che non coincida con la sua posizione di fondo rispetto alla Chiesa.  Rimane che egli sapeva della pubblica e che non venga richiesta al giornale alcuna smentita.
Interessante peraltro la recensione al testo di Luciano Garibaldi, O la Croce o la Svastica,  che troviamo sul sito di IBS, in cui si riportano alcune ulteriori testimonianze (poi ovviamente reperibili dentro il testo in maniera estesa).

Il primo religioso tedesco a finire in un lager fu il gesuita Josef Spieker. In una predica a Colonia, nel 1934, aveva esclamato: “La Germania ha un solo Führer ed è Cristo!”. Il primo a essere eliminato dai nazisti fu monsignor Bernhard Lichtenberg, arciprete della cattedrale di Berlino: aveva pregato assieme a un gruppo di ebrei. Non fu che l’inizio di una sfida che si concluse con il sacrificio di quattromila sacerdoti e religiosi cattolici. Il presente libro racconta la storia dei rapporti tra la Chiesa e il Nazismo chiudendo la disputa sui presunti silenzi di Pio XII, il papa che Reinhard Heydrich – il promotore della “soluzione finale del problema ebraico” – in un rapporto segreto definì “schierato a favore degli ebrei, nemico mortale della Germania e complice delle potenze occidentali”. Sono molte le vicende ricostruite da Luciano Garibaldi in queste pagine: a cominciare dalla testimonianza del generale Karl Wolff che ricevette da Hitler l’ordine di arrestare Pio XII, ma riuscì a vanificare quel progetto, meritandosi l’assoluzione a Norimberga. E poi i due enigmi che ancora accompagnano Claus Von Stauffenberg, l’ufficiale che il 20 luglio 1944 tentò di uccidere il Führer: se cioè sia vero che il colonnello prima di collocare la bomba si confessò dal vescovo di Berlino, ne ottenne l’assoluzione e si comunicò; e se si possa affermare che il Vaticano fu preventivamente informato dell’Operazione Valchiria.

Ben nota d’altro canto è l’esperienza dei ragazzi della  Rosa bianca, a cui è dedicato un film (Sofie Scholl) che descrive con cura filologica gli ultimi giorni di vita di questa interessantissima esperienza di opposizione al nazismo in nome della bellezza, della ragione e della fede, e sulle cui singole figure venne editata una mostra che si può scaricare in rete a questo indirizzo (scaricabili i file zippati  ai link in fondo pagina).

A mettere in chiaro la situazione secondo canoni equilibrati,  contribuisce una pregevole ed ampia documentazione storica, raccolta nella trasmissione del ciclo La Grande Storia di Rai 3.

Mettendo a disposizione anche filmati inediti, descrivendo il quadro dello sviluppo del regime in maniera complessa ed estesa, permette di superare sintesi divulgative, contraddittorie con la natura dei due fenomeni: la fede cristiana ed il nazismo. Il tutto, pur non omettendo tutti i passaggi più critici, tra cui il tentato compromesso (peraltro fallito, a dispetto del Concordato), inserendoli però nel loro contesto completo.

È davvero una visione preziosa per capire meglio ed acquisire una più precisa conoscenza di quel che il regime nazista fu nelle sue radici ideologiche, troppo spesso ridotte a un generico “fascismo” (che fu cosa ben definita e tutta italiana, con sue specifiche criticità) o ad un autoritarismo di destra, perdendosi invece il carattere quasi mistico e millenaristico che lo contraddistinse, rendendolo un fenomeno unico e terrificante nella sua macabra identità ideologica.

Una identità chiaramente anti europea ed anti cristiana. Aspetto che va detto chiaro e tondo, senza alcuna ombra e mistificante semplificazione.

Riproponiamo il documentario nella sua visione integrale dal sito Daily motion in questi due link.

La Croce e la svastica 1^ parte

La Croce e la svastica 2^ parte

La scintilla 2 – Con i miei studenti a scoprire la battaglia contro il nulla

Come già scritto, lavorando sui totalitarismi con le mie due quinte, in occasione dell’imminente viaggio, a Monaco l’una, a Berlino l’altra, abbiamo scoperto una luce quanto mai interessante per leggere l’attuale situazione di violenza e paura, scatenata dagli attentati di Parigi.

Non un evento che riguarda altri, un passato già sepolto (Nazi-comunismo) o persone di altra civiltà e cultura (Isis). Ma un evento che riguarda noi. Riguarda le ipocrisie, recenti e remote, dei potenti e delle persone comuni che si abbeverano a slogan dal fiato corto. Riguardano noi, riguardano me e te, e “l’egoismo sdrucciolo che abbiamo tutti quanti” (Guccini, Libera nos domine).

Per questo ho apprezzato enormemente l’ “azione” dei ragazzi che si sono resi disponibili a proseguire il lavoro svolto a lezione, con ore aggiuntive (e non dovute), guardando e ragionando su film come La Rosa bianca (totalitarismo nazista) e le Vite degli altri (totalitarismo comunista) insieme a docenti (di filosofia e storia, ma anche religione, fisica, matematica) che allo stesso modo hanno giocato il loro tempo per un qualcosa di non scontato, non dovuto. Gratuitamente.

C’è un segreto importante in questa piccola mossa degli studenti e dei prof implicati, capaci di commuoversi di fronte a vicende e temi di questo genere. Ci siamo mossi insieme attorno alla ricerca di un vita nella verità.

Il film Le vite degli altri, anticipato dalla lettura di un brano del libro dell’allora dissidente Vaclav Havel, Il potere dei senzapotere  (1978), ha messo a fuoco il motivo di questo muoversi e commuoversi.

La svolta della vita dell’aguzzino della Stasi avviene dopo l’ascolto della Suonata per un uomo buono, il cui spartito viene regalato da un caro amico, rovinato dal regime e poi suicida, allo stesso protagonista (Georg Dreyman.‎). Dopo averla  suonata, Georg Dreyman esclama, “ma se uno ha ascoltato, veramente ascoltato, questa musica, come può continuare ad essere ancora cattivo?”.

La suonata viene associata, sempre dal protagonista, all’Appassionata di Beethoven, il brano con cui ho iniziato ad amare la musica classica, allora 19enne… musica poi compagna di una vita intera e che spesso faccio ascoltare ai miei studenti.

Non ho potuto non ricordare, a conclusione del film, un passo di T.S. Eliot che mi è sovvenuto alla mente immediatamente…  “Sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono”.

In fondo il totalitarismo è il grande tentativo, ancora in corso in forme diverse, di realizzare questi “sistemi”.

Il totalitarismo non è lontano da noi. È l’esperienza dell’ottundimento della ragione, l’oblio dell’amore al bello e al buono, l’indifferenza all’altro, la perdita del gusto della ricerca della verità, il fermarsi all’esecuzione dei propri compiti senza che nulla ci strappi dal nulla, quel nulla in cui cade necessariamente la nostra esistenza se non ci accorgessimo della presenza di un “alone di splendore (che) aleggia sulla vita degli uomini” (Christoph Probst, membro della Rosa Bianca).

Questo alone di splendore va riconosciuto, contendendo  “palmo a palmo il terreno alla notte” (don Giussani).

Una bella battaglia. Questa la vera battaglia, questi i “compagni di lotta”, contro cui l’ISIS non ha chanche di vittoria.

Di compagni di lotta così ne ho conosciuti tanti nella mia vita e ne conosco ogni giorno di nuovi. Uomini (alcuni cristiani, altri islamici, altri ancora non credenti) capaci di desiderare ancora il bello, il vero, il buono.

Ma quegli uomini che hanno ucciso che speranza avevano? La donna, Hasna, era una dirigente d’azienda, bella, brillante… ma odiava la Francia, paese d’infedeli. Altri erano imbottiti di droga, per reggere il grande passo verso la morte. Altro che Martiri. Martiri sono i 19 Egiziani Copti che benedicono Cristo, mentre il boia impartisce loro una morte che non desideravano. 19 giovani che vivevano per qualcosa di più forte della morte.

I criminali dell’ISIS, non immigrati, ma nativi in Europa, non balordi ma colti e affermati – così taluni -,  che Francia ed Europa hanno incontrato? Come non essere tristi per non aver saputo loro testimoniare nulla di buono?

Per questo la lotta al nulla, che accomuna noi e l’Isis, noi nella nostra impotenza a testimoniare una speranza, l’Isis nella sua folle traduzione della disperazione in un progetto totalitario e irrazionale, così simile al Nazismo per la sua crudeltà e lucida pazzia, passa per scintille di bellezza e di vita diversa. Come quella messa in atto, pur forse inconsapevolmente, dai miei ragazzi e colleghi. Per questo dico loro grazie.

Scintille di vita buona. Come quella in cui si darà esplicita manifestazione con il grande gesto di gratuità della Colletta alimentare del 28 novembre. Un puro gesto di gratuità che spezza il grigiore del quotidiano e fa riscopre l’alone di splendore di cui ben si accorgeva il martire per la libertà Probst. Anche per questa iniziativa, occorre dire grazie a tutti coloro, studenti, amici, che si stanno mettendo in gioco e mi testimoniano che l’ISIS non può vincere.

Scintille di vita diversa, per imprimere alla vita un corso diverso dal nulla a cui ci vogliono portare, soavemente con le note di un motivetto alla moda, o crudelmente, con il volto accigliato di un terrorista islamico.