È un tempo straordinario per la Chiesa e l’umanità intera. Una situazione in cui ogni certezza ha il bisogno di essere rifondata, ricostruita, riconquistata. Un tempo in cui siamo chiamati a combattere un’immane lotta, uno ad uno, per uscire dall’anestesia degradante che abbraccia la “folla”.
Un tempo che è l’apice della ricchezza e della povertà.
1) Il fatto.
In questo tempo è pressoché normale che vi siano fibrillazioni, incomprensioni, situazioni di tensione. Questo accade sia al livello della storia universale (sistemi politici ed equilibri economici pluridecennali tremano, la Chiesa è stata definita una barca sballottata dalle acque…) che particolare. Così si spiegano, ad esempio, alcune discussioni che si stanno amplificando all’interno di Comunione e Liberazione, movimento che da sempre ha saputo vivere sulla frontiera del tempo, mai evitando le sfide del presente e sapendo selezionare i reali crinali della storia, dalle battaglie riduttive, indotte dal potere.
Anche CL, al pari della Chiesa, vive le medesime tensioni interne. Una parte, pur minoritaria, del movimento, oggi mette in discussione il riferimento del nuovo leader del movimento, don Julan Carron, al fondatore don Luigi Giussani. Una messa in discussione che, al di là dei numeri esigui, seppur qualificati, è decisiva, e non solo per Cl. E dunque va capita bene.
È stato lo stesso Giussani ad aver indicato con chiarezza la prosecuzione del suo carisma in Carron. Cito alcune espressioni riportate in più ambiti: “in Spagna vi sono gli echi delle origini del movimento”, oppure “nell’amicizia di un gruppo di preti spagnoli si gioca la permanenza del carisma nel movimento”. Non ho la possibilità di essere testuale ma che esse siano più che reali, lo attesta una fonte decisamente autorevole. Don Stefano Alberto – detto don Pino – per lungo tempo è stato ritenuto, e a ragione, il possibile successore del Gius alla guida di CL. Ebbene, con sferzante ironia rispetto a chi avanza dubbi e resistenze, don Pino ha sostenuto la seconda delle due frasi in un breve passaggio durante un incontro dell’estate scorsa, in occasione della presentazione del libro “Voglio tutto“, dove si raccoglie la storia di una ragazza, decisamente “giussaniana”, avendone vissuto il carisma con impressionante immedesimazione. Don Pino ricorda la posizione di don Giussani, maturata fin dagli inizi degli anni ’90 su questo tema e ne evidenzia il criterio (già esplicitato da Giussani): l’unità, l’amicizia.
Malgrado questa volontà esplicita, malgrado il giudizio chiaro nel criterio (unità contro interpretazione, si legga per questo la relazione dell’incontro nelle parti finali) e malgrado i frutti e la fioritura del movimento – tra i quali Marta è uno dei più belli e dolorosi-, che continua ad essere ricco di testimonianze vive di fede e di impegno nella società, vi è chi fatica a comprendere tale nesso tra l’origine del movimento e l’amicizia dei preti spagnoli.
Nulla di nuovo da una parte. Da sempre don Gius si è dimostrato un passo avanti rispetto al movimento “che aveva visto nascere” attorno a lui, richiamandolo, sollecitandolo, costringendolo ad un cambio di passo. Chi ne ha fatto e ne fa parte sa bene cosa si intenda dire. Per tutti gli altri è sufficiente ripercorrere i testi di don Giussani o la Vita di don Giussani di Alberto Savorana, oppure se non ci si vuole rifare a questa recente opera (recente dunque “carroniana”), si può far capo alla trilogia di mons. Massimo Camisasca sulla storia del movimento. La storia del movimento è storia di svolte, di riprese, di ricentrature. Una ricentratura sempre coincidente con la straordinaria e commossa constatazione della Presenza di Cristo in mezzo a noi, contrapposta al rischio, altrettanto sempre presente, di far scivolare la propria attenzione sulle conseguenze (operative o culturali) di tale Presenza. Su qualcosa di inessenziale dunque, rispetto all’eccezionalità dell’evento cristiano. In tale senso don Gius ha sempre ribaltato gli equilibri.
Ma oggi la difficoltà da parte di qualcuno di accettare le sollecitazioni di chi guida il movimento è straordinariamente coincidente con la difficoltà di accettare chi guida la Chiesa stessa. È una difficoltà speciale, una difficoltà dell’oggi, con caratteristiche uniche nel suo genere e che qualcuno giustamente assimila al ’68, anno in cui il movimento fu spazzato via dagli eventi per poi rinascere nel giro di pochi anni con più chiarezza. Non è un caso, d’altronde, che l’attuale battaglia sui diritti, sul gender, sulla famiglia, sia stata equiparata dal card. Angelo Scola alla rivoluzione del ’68.
D’altro canto don Giussani ha insegnato sempre a seguire il papa – anche quando non era Giovanni Paolo II -. Invece oggi chi fatica a seguire Carron, fatica anche a seguire papa Francesco e in numerosi casi si arriva ad un’aperta distinzione, compendiata di pubblici giudizi con accuse a volte altisonanti. Il tutto, si comprenderà, è altamente significativo e presenta richiami eccezionali, che possono aiutare a capire meglio la difficoltà dell’oggi.
2) Carron e Bergoglio – Giussani e Wojtyla. Ratzinger la chiave per capire 40 anni di storia e le proiezioni sul futuro.
Papa Bergoglio, pur con un temperamento e provenienze differenti, sta raccogliendo la sfida che Giovanni Paolo II, prima, e Benedetto XVI, poi, hanno lanciato al mondo. La sta raccogliendo e riproponendo in termini pressoché identici. È la stessa sfida che don Giussani ha lanciato agli inizi degli anni ’50.
(Nel filmato papa Francesco, in occasione dell’incontro del 18 maggio del 2013 con i movimenti, entra in San Pietro sulle note di Povera Voce, la canzone che meglio di tutte le altre identifica il carisma di Comunione e Liberazione)
Don Carron ha colto questa inflessione e sta lavorando con grande umiltà all’interno del movimento per mettere a fuoco il cuore della testimonianza di don Giussani e del magistero della Chiesa in questi ultimi decenni. Una testimonianza che non si riduce ad un pensiero predefinito ma, piuttosto, ad una continua premura per un’umanità ferita, manchevole di tutto, in primis del “senso delle cose”, della consistenza delle realtà effimere e quotidiane. Una premura che lascia nella storia perle di pensiero, di giudizi, di lungimiranti vedute sul reale ma che trova la sua origine nel cuore stesso dell’evento cristiano, ovvero la misericordia di Dio verso l’uomo. Ricordo la definizione di misericordia data da don Giussani ad una giornata di inizio d’anno degli universitari negli anni ’80. La misericordia è “una giustizia che ricrea” ed esemplificava con uno stupendo esempio: «la Misericordia di Dio sta in questo: che di fronte ad un corpo macilento, coperto di piaghe purulente, lo guarda e per l’unico centimetro di pelle sana, esclama “che bello”!».
Recentemente Avvenire ha pubblicato l’intervista che il teologo Jaques Servais ha ottenuto dal papa emerito Benedetto XVI ottobre scorso e finora inedita, nella quale Ratzinger spiega inequivocabilmente il nesso tra il suo pontificato (tacendolo, e dimostrando così un’umiltà ed una capacità di servizio alla verità che lo rende un gigante capace di primeggiare tra giganti della fede), quello di Giovanni Paolo II e quello di Francesco. Va letta interamente l’intervista -che peraltro ripresenta la grandezza anche intellettuale di questo papa e la sua capacità di visione profetica-, ma in sostanza Benedetto ci spiega perché la Misericordia è oggi la strada privilegiata della Chiesa. Ci spiega come l’umanità non sia più nella condizione in cui versava al tempo di Lutero – allora temeva il terrible giudizio di Dio, oggi imputa a Dio il male della storia – e come la strada della Misericordia sia l’unica efficace oggi. È questa la strada intrapresa con decisione da Wojtyla – non a caso devoto a S.Faustina, fondatrice delle sorelle della Divina Misericordia – e oggi da Bergoglio – che ha convocato l’anno Santo della Misericordia.
Una pubblicazione il cui significato ha ben colto il vaticanista del Corriere, di decennale esperienza, Luigi Accattoli, il cui articolo è titolato però in maniera superficiale e tale da aprire le consuete dispute: “il sostegno a sorpresa del papa emerito alla linea indicata da Francesco”. Le analisi sono condivisibili e acute, ma il titolo, con quel “a sorpresa”, è banale. Così come non è neppure corretta l’opposizione altrettanto giornalistica e superficiale di Antonio Socci, che usa maldestramente, a suo pro, un articolo apparso sull’Osservatore romano.
In realtà la sorpresa vi è solo per chi non si è lasciato perturbare dalla Presenza viva e operante di Cristo nella Chiesa, da quella Misericordia che il sacerdote fondatore della comunità di CL di Rimini, don Giancarlo Ugolini, nella sua ultima intervista che mi concesse per Le Ragioni dell’Occidente nel 2009, chiamò “il caldo abbraccio del Mistero” (identificando in questo il senso del movimento di CL).
A parte questo aspetto, l’articolo di Accattoli riconosce perfettamente tutto il percorso indicato da papa Ratzinger e di fronte ad esso si inchina ammirato. Mette conto di riportare le righe in cui Ratzinger esplicita – per la prima volta – un giudizio sul suo successore.
Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia.
Al contrario, c’è chi ha saputo propagandare tale messaggio, stralciandone pochi passi, come esemplificazione e conferma di proprie tesi complottiste, rispetto alla rinuncia di papa Benedetto (uno dei gesti più grandi e coraggiosi della recente storia della chiesa, segno di grandezza e non di debolezza di Ratzinger, logica che tuttavia sfugge completamente in queste valutazioni terribilmente leggere). Ci riferiamo di nuovo ad Antonio Socci, i cui articoli su Lbero, raccolti nel suo Blog, sono un’ostinata opposizione (e con una continuità che lascia pensare ad una sorta di ossessione) al papa, identificato come il più grande nemico della Chiesa. Parole che richiamano quelle acri e ostili a Roma, pronunciate da Lutero 500 anni fa. Parole che avrebbero addolorato fino alla morte don Giussani, il quale, di fronte ad una Chiesa che in certi frangenti non lo ha certo “appoggiato”, manifestò sempre una fedeltà e una sequela commovente ad essa. Un don Giussani che ebbe il coraggio di affermare, con dolore fino alle lacrime, che “la Chiesa ha abbandonato l’uomo, poiché ha avuto paura, ha avuto vergogna di Cristo”, ma che ha combattuto col suo movimento nella più totale obbedienza alla gerarchia, fino ad esserne il fronte più fedele. Tutti i ciellini degli anni ’70 (per ridursi alla esperienza di cui posso attestare personalmente) hanno imparato l’obbedienza, costitutiva per la propria fede, al papa e ai vescovi all’interno del movimento di CL, mentre molti, forse la maggior parte, dei cristiani provenienti da esperienze parrocchiali, in quei tempi manifestavano mille distinguo e quasi giustificavano – in un’errata interpretazione di don Milani – la disobbedienza pratica e teorica alla gerarchia della Chiesa.
3) le evidenze (non sempre riconosciute)
Nel dibattito attuale, Carron e i responsabili delle varie comunità non stanno chiedendo un “serrate le fila”. Con un atteggiamento tipicamente “giussaniano” si sta chiedendo a tutti di giudicare nella propria esperienza quanto è in gioco, le scelte, le differenti posizioni. Si sta chiedendo se quanto di ciò che si va affermando corrisponda alle esigenze più profonde del proprio cuore. Il tentativo, coraggioso, è quello di scoprire qual è il ruolo di un cristiano nella società di oggi, di fronte alle nuove sfide. La proposta insomma è quella di verificare se sia vero (verificato nella propria personale esperienza) che l’unico compito è quello di testimoniare nel quotidiano la presenza di Cristo (il “caldo abbraccio del Mistero”, la misericordia, il Suo sguardo, una potenza eccezionale che cambia la vita da subito) , un Cristo da rilevare presente nell’unità dei credenti, ma in termini reali e operativi, non conclamati o sbandierati.
Se Cristo è presente, allora non c’è altro da fare che abbracciarLo, e allargare questo abbraccio a tutto il mondo. Ma Cristo “è presente se opera”, ed ecco il grande lavoro di giudizio sulla propria esperienza reale, in atto ora come sempre nel movimento.
In Comunione e Liberazione è sempre stato così. Questo il fascino e la fatica di stare di fronte al movimento. Una realtà urticante tanto è decisa nell’affermare l’essenziale.
È stato così per il grande intellettuale Testori, uno dei più forti amici di CL.
Giovanni Testori, omosessuale, intellettuale maledetto, rimase colpito da Cl, e lo ha detto più volte, non per un programma di lotta, non per teologie raffinate, né per altro. Quanto lo colpì fu la misericordia di Dio che arrivava attraverso i volti e l’umanità di alcuni ragazzi e poi dell’intero movimento.
Non condivideva tutto. Non divenne di CL. Ma seguiva il movimento per un di più di umanità, segno di quell’abbraccio. Oggi qualcuno stralcia anche i suoi interventi, decontestualizzandoli, per contrapporre impegno a testimonianza (denunciando la carenza dell’uno sull’altra). Ma dimentica che Testori fu perturbato e commosso dalla testimonianza di umanità, sola a dare senso alla lotta contro il potere (la sua affermazione “non c’è insurrezione senza resurrezione” è universale, mentre quella reciproca, “non c’è resurrezione senza insurrezione”, da lui pure sostenuta -vedi più sotto-, è legata alle contingenze, come è ovvio). Altro segno della partita in gioco, tutta tesa tra riduzione e apertura di orizzonte all’infinitezza del Mistero che si volge su di noi.
Qui trovate il testo integrale del bellissimo incontro del centro culturale San Carlo di Milano, che ha dato occasione alle consuete e desuete discussioni e che invece manifesta qual era e qual è l’impatto di chiunque, specie se un’anima ferita e intelligente come quella di Testori, con il movimento (ovvero con la visibilità di Cristo). In alcuni passaggi gli echi sulla misericordia sono gli stessi che udiamo oggi.
Così si esprimeva Testori a 10 anni dalla sua conversione, a 10 anni dal suo incontro con il movimento (ma poi il suo intervento merita una lettura completa).
Ma io sono sempre stato un cattivo cristiano, in certi momenti disperato, sono nato non solo in una famiglia cristiana, ma anche in una cultura cristiana. Non è una conversione: è una precisazione del mio povero modo di essere cristiano, a cui sono stato indotto dalla morte di mia madre. Mia madre, morendo, ha ridato peso, grembo, latte a questo mio povero modo di essere cristiano. Comunque, quando scrissi questi articoli, nessun vescovo, nessun cardinale, nessun uomo politico (della Dc) mi ha contattato. Mi hanno invece telefonato quattro ragazzi: «Siamo di Comunione e Liberazione: vorremmo parlarle». E sono venuti nel mio studio; la cosa che mi ha stupito è che non erano tutto quello che dicono essi siano. Non mi hanno mai chiesto niente: come fosse la mia povera vita, quali fossero i miei errori; ma mi hanno accolto (e io credo di averli accolti) come amici. Io non sono di Cl, voi lo sapete: sono molto vicino. Le sono vicino per una cosa sola: perché hanno questo senso dell’amicizia, questo senso dell’umanità, dell’integrità della fede, non è integralismo, checché ne scrivano, e sbagliano a scrivere così, perché scrivono per ignoranza, perché non li conoscono. Sono tutti di un pezzo, poi anche loro fanno errori, per fortuna. Però hanno questa rocciosità per quel che riguarda l’uomo (l’altro, il fratello, di qualunque idea sia, di qualunque stortura – Dio solo sa le storture che avevo ed ho io…). Loro non chiedono niente, non domandano conto di niente. Solo su questo piano di umanità. E io vorrei ricordare qui, forse in molti di voi lo sapete, e forse farà piacere sentirlo ai miei due grandi amici Tino Carraro e Pugelli; don Giussani mi raccontava in segreto (ma non è più un segreto, l’ho già raccontato) cos’è stato per lui la scoperta, il senso più abissale della sua posizione di prete e di uomo, quando subito dopo essere stato ordinato, in una delle prime confessioni, se non la prima, si è trovato di fronte a un giovane che, dall’altra parte del confessionale, non riusciva a dire, a parlare. E lui lo esortava: «non c’è niente che tu abbia fatto che non possa essere perdonato, che non possa essere accolto»; ma l’altro faceva fatica e don Giussani, con le parole che riesce a tirare fuori dalla sua fede, dalla sua umanità, lo invitava fraternamente. A un certo punto sente questo giovane dire: «ho ucciso un uomo». Don Giussani dice che è stato lì un attimo, un’eternità, e poi ha risposto: «Solo uno?». Poi mi diceva: «Lì ho capito cos’è la carità, la fraternità, l’amore, cos’è il perdono di cui lui è soltanto il tratto». E l’altro è scoppiato a piangere. Da allora sono diventati, credo, amici, lui è andato a confessare alle autorità il suo gesto e sono diventati amici. Io, perché sono diventato amico di quelli di Cl? Perché se io dicessi a loro tutte le porcate che ho fatto, direbbero “solo questo?”.
Perdete pure tutto; ma non perdete questo senso “oltre tutto”, questa umanità che non si scandalizza di niente. Questo sapere che l’uomo può compiere qualunque gesto, può essere di qualunque parte, ma è prima di tutto uomo, figlio di Dio, creatura redenta da Dio diventato Uomo. Se perdiamo questo perdiamo il senso dell’incarnazione, cioè perdiamo il senso totale del nostro essere cristiani. Questa apertura, sì alla integrità, sì alla solidità, ma come mi diceva continuamente Giussani «senza carità», senza amore, anche la fede è niente. La fede è proprio questo amore: questo amore prima di tutto. Io devo ringraziare questi ragazzi (voi e quelli che c’erano prima di voi: voi siete l’ultima generazione) di questa capacità di amore, di umanità, perché arriverà il momento che la leggeranno anche quelli che oggi non la sanno leggere. Ma se anche non la leggeranno, non importa: l’importante è offrire.
Oggi come allora, questo accade in CL (e nella Chiesa). Oggi come allora CL è la comunità in cui passano le più profonde tensioni della storia, per presentarsi nella loro interezza al Dio che pone il Suo sguardo sull’uomo per riempirlo di sé.
Sotto la via crucis di CL di Rimini, svoltasi questa domenica (domenica delle Palme) con il propio vescovo. La comunità di Cl segue da anni la richiesta del vescovo di svolgerla la domenica delle Palme, così da poterla celebrare insieme.