Spesso Giovanni Paolo II parlava dell’avvento del nuovo Millennio come il tempo di una rinascita del Cristianesimo e di una nuova evangelizzazione (“aprite le porte a Cristo”). Papa Benedetto ha precisato come dovessero cadere tutte le “conseguenze” del Cristianesimo, per attestarci sull’essenziale: Dio che ci viene incontro (parlava di “minoranze creative” e prefigurava il disegno di una chiesa che ha perso e perderà ogni potere mondano). Papa Francesco sta operando fattivamente secondo la dinamica dell’incontro, testimoniando la prossimità di Dio in ogni situazione, in ogni storia particolare, con un impeto tutto nuovo e con forme sorprendenti e libere.
L’esperienza umana, per credenti e non credenti che seguano attentamente il cammino di consapevolezza della Chiesa degli ultimi decenni, è appassionante. È la scoperta continua di una positività insperata, ancor più luminosa se nascosta nelle pieghe più buie della vita. È una “impossibile” positività che vince e si afferma, seppure visibile solo agli occhi di chi è abbastanza “povero” da poter vedere.
Trovo riassunta in questa dinamica tutta la migliore filosofia che gli autori, che insegno da anni, propongono (Socrate, Platone, Tommaso, ma anche Kant stesso ed alcuni aspetti del tanto vituperato Hegel o di Marx, per non dimenticare Nietzsche o Heidegger). In questo gioco sottile della natura con la ragione, di Dio con l’uomo, si inscrive la grande ricerca della verità di sempre.
Il Natale è semplice ma non è cosa da poco.
È la grandezza di un Mistero che ci dona la ragione per comprendere la realtà e poi sceglie ciò che è impossibile per la ragione per darci una luce definitiva sulla vita.
Ed è necessario che sia così.
Proprio in questi giorni a lezione, studiando Cartesio e Pascal, emergeva come l’intelletto non possa afferrare il cuore dell’esistenza (ma poi lo sostiene anche, sorprendentemente e criticando l’illuminismo, il giovane Hegel, emblema del razionalismo moderno). Come dunque afferrare il cuore dell’esistenza se non oltrepassando quella ragione, i cui concetti la mia docente tomista (Sofia Vanni Rovighi) definiva con termini pascaliani, “grandezza e miseria del genere umano”?
Il Natale per un filosofo è cosa strana. Da una parte la sua semplicità e quotidianità lo lasciano attonito e quasi smarrito. Come fosse troppo poco. Dall’altra lo affascinano e lo attirano, come un segreto che pre-sente ma non conosce, un segreto rivelato ai piccoli e di cui lui, che fa del conoscere il suo mestiere, non ne sa nulla.
Trovandomi con numerosi colleghi per una cena insieme, ed essendo prossimi al Natale, ho voluto regalare loro il Volantone che alcuni amici preparano ogni anno. Ho desiderato in realtà condividere quanto ha voluto dire per me questo foglio di carta quest’anno, riassunto in un video che ho proposto a colleghi, studenti e amici, e che trovate qui sotto.
Il volantone è una foto , accompagnata da una frase di un altro mio docente all’università (e molto più che un docente), don Luigi Giussani.
Una “storia particolare” è la chiave di volta della concezione cristiana dell’uomo, della sua moralità, nel suo rapporto con Dio, con la vita, con il mondo. La nostra speranza è in Cristo, in quella Presenza che, per quanto distratti e smemorati, non riusciamo più a togliere – non fino all’ultimo briciolo, almeno – dalla terra del nostro cuore per tutta la tradizione dentro la quale Egli è giunto fino a noi.
Quando l’ho visto la prima volta, distrattamente, ho pensato a una suggestiva foto di un presepe. Il tema è, in un bianco e nero cupo, la luce che promana dalla capanna di Betlemme. Osservando meglio, ci si avvede che si tratta di migranti. E qui mi sovviene la lezione che per un corso di aggiornamento di filosofia avevo udito un paio di mesi fa. Il prof. Elio Franzini, descrivendo la “natura del bello”, concluse in maniera commovente, citando San Francesco e definendo la “bellezza della povertà” quale chiave per capire la natura più profonda del bello.
È anche la chiave di questo volantone che, uscendo – come accadde già diversi anni fa più volte per quello analogo di Pasqua – dall’immagine iconografica classica, lancia un messaggio eccezionale. Il messaggio che Franzini, inconsapevolmente, ci ha lanciato ad ottobre: “guardiamo queste immagini – si riferiva a drammatiche foto di migranti – vi è una bellezza povera, drammatica, che non ha bisogno di parole ma finché non comprenderemo questa bellezza povera e drammatica noi non comprenderemo il senso che la bellezza ancora oggi ha per noi”.
Il Natale è per tutti, come ha scritto Carron. Il Natale è per questo nuovo millennio, tempo in cui abbiamo smarrito la nostra ricchezza. Il Natale ci permette di guardare nuovamente e realmente quella realtà che ci appare spoglia e povera ma che nasconde una ricchezza inestimabile: l’amore di un Dio che si fa compagno della nostra intera esistenza e che nulla al mondo ci può strappare di dosso o può allontanare dalla nostra vita, qualsiasi condizione stiamo attraversando.
Il Meeting 2017 procede nel cammino verso l’approfondimento del carisma di Giussani, riconosciuto sempre più decisivo per approcciarsi al presente. Un carisma, che, come ben delinea la mostra – brevissima ma di notevole chiarezza – che si trova sul retro del banco dell’ International Meeting Point, non coincide con alcune “forme di presenza” o alcuni giudizi ma con l’immedesimazione completa, totale e appassionata con Cristo, vissuto come “stoffa dell’essere”, come radice di cui ogni cosa vive. E dunque fonte di giudizio libero e appassionato su tutto.
Un giudizio che si compie grazie all’aiuto dell’ “altro”, del diverso, di colui che non ti aspettavi.
Questa libertà è quanto Giussani ha vissuto ed ha tentato di insegnarci. Una libertà che nasce da una dimensione di rapporto con il Mistero, quasi fosse una “mistica” incarnata nella storia. Non a caso, il momento topico del meeting 2017 può essere identificato, ad oggi, nell’incontro tra due monaci, ovvero due uomini che di mistica se ne intendono. Ebbene in questa “mistica” si può trovare la radice per una nuova passione per la Polis, una passione capace di superare vecchie forme, lontane davvero un millennio.
Lunedì scorso si è parlato dell’amicizia tra don Giussani e Abukawa, il monaco buddista del Monte Koya, il più profondo centro spirituale del Giappone (interessante leggere l’articolo sul Quotidiano Meeting dove un’appassionata orientalista scopre casualmente che nella sua Rimini sarebbe venuto colui che, per incontrarlo, dovette raggiungerlo in Giappone, dove peraltro aveva trovato misteriosamente le stanze costellate di foto del Meeting di Rimini). Quel Giappone così ostile ai valori cristiani, come ci è stato ricordato dal film Silence recentemente. È proprio con Abukawa che oramai da trent’anni nasce e si conserva un’amicizia profonda e intensa, per nulla limitata dalle “differenze culturali”.
L’incontro del 21 (lunedì scorso) tra l’abate generale dei Cistercensi, Mauro Giuseppe Lepori, e Shodo Abukawa – Lepori ha ereditato tale amicizia da don Giussani – è stato un approfondimento eccezionale di qual sia il compito del cristiano, di fronte alle sfide del nuovo millennio.
Liberi da ogni formalismo, hanno pregato assieme (in una forma rispettosa del credo di ognuno, senza sincretismi), hanno relazionato e testimoniato il valore di un incontro tra uomini che si fonda sul comune rapporto con il Mistero, come bene ha sintetizzato Alessandro Caprio sul Quotidiano Meeting (pag 1 e pag. 3). (Ma è assolutamente imperdibile la visione dell’intero incontro cliccando qui.)
In particolare Lepori ha posto alcune sottolineature che risultano decisive per il futuro della Chiesa e dell’uomo contemporaneo, così restio ad abbracciare una tradizione che considera un peso, un intralcio, una sorta di residuo che funge da zavorra nel suo confuso errare verso una realizzazione, che pure gli appare sempre più una chimera. Giudizi che possiamo considerare sciagurati, e che tuttavia stanno lì, inamovibili e rocciosi. Tanto più rocciosi, quanto più l’uomo, ferito, sanguina e ansima, straziato dal dolore di un’esistenza che appare sempre più vuota. Eppure, sempre più chiaramente, questa situazione emerge come una grande risorsa, da cogliere per il bene di tutti.
Lepori ha letto il contenuto di una calligrafia, realizzata da Abukawa e portata a lui in dono, in cui si afferma una vecchia espressione di Kobo-daishi, il fondatore del Buddismo Shingon: “Tutti quelli che vanno a trovare un grande maestro o una persona virtuosa, hanno il loro cuore vuoto. Ma grazie all’incontro con lui, tutti saranno salvati e torneranno sulla strada di casa con il loro cuore pieno di soddisfazione”.
Lepori ha colto, a partire di qui, la grande dicotomia che abbiamo di fronte oggi. Oggi si tratta di scegliere, se avere “un cuore chiuso o un cuore vuoto” (Lepori ha più precisamente detto che “l’alternativa a un cuore vuoto è un cuore chiuso”).
Questa espressione, lapidaria e fulminante, nasconde un chiarimento essenziale di fronte a tutta la fatica della chiesa e dell’uomo di oggi. Il grande compito rispetto a cui il papa sta incoraggiando instancabilmente l’umanità intera. Esortazione che lo rende l’unica autorità morale del presente, come più osservatori hanno affermato.
La via di uscita, oggi, non è un cuore pieno. Bensì sostare sul quel vuoto, non temerlo, condividerlo con l’uomo d’oggi, cercare chi avverte questo smarrimento di fronte al Mistero, per ritrovarsi di fronte alla dimensione ultima della vita, sostare di fronte a quel Tu che unico può riempire la vita (Giussani ci insegnò: “Io sono Tu che mi fai”).
Se non raggiungiamo questo livello ultimo e profondo (per questo si parlava di mistica, non si fraintenda con uno spiritualismo), oggi nessuna risposta “della terra di mezzo” può apparire significativa. Il cristiano, come d’altro canto ha ben chiarito Costantino Esposito con il suo momento “Profeti del nostro tempo”, ha l’occasione di comprendere più pienamente la sua fede, potremmo dire se stesso, la propria identità (che non si identifica con quanto già costruito, ciò di cui Vittadini in maniera provocatoria ha detto di “non sapere che farsene”) in un mondo che crolla. Il nichilismo dell’uomo contemporaneo, vissuto come grido, è la grande opportunità perché l’uomo torni a vedere Cristo, e non sue propaggini, sue conseguenze, sempre e comunque insufficienti.
Seguendo la suggestione di Lepori si può dire che fare cultura oggi (rendere la fede cultura) è soprattutto costruire “relazioni che rendano eterne quelle costruzioni” (di mura, di idee, di valori) che la storia sta spazzando via. Costruire ciò che le rende eterne, cosicché quand’anche venissero spazzate vie le idee, le mura, i valori, nulla cambierebbe perché ne sarebbe mantenuta l’origine. Si comprende bene il carattere invincibile di tale posizione. Quand’anche l’ISIS facesse crollare San Pietro, non saremmo perduti, se (e solo se) vivremo questa dimensione.
È la strada. La nuova ed antica strada, in un momento di ricostruzione di civiltà (una ricostruzione i cui frutti probabilmente, in termini di “strutture” la nostra generazione non vedrà, come d’altro canto la generazione di S.Agostino non vide la societas christiana ).
È decisamente un approfondimento notevole, che chiarisce, distilla, precisa tutta la vita di CL, riprendendo tutti gli instancabili interventi del Gius per correggere un percorso che oggi si adagia con sempre maggiore docilità sulla linea maestra dell’esperienza viva e sorgiva nata da lui, dopo tanti “tentativi ironici”, preziosi ma per definizione da definire e correggere sempre. Oggi più che mai.
Possiamo dire che dalla “mistica” di Lepori (e Abukawa) e dal “cuore francescano” di Pizzaballa (che ha approfondito il tema del Meeting), nasce un nuovo impegno nel mondo, una nuova passione per la Polis, resa possibile da quell’agilità del cuore (espressione sempre di Lepori, in un successivo dialogo) che può rendere il nostro impegno libero di riconoscere i bisogni dell’oggi, in quanto libero da qualsivoglia schema. È quella ingenua baldanza che il Gius ci ha insegnato e che oggi riguadagniamo, scoprendoci con il cuore vuoto e ferito (come d’altro canto ogni uomo del XXI secolo) di fronte al grande Mistero che costituisce ogni cosa e che prende forma in maestri, talora impensati, talora perfino lontani, e diventa via e metodo nel grande alveo della nostra madre Chiesa.
Un Meeting che ci immerge in un tempo appassionante, dove la sfida è già vinta, ma tutta da riguadagnare.
Un Meeting dove il “popolo di Cl” in maniera massiccia comprende le nuove sfide, come attesta la presenza selettiva agli incontri che toccano questi nodi decisivi. All’incontro con Lepori la sala non ha potuto contenere la folla, che ha riempito all’inverosimile anche la Hall Sud, mentre le visualizzazioni su Youtube già hanno raggiunto ben 2.800 visualizzazioni. Allo stesso modo, ed anzi superiore, una folla sterminata era presente all’incontro con Pizzaballa, anche qui ben oltre la capacità di contenimento della sala, a cui si aggiungono 5450 visualizzazioni su Youtube.
Da questo Meeting esce un popolo pronto e sensibile alle sfide del cambiamento d’epoca.
Ha fatto scalpore, conquistando le pagine dei quotidiani locali, nazionali e persino di alcuni telegiornali il video di Repubblica dove una signora dello stand dell’editrice Shalom, ospite al Meeting, confusamente e ripetendo frasi di una ingenuità imbarazzante, afferma di avere avuto indicazione di coprire la statua della Madonna. Motivo? “Sa con tutto quello che succede. Loro (gli islamici) hanno in odio la Madonna (sic!). Quindi per evitare l’abbiamo dovuto coprire”). E poi un eloquio confuso, frutto solo di tanta ingenuità (basti pensare all’affermazione “vado a consolare la Madonnina perché soffre”). Ovviamente il Meeting ha immediatamente smentito che un proprio responsabile abbia dato questa indicazione.
Chi non è ingenuo ma dotato di ben altri sentimenti è il giornalista di Repubblica, Francesco Gilioli, che così scrive a commento del video.
Lo stand della casa editrice “Shalom” è uno dei punti fermi del Meeting di Rimini. Oltre alle pubblicazioni religiose, propone ai visitatori gadget, oggetti sacri, rosari e poster. Ma quest’anno non c’è spazio per la madonna. “Siamo stati costretti a coprire la statua della Vergine – spiega la responsabile dello stand – per non offendere le altre religioni”.
di Francesco Gilioli
Questa non notizia ha generato una diffusione mediatica spropositata, che è giunta alle orecchie delle persone normali e un po’ distratte, le quali ne escono con un preciso giudizio: “anche al Meeting hanno paura dell’Islam, sono sottomessi (come hanno espressamente titolato o commentato alcuni media).” Un giudizio in cui sono caduti anche alcuni prelati. Va detto che c’è chi ha capito l’impossibilità della vicenda come il vescovo di Palestrina (“… loro passano per coraggiosi, ci mancherebbe. (…) “Non penso sia una sottomissione, non credo dai, non mi sembra una cosa che possa far pensare a una sottomissione”),il quale però di fronte al racconto così diretto tentenna. Altri ne hanno fatto invece cavallo di battaglia per loro letture personali sul Meeting e sulla Chiesa. In una parrocchia di San Leo la “notizia” è stata commentata davanti ai fedeli, al momento degli avvisi, con frasi irripetibili. Il Meeting sarebbe luogo demoniaco, secondo il mal informato (e poco accorto) sacerdote. (Fonti dirette di diversi presenti alla funzione).
A cascata ognuno procede secondo i suoi “tiramenti” (per dirla alla Guccini) che però sui mass media sono ben organizzati e orientati.
Andiamo a vedere come stanno le cose.
Il Meeting è sottomesso all’Islam? In nome del dialogo, il movimento più significativo, come presenza esterna – in uscita, direbbe papa Francesco – della Chiesa italiana sarebbe disposto a disperdere la propria identità (per timore, vantaggio, misteriose motivazioni)?
Partiamo dalle impressionanti imprecisioni, sicuramente non casuali, compiute (con perizia) da Repubblica. In primo luogo lo stand di Shalom è accolto da anni dal Meeting ma non è certo uno dei punti fermi. È uno dei tanti stand cattolici che il Meeting accoglie (certamente non a gratis). Lo stesso dicasi per Radio Maria o l’Università Cattolica, o altre realtà associative. Sono da tempo presenti al Meeting ma non certo “punti fermi”. Ma soprattutto è curioso che il giornalista, non si sia sentito in dovere di capire come mai la signora motivi il velo sulla statua così: “per non offendere le altre religioni”. Il giornalista, entrando in fiera, infatti, avrà sicuramente visto cosa c’è al Meeting (vedi il nostro piccolo viaggio fotografico più sotto). Delle due l’una. O non ha visto oppure non ha voluto vedere. Non solo. Ognuno ben sa che Maria è oggetto di culto anche per l’Islam (vedi sempre sotto) e che dunque non è un simbolo di distanza tra le due religioni. Eppure il giornalista non ha posto alcuna obiezione su questo alla signora. Si sarebbe messo in luce come tutta questa storia, risulti un clamoroso equivoco o fraintendimento. Un video davvero imbarazzante per una testata come Repubblica.
D’altro canto non è la prima volta che vengono utilizzati stand ospiti del Meeting per creare polemiche del tutto pretestuose contro gli organizzatori, generando non poca confusione. Ricordate le domande fatte alla standista dello spazio che la fiera riserva al casinò di San Marino, alla quale un giornalista chiedeva se per i cattolici dunque il denaro non fosse più lo sterco del demonio? Il giornalista lo chiedeva a lei, standista del casinò, trattandola come una volontaria del Meeting. E la bella standista, impacciata, rispondeva pure. Obiettivo ovvio: far fare una figura imbelle al Meeting.
Ma, lasciando questi esempi di giornalismo spazzatura, chiediamoci: cosa c’è realmente al Meeting? C’è sottomissione all’Islam o a un’idea di dialogo che lede la propria identità di cristiani? (si badi che questa tesi è portata avanti anche da persone che dovrebbero pur conoscere questa realtà -dovrebbero anche esserne grati, peraltro -, ma sua questo torneremo indubbiamente con altri articoli).
Facciamo una piccola passeggiata, per la fiera. È domenica, due giorni dopo il “fattaccio”.
La mattina c’è la Messa, che non è celebrata fuori dalla fiera, in luoghi nascosti e lontani da quello spazio dove sono “presenti tante religioni” (cit. dal video) ma nel salone principale e in collegamento con i video sparsi per la fiera. Sopra l’altare impera il crocifisso.
Naturalmente in fiera la Messa è celebrata per intero con Eucarestia e tutto il resto. A celebrare la Messa il vescovo della diocesi, mons. Lambiasi (e la paura di offendere le altre religioni?)
Finita la Messa comincio a girare per gli stand. Come ogni anno l’impatto visivo è molto sobrio, non vi è stata mai ostentazione di simboli religiosi. Quelli che ci sono, sono funzionali al messaggio che si vuole portare, un messaggio ben chiaro e allo tesso tempo aperto a tutti.
Incontriamo la mostra sui migranti, che termina con la croce di Lampedusa, ben visibile dall’esterno (per nulla reclusa dentro la mostra).
Qui accade un fatto curioso. Osservo in uno spazio per incontri ai lati di questa mostra, una notevole folla attorno a due relatori. È un incontro improvvisato. Uno è il prof. Gianni Mereghetti (nella foto con la maglia del Meeting, color magenta), uno dei responsabili di GS, gli studenti di CL. L’altro è Farad Bithani, islamico afgano, da tempo residente in Italia. Ha vissuto l’infanzia tra le atrocità del regime dei Talebani e credeva, sulla base dei loro insegnamenti. che il cristiano e l’occidentale fossero il nemico da uccidere. Poi arrivato in Italia qualcosa cambia.
Conoscevo la sua storia e incuriosito per questo estemporaneo incontro mi avvicino.
Ascolto alcune sue parole. Racconta come, girando per conferenze tra i giovani in Italia per narrare la sua storia (di cui esiste anche un libro), abbia incontrato tanti ragazzi che sono stati aiutati dalle sue parole a riscoprire il cristianesimo. Racconta in particolare di un giovane che aveva ripreso a frequentare i sacramenti. Racconta poi che lui, nell’incontro (che definisce commovente per accoglienza e fraternità) con famiglie cristiane italiane, abbia potuto purificare e approfondire la sua fede islamica, comprendendo le distanze da quella educazione iniziale violenta. Non solo. Parlando degli elementi comuni tra Islam e Cristianesimo, cita Maria affermando che per un Islamico non si può parlare di Maria senza l’appellativo di Santa. (E allora la storia del velo dello stand Shalom?)
Il viaggio si fa sempre più interessante.
Ma proseguiamo rapidamente. A pochi passi dallo stand di Shalom, quello da cui tutto è partito, vi è lo stand di Tracce, in cui si vedono foto del papa, di preghiere cristiane, copertine con la figura di Cristo.
Procedendo, troviamo lo stand dedicato alle reliquie di Santa Teresa di Lisieux.
Poco più in là abbiamo lo stand di Radio Maria. Nome omen, ma ci sono anche le immagini della Vergine. Lì, belle tranquille, in evidenza sul corridoio laterale e centrale.
Lungo il corridoio centrale, incrociamo “Tessere la tua lode”. Il logo della mostra presenta la croce, ben evidente.
Una delle mostre principali è su Madre Teresa, suora, di cui si approfondisce il messaggio di fede.
E chissà se qualche islamico si possa sentire irritato dalla presenza dell’Università Cattolica! Anche questo è un “punto fermo” del Meeting!
La mostra sulla Georgia è incentrata sulle croci (simbolo determinante la loro arte). All’esterno, un bel dipinto, in piena vista, di un angelo.
La figura di Cristo è presente anche in stand per ragazzi, ben visibili dal corridoio centrale della fiera.
E che dire di queste mosse su crocifissi, certamente non nascoste e occultate?
Insomma, ecco come la non notizia del video (un clamoroso equivoco su cui ho versioni molto più semplici, che però non mi interessa certo approfondire – ho pure una mia idea personale-) abbia generato giudizi, considerazioni, certezze che non trovano alcun riscontro con quanto accade in fiera in questa settimana.
A questo punto permettete una considerazione. A chi inganna lettori e ascoltatori, non ho nulla da dire. A chi prende spunto da questo fatto (a questo punto dico, indotto?) per definire il Meeting come “buco del deretano del demonio” (è stato detto anche questo!), dico che farebbe bene a rispettare un luogo che è sintesi di dialogo e identitàda sempre, un luogo che risulta essere ancora una volta una sorgente di vita (ma guardatele le persone giovani e meno giovani lì presenti!) e che, quand’anche si fosse in disaccordo su qualche o molte opinioni, solo il demonio può odiare.
Ringrazio Alessandro Caprio per questa segnalazione che merita di per sé un post. Padre Ibrahim ha testimoniato a Radio Vaticana la drammatica situazione che sta vivendo Aleppo, dove la guerra è in una fase delicatissima.
Padre Ibrahim era a Rimini un paio di mesi fa, chiamato dal Portico del Vasaio, ed aveva testimoniato l’enorme lavoro condotto da lui e dai francescani in una situazione disperata (qui la sua testimonianza in video).
In questa intervista telefonica di ieri (9 agosto) a Radio Vaticana ci comunica la drammaticità di queste ore e tutta la precarietà (eppure dentro questa ancora una volta l’instancabile e fiduciosa volontà di lavoro e di vicinanza alla popolazione) della loro condizione.
La presenza cristiana ad Aleppo è un punto flebile ma deciso di speranza, grazie a uomini come lui.
In questa strana estate, che si macchia di sangue in maniera crescente, occorre forse riarticolare la profetica espressione di papa Francesco sul tempo odierno, già pronunciata nel 2014 e poi ripetuta più volte. Disse che siamo in guerra, una “guerra mondiale combattuta a pezzi”. Ora ce ne stiamo accorgendo tutti. Ma oggi scopriamo anche che questa guerra non è combattuta solo da organizzazioni terroristiche o di impronta totalitaria, quale l’ISIS (un totalitarismo che prende le forme dell’ islamismo radicale, ma che possiede assonanze impressionanti con quello marxista e nazista insieme), bensì dal vicino di casa, dall’immigrato dei sobborghi delle grandi città, oppure dai giovani bene che per un motivo o per l’altro si trovano in totale scontro con la nostra civiltà. Il collante dell’islamismo è ben presente, ma pesca da origini complesse e che ultimamente portano a un vuoto abissale, da cui l’uomo ha cercato sempre, maldestramente, di difendersi.
È la guerra del vicino di casa, di volo in aereo, di quartiere.
Ecco perché forse dovremmo chiamarla, guerra civile mondiale. Non per toglierle il suo significato geopolitico, ma semmai per indicare il carattere interno all’Occidente di questo conflitto assurdo, così come sono state d’altro canto definite anche le due guerre mondiali (vedi il saggio E. Nolte La guerra civile europea. 1917-1945 – Nazionalsocialismo e bolscevismo).
Vi è anche un altro motivo per cui sembra opportuno utilizzare questa denominazione.
Il secondo motivo è adombrato nelle parole di ieri del papa in prossimità della GMG che si tiene oggi e nel prossimo fine settimana con milioni di ragazzi a Cracovia. Così si è espresso: “Circa quello che chiedeva padre Lombardi, si parla tanto di sicurezza, ma la vera parola è guerra. Il mondo è in guerra a pezzi: c’è stata la guerra del 1914 con i suoi metodi, poi la guerra del ’39-’45, l’altra grande guerra nel mondo, e adesso c’è questa. Non è tanto organica forse, organizzata sì non organica, dico, ma è guerra. Questo santo sacerdote è morto proprio nel momento in cui offriva la preghiera per la chiesa (il giornale La Notizia scrive “per la pace”, ma le due preghiere coincidono – ndr), ma quanti, quanti cristiani, quanti di questi innocenti, quanti bambini vengono uccisi. Pensiamo alla Nigeria – ha esortato – ‘ma quella è l’Africa’. No, è guerra, non abbiamo paura di dire questa verità: il mondo è in guerra perché ha perso la pace.” (cit. da Ansa)
Lo stesso aveva detto padre Ibrhaim a Rimini (vedi il filmato della conferenza assolutamente attuale) denunciando anche, con candore francescano ma senza mezzi termini, le responsabilità degli USA e dell’Europa, fino ad esprimersi “le vostre tasse, una parte di questi soldi finisce nella mani dell’ISIS”. (Padre Ibrahim poi, al minuto 6 e 30 circa, nega la denominazione di guerra civile, ma per allargarne l’orizzonte a più Stati, intendendo che ciò che succede ad Aleppo non è solo guerra civile interna ma guerra tra più potenze. Noi qui confermiamo l’orizzonte mondiale, ma intendiamo dire che è “guerra civile” per la sua capillarità e quotidianità. Dunque è una guerra mondiale, ma civile, ovvero fatta anche da semplici cittadini, spesso sbandati o problematici, cellule indipendenti e autonome che rendono capillare e ancor più devastante l’impatto psicologico sull’Occidente).
Insomma: il pericolo viene dal vicino di casa e dall’ipocrisia dei potenti, che utilizzano un forma ideologica di Islam che, come andiamo da tempo ripetendo, nel suo insieme deve crescere, approfondirsi e chiarirsi.
Non è questa dunque una guerra civile, che prende forme polivalenti e che si maschera dietro a motivazioni religiose? (vedi sempre papa Francesco ieri)
Di fronte a questa situazione, del tutto nuova e di cui realisticamente siamo chiamati a prendere atto, ci sono due atteggiamenti del tutto errati, seppure contrapposti.
All’indomani del terribile attentato ad Orlando dell’ 11-12 giugno, all’interno di un noto locale gay, i richiami de Il Foglio ad identificare l’evento quale una espressione di terrorismo islamico, a fronte del tentativo invece di deviare l’attenzione sul problema dell’abuso delle armi nel paese oppure verso il problema dell’omofobia, erano giusti (perché si sono udite parole, anche nel discorso di Obama, del tutto fuorvianti) ma insufficienti, come poi ha dimostrato lo svelarsi dell’identità dell’attentatore, decisamente complessa e tutta da decifrare (omosessuale egli stesso e così riconosciuto da compagni di gioventù, poco religioso, frequentatore del locale fino a poco prima e di recente avvicinatosi ad un Imam radicale). All’ analisi del Foglio che definisce i fronti come nettamente contrapposti e dunque facilmente individuabili in due schieramenti che devono necessariamente fronteggiarsi in forme lineari, manca qualcosa che invece pare essenziale.
Allo stesso modo la reazione opposta, ben più grave perché decisamente tendenziosa ed espressione di uno degli elementi del male che ci attanaglia, de Il Fatto quotidiano, dimostra un’altra via del tutto errata. Il Fatto ha pubblicato il 13 giugno (stessa data dell’articolo de Il Foglio) un video di un’omelia di una sacerdote italiano, titolando «“Gli omosessuali meritano la morte”. L’omelia del parroco contro le unioni civili». Errata la pubblicazione, perché pubblicarla il giorno dopo gli eventi di Orlando (l’omelia era del 28 maggio, due settimane prima) non è certo una scelta neutra o per dovere di cronaca ma vuol far sorgere nel lettore questo giudizio: “vedete, i cristiani sono come gli islamici, fomentatori di violenza; il problema è eliminare ogni religione fonte di ogni regresso”.
Ma la questione si intreccia ancora di più in un intrigo di torti e ragioni, dove chi ha realmente torto (l’ideologia del nulla) trova ragioni per sostenersi in improbabili battaglie di civiltà (a proposito, questo fine settimana ci sarà il Gay Pride a Rimini. Tanto per gradire) in cui il nulla delle forme leggere leggere, prende in carico su di sé diritti e rispetto della persona, in una mescolanza di elementi in cui l’eterogenesi dei fini (e della nostra fine) la fa da padrona.
Infatti, occorre aver il coraggio (tutto cristiano) di dire che errati sono anche i toni dell’omelia che hanno permesso di titolare al Fatto in quel modo.
Un’operazione di menzogna, quella del Fatto Quotidiano, è indubbio.
Sia perché invece è intrinseco al cristianesimo la costruzione della pace, come in questo secolo XX e XXI sta emergendo sempre più chiaramente – in particolare grazie agli ultimi pontefici da Giovanni Paolo II in poi-, portando nuova giovinezza al fatto (avvenimento) cristiano (questo sì, veramente quotidiano e reale).
Sia perché quanto ha pubblicato il Fatto Quotidiano, nasce da un’assolutizzazione ed estrapolazione di una frase, a sua volta de-contestualizzata dal parroco e utilizzata da lui stesso in maniera piuttosto goffa e impropria.
Proviamo ad analizzare. Il Fatto titola virgolettando “gli omosessuali meritano la morte”, attribuendola al parroco (o a San Paolo, comunque al cristianesimo). Il parroco cita San Paolo che nella lettera ai Romani cap 1,26-ss. afferma “E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose -si parla di ogni deviazione sessuale, ndr – meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa”.Il Fatto gioca sporco, correlando la vicenda Orlando (data di pubblicazione), alle vicende Unioni di fatto e legge del governo Renzi, complice la verve del parroco, ed entrambi bypassano la necessità di contestualizzare e comprendere il significato di quel passo (ad esempio di quale morte si parla? Mai sentito parlare di “morte dell’anima” che riguarda ogni peccato? E che c’entra la morte di omosessuali per terrorismo con la morte dello spirito ovvero la dannazione eterna?).
Insomma il parroco ha ingenuamente steso un tappeto di velluto ai fomentatori del nulla, coloro che sta combattendo anche lui. E un video di tal genere è oggettivamente un’ottima arma per chi porta avanti alcune tesi (fede=violenza=terrorismo fondamentalista=omofobia=cattolicesimo, ecc. ecc.).
Ma questo passaggio deve far riflettere su quanto è in gioco oggi.
Da una parte vi sono i fautori del nichilismo che stracciano i principi secolari che hanno costruito questa nostra benedetta società, ancora riconosciuta come appetibile, e che di qui (dal cristianesimo e dal suo senso profondo della persona – che appunto è spirito e non solo istinto, vedi San Paolo-) è nata. Un nichilismo che si trova assai più vicino agli attentatori di quanto non appaia.
Dall’altra vi sono i cristiani che devono fare un passo, che sono chiamati ad essere più coraggiosi e consapevoli di ciò che portano. È quanto sollecita, con incredibile lucidità, papa Francesco.
Il coraggio dei cristiani oggi, infatti, non consta nell’alzare battaglie improbabili, pena l’essere simili al don Chisciotte di Cervantes, che si ritrova a combattere contro i mulini a vento. Il coraggio vero oggi, e che chiederà a qualcuno o a tanti il martirio, è il coraggio della personalizzazione della fede (Carron). È il coraggio di quanto ha comunicato padre Ibrahim, testimoniando ciò che sta facendo ad Aleppo. In mezzo alla guerra e all’Isis, attorniato da fedeli che andando a Messa rischiano la morte (letteralmente, e l’omicidio del sacerdote durante la Messa è un presagio fosco per l’Europa), padre Ibrahim costruisce. Semplicemente costruisce tutto quanto è umano e cristiano. Perché i due termini, lo si voglia ammettere oppure no, coincidono. Giovanni Paolo II nel 1983 in Università Cattolica a Milano disse “Tutto ciò che contrasta con quanto vi è di autenticamente umano, contrasta parimenti col cristianesimo. E, viceversa, un modo distorto di intendere e di realizzare i valori cristiani ostacola altrettanto lo sviluppo dei valori umani in tutta la loro pienezza. Nulla di genuinamente umano è chiuso al cristianesimo; nulla di autenticamente cristiano è lesivo dell’umano. Nel messaggio cristiano trova arricchimento, sviluppo, pieno chiarimento la genuina sapienza umana.”
Espressione (nulla di ciò che umano è contro Cristo, nulla di ciò che è autenticamente cristiano è contro l’uomo) che ascoltai, da studente, accovacciato nei chiostri della Cattolica e che, oltre a divenire un ricordo indelebile, è divenuto programma di studio, di lavoro e di vita.
In sostanza oggi è urgente la risposta alla domanda: cosa è il cristianesimo? Cosa ha di buono e vero dopo duemila anni? Credo non sia facile desumerlo dalle parole di quella omelia. Certamente vanno evitati i duplici errori, di cui sopra.
Interessante poi vedere come l’intuizione della GMG sia già presente in quel discorso di Giovanni Paolo II a Milano, quando uscendo salutò gli studenti.
“Miei carissimi studenti, vi ringrazio per la vostra presenza, per la vostra solidarietà, una parola diventata direi internazionale, o almeno italiana (allora in tanti lì presenti avevamo foulard e spillette con la scritta Solidarnosc, come vicinanza agli operai polacchi che lottavano contro il regime comunista). La incontro nei diversi posti della vostra e nostra patria, l’Italia. Allora vi ringrazio per questa solidarietà, e poiché siamo già verso la fine del mese di maggio, vi auguro anche i successi possibili nelle prove che vi attendono, i cosiddetti esami. E vi lascio per il momento con la speranza di incontrarvi di nuovo, non so dove. Ma gli studenti, i giovani, si incontrano dappertutto. Dappertutto sono le università, dappertutto sono gli studenti, dappertutto sono i giovani e dappertutto è la speranza dell’avvenire” (qui il discorso integrale al corpo docente)
Di qui si riparte, per la costruzione della civiltà del nuovo Millennio. Non da polemiche vuote (esse stesse figlie del nichilismo), funzionali solo al “nemico”. Ma dalla speranza che risiede nella risposta al cuore dei giovani e dell’uomo, pieno di quel desiderio di infinito che ti porta ad uscire da te (dalle tue piccole o grandi idee) e a riconoscere che l’altro è un bene. Oggi, in un momento dove ci vogliono far credere che l’altro – anche il passeggero al tuo fianco o il passante in strada – sia un nemico, c’è bisogno urgente di questo riconoscimento.
Proseguendo la riflessione sulla centralità della Misericordia per rispondere al dramma affettivo, esistenziale ed intellettuale del nostro tempo (giacché non si tratta di questione pietistica ma primariamente di ragione, intesa come natura dell’uomo), mi imbatto di nuovo nella figura del grande Giovanni Testori.
Già in un mio precedente articolo, primo di questa serie (primo articolo – secondo articolo), avevo riportato passi di Testori in cui egli stesso racconta la sua conversione in maniera estremamente pertinente al tempo attuale ed alla riflessione intrapresa.
Propongo qui questi due video appaiati.
Il primo è l’omelia di don Giussani alla sua morte (1993). La registrazione – purtroppo parziale ma probabilmente quasi integrale – parte con questa parola, perdono, quale chiave per comprendere la vita di Testori (“eri dominato da questa parola, perdono”). Le parole del Gius sembrano completamente immerse nell’attuale percorso della Chiesa e contemporanee all’uomo di oggi.
Il secondo è un servizio su di lui, in cui compare egli stesso mentre recita In Exitu. Realismo, bisogno, grido lancinante e urlo viscerale al destino, ma anche presenza di Uno che risponde: Cristo, il perdono realizzato e presente.
Credo che i due video si illuminino reciprocamente in maniera chiara e intensa.
È un tempo straordinario per la Chiesa e l’umanità intera. Una situazione in cui ogni certezza ha il bisogno di essere rifondata, ricostruita, riconquistata. Un tempo in cui siamo chiamati a combattere un’immane lotta, uno ad uno, per uscire dall’anestesia degradante che abbraccia la “folla”.
Un tempo che è l’apice della ricchezza e della povertà.
1) Il fatto.
In questo tempo è pressoché normale che vi siano fibrillazioni, incomprensioni, situazioni di tensione. Questo accade sia al livello della storia universale (sistemi politici ed equilibri economici pluridecennali tremano, la Chiesa è stata definita una barca sballottata dalle acque…) che particolare. Così si spiegano, ad esempio, alcune discussioni che si stanno amplificando all’interno di Comunione e Liberazione, movimento che da sempre ha saputo vivere sulla frontiera del tempo, mai evitando le sfide del presente e sapendo selezionare i reali crinali della storia, dalle battaglie riduttive, indotte dal potere.
Anche CL, al pari della Chiesa, vive le medesime tensioni interne. Una parte, pur minoritaria, del movimento, oggi mette in discussione il riferimento del nuovo leader del movimento, don Julan Carron, al fondatore don Luigi Giussani. Una messa in discussione che, al di là dei numeri esigui, seppur qualificati, è decisiva, e non solo per Cl. E dunque va capita bene.
È stato lo stesso Giussani ad aver indicato con chiarezza la prosecuzione del suo carisma in Carron. Cito alcune espressioni riportate in più ambiti: “in Spagna vi sono gli echi delle origini del movimento”, oppure “nell’amicizia di un gruppo di preti spagnoli si gioca la permanenza del carisma nel movimento”. Non ho la possibilità di essere testuale ma che esse siano più che reali, lo attesta una fonte decisamente autorevole. Don Stefano Alberto – detto don Pino – per lungo tempo è stato ritenuto, e a ragione, il possibile successore del Gius alla guida di CL. Ebbene, con sferzante ironia rispetto a chi avanza dubbi e resistenze, don Pino ha sostenuto la seconda delle due frasi in un breve passaggio durante un incontro dell’estate scorsa, in occasione della presentazione del libro “Voglio tutto“, dove si raccoglie la storia di una ragazza, decisamente “giussaniana”, avendone vissuto il carisma con impressionante immedesimazione. Don Pino ricorda la posizione di don Giussani, maturata fin dagli inizi degli anni ’90 su questo tema e ne evidenzia il criterio (già esplicitato da Giussani): l’unità, l’amicizia.
Malgrado questa volontà esplicita, malgrado il giudizio chiaro nel criterio (unità contro interpretazione, si legga per questo la relazione dell’incontro nelle parti finali) e malgrado i frutti e la fioritura del movimento – tra i quali Marta è uno dei più belli e dolorosi-, che continua ad essere ricco di testimonianze vive di fede e di impegno nella società, vi è chi fatica a comprendere tale nesso tra l’origine del movimento e l’amicizia dei preti spagnoli.
Nulla di nuovo da una parte. Da sempre don Gius si è dimostrato un passo avanti rispetto al movimento “che aveva visto nascere” attorno a lui, richiamandolo, sollecitandolo, costringendolo ad un cambio di passo. Chi ne ha fatto e ne fa parte sa bene cosa si intenda dire. Per tutti gli altri è sufficiente ripercorrere i testi di don Giussani o la Vita di don Giussani di Alberto Savorana, oppure se non ci si vuole rifare a questa recente opera (recente dunque “carroniana”), si può far capo alla trilogia di mons. Massimo Camisasca sulla storia del movimento. La storia del movimento è storia di svolte, di riprese, di ricentrature. Una ricentratura sempre coincidente con la straordinaria e commossa constatazione della Presenza di Cristo in mezzo a noi, contrapposta al rischio, altrettanto sempre presente, di far scivolare la propria attenzione sulle conseguenze (operative o culturali) di tale Presenza. Su qualcosa di inessenziale dunque, rispetto all’eccezionalità dell’evento cristiano. In tale senso don Gius ha sempre ribaltato gli equilibri.
Ma oggi la difficoltà da parte di qualcuno di accettare le sollecitazioni di chi guida il movimento è straordinariamente coincidente con la difficoltà di accettare chi guida la Chiesa stessa. È una difficoltà speciale, una difficoltà dell’oggi, con caratteristiche uniche nel suo genere e che qualcuno giustamente assimila al ’68, anno in cui il movimento fu spazzato via dagli eventi per poi rinascere nel giro di pochi anni con più chiarezza. Non è un caso, d’altronde, che l’attuale battaglia sui diritti, sul gender, sulla famiglia, sia stata equiparata dal card. Angelo Scola alla rivoluzione del ’68.
D’altro canto don Giussani ha insegnato sempre a seguire il papa – anche quando non era Giovanni Paolo II -. Invece oggi chi fatica a seguire Carron, fatica anche a seguire papa Francesco e in numerosi casi si arriva ad un’aperta distinzione, compendiata di pubblici giudizi con accuse a volte altisonanti. Il tutto, si comprenderà, è altamente significativo e presenta richiami eccezionali, che possono aiutare a capire meglio la difficoltà dell’oggi.
2) Carron e Bergoglio – Giussani e Wojtyla. Ratzinger la chiave per capire 40 anni di storia e le proiezioni sul futuro.
Papa Bergoglio, pur con un temperamento e provenienze differenti, sta raccogliendo la sfida che Giovanni Paolo II, prima, e Benedetto XVI, poi, hanno lanciato al mondo. La sta raccogliendo e riproponendo in termini pressoché identici. È la stessa sfida che don Giussani ha lanciato agli inizi degli anni ’50.
(Nel filmato papa Francesco, in occasione dell’incontro del 18 maggio del 2013 con i movimenti, entra in San Pietro sulle note di Povera Voce, la canzone che meglio di tutte le altre identifica il carisma di Comunione e Liberazione)
Don Carron ha colto questa inflessione e sta lavorando con grande umiltà all’interno del movimento per mettere a fuoco il cuore della testimonianza di don Giussani e del magistero della Chiesa in questi ultimi decenni. Una testimonianza che non si riduce ad un pensiero predefinito ma, piuttosto, ad una continua premura per un’umanità ferita, manchevole di tutto, in primis del “senso delle cose”, della consistenza delle realtà effimere e quotidiane. Una premura che lascia nella storia perle di pensiero, di giudizi, di lungimiranti vedute sul reale ma che trova la sua origine nel cuore stesso dell’evento cristiano, ovvero la misericordia di Dio verso l’uomo. Ricordo la definizione di misericordia data da don Giussani ad una giornata di inizio d’anno degli universitari negli anni ’80. La misericordia è “una giustizia che ricrea” ed esemplificava con uno stupendo esempio: «la Misericordia di Dio sta in questo: che di fronte ad un corpo macilento, coperto di piaghe purulente, lo guarda e per l’unico centimetro di pelle sana, esclama “che bello”!».
Recentemente Avvenire ha pubblicato l’intervista che il teologo Jaques Servais ha ottenuto dal papa emerito Benedetto XVI ottobre scorso e finora inedita, nella quale Ratzinger spiega inequivocabilmente il nesso tra il suo pontificato (tacendolo, e dimostrando così un’umiltà ed una capacità di servizio alla verità che lo rende un gigante capace di primeggiare tra giganti della fede), quello di Giovanni Paolo II e quello di Francesco. Va letta interamente l’intervista -che peraltro ripresenta la grandezza anche intellettuale di questo papa e la sua capacità di visione profetica-, ma in sostanza Benedetto ci spiega perché la Misericordia è oggi la strada privilegiata della Chiesa. Ci spiega come l’umanità non sia più nella condizione in cui versava al tempo di Lutero – allora temeva il terrible giudizio di Dio, oggi imputa a Dio il male della storia – e come la strada della Misericordia sia l’unica efficace oggi. È questa la strada intrapresa con decisione da Wojtyla – non a caso devoto a S.Faustina, fondatrice delle sorelle della Divina Misericordia – e oggi da Bergoglio – che ha convocato l’anno Santo della Misericordia.
Una pubblicazione il cui significato ha ben colto il vaticanista del Corriere, di decennale esperienza, Luigi Accattoli, il cui articolo è titolato però in maniera superficiale e tale da aprire le consuete dispute: “il sostegno a sorpresa del papa emerito alla linea indicata da Francesco”. Le analisi sono condivisibili e acute, ma il titolo, con quel “a sorpresa”, è banale. Così come non è neppure corretta l’opposizione altrettanto giornalistica e superficiale di Antonio Socci, che usa maldestramente, a suo pro, un articolo apparso sull’Osservatore romano.
A parte questo aspetto, l’articolo di Accattoli riconosce perfettamente tutto il percorso indicato da papa Ratzinger e di fronte ad esso si inchina ammirato. Mette conto di riportare le righe in cui Ratzinger esplicita – per la prima volta – un giudizio sul suo successore.
Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia.
Al contrario, c’è chi ha saputo propagandare tale messaggio, stralciandone pochi passi, come esemplificazione e conferma di proprie tesi complottiste, rispetto alla rinuncia di papa Benedetto (uno dei gesti più grandi e coraggiosi della recente storia della chiesa, segno di grandezza e non di debolezza di Ratzinger, logica che tuttavia sfugge completamente in queste valutazioni terribilmente leggere). Ci riferiamo di nuovo ad Antonio Socci, i cui articoli su Lbero, raccolti nel suo Blog, sono un’ostinata opposizione (e con una continuità che lascia pensare ad una sorta di ossessione) al papa, identificato come il più grande nemico della Chiesa. Parole che richiamano quelle acri e ostili a Roma, pronunciate da Lutero 500 anni fa. Parole che avrebbero addolorato fino alla morte don Giussani, il quale, di fronte ad una Chiesa che in certi frangenti non lo ha certo “appoggiato”, manifestò sempre una fedeltà e una sequela commovente ad essa. Un don Giussani che ebbe il coraggio di affermare, con dolore fino alle lacrime, che “la Chiesa ha abbandonato l’uomo, poiché ha avuto paura, ha avuto vergogna di Cristo”, ma che ha combattuto col suo movimento nella più totale obbedienza alla gerarchia, fino ad esserne il fronte più fedele. Tutti i ciellini degli anni ’70 (per ridursi alla esperienza di cui posso attestare personalmente) hanno imparato l’obbedienza, costitutiva per la propria fede, al papa e ai vescovi all’interno del movimento di CL, mentre molti, forse la maggior parte, dei cristiani provenienti da esperienze parrocchiali, in quei tempi manifestavano mille distinguo e quasi giustificavano – in un’errata interpretazione di don Milani – la disobbedienza pratica e teorica alla gerarchia della Chiesa.
3) le evidenze (non sempre riconosciute)
Nel dibattito attuale, Carron e i responsabili delle varie comunità non stanno chiedendo un “serrate le fila”. Con un atteggiamento tipicamente “giussaniano” si sta chiedendo a tutti di giudicare nella propria esperienza quanto è in gioco, le scelte, le differenti posizioni. Si sta chiedendo se quanto di ciò che si va affermando corrisponda alle esigenze più profonde del proprio cuore. Il tentativo, coraggioso, è quello di scoprire qual è il ruolo di un cristiano nella società di oggi, di fronte alle nuove sfide. La proposta insomma è quella di verificare se sia vero (verificato nella propria personale esperienza) che l’unico compito è quello di testimoniare nel quotidiano la presenza di Cristo (il “caldo abbraccio del Mistero”, la misericordia, il Suo sguardo, una potenza eccezionale che cambia la vita da subito) , un Cristo da rilevare presente nell’unità dei credenti, ma in termini reali e operativi, non conclamati o sbandierati.
Se Cristo è presente, allora non c’è altro da fare che abbracciarLo, e allargare questo abbraccio a tutto il mondo. Ma Cristo “è presente se opera”, ed ecco il grande lavoro di giudizio sulla propria esperienza reale, in atto ora come sempre nel movimento.
In Comunione e Liberazione è sempre stato così. Questo il fascino e la fatica di stare di fronte al movimento. Una realtà urticante tanto è decisa nell’affermare l’essenziale.
È stato così per il grande intellettuale Testori, uno dei più forti amici di CL.
Giovanni Testori, omosessuale, intellettuale maledetto, rimase colpito da Cl, e lo ha detto più volte, non per un programma di lotta, non per teologie raffinate, né per altro. Quanto lo colpì fu la misericordia di Dio che arrivava attraverso i volti e l’umanità di alcuni ragazzi e poi dell’intero movimento.
Non condivideva tutto. Non divenne di CL. Ma seguiva il movimento per un di più di umanità, segno di quell’abbraccio. Oggi qualcuno stralcia anche i suoi interventi, decontestualizzandoli, per contrapporre impegno a testimonianza (denunciando la carenza dell’uno sull’altra). Ma dimentica che Testori fu perturbato e commosso dalla testimonianza di umanità, sola a dare senso alla lotta contro il potere (la sua affermazione “non c’è insurrezione senza resurrezione” è universale, mentre quella reciproca, “non c’è resurrezione senza insurrezione”, da lui pure sostenuta -vedi più sotto-, è legata alle contingenze, come è ovvio). Altro segno della partita in gioco, tutta tesa tra riduzione e apertura di orizzonte all’infinitezza del Mistero che si volge su di noi.
Qui trovate il testo integrale del bellissimo incontro del centro culturale San Carlo di Milano, che ha dato occasione alle consuete e desuete discussioni e che invece manifesta qual era e qual è l’impatto di chiunque, specie se un’anima ferita e intelligente come quella di Testori, con il movimento (ovvero con la visibilità di Cristo). In alcuni passaggi gli echi sulla misericordia sono gli stessi che udiamo oggi.
Così si esprimeva Testori a 10 anni dalla sua conversione, a 10 anni dal suo incontro con il movimento (ma poi il suo intervento merita una lettura completa).
Ma io sono sempre stato un cattivo cristiano, in certi momenti disperato, sono nato non solo in una famiglia cristiana, ma anche in una cultura cristiana. Non è una conversione: è una precisazione del mio povero modo di essere cristiano, a cui sono stato indotto dalla morte di mia madre. Mia madre, morendo, ha ridato peso, grembo, latte a questo mio povero modo di essere cristiano. Comunque, quando scrissi questi articoli, nessun vescovo, nessun cardinale, nessun uomo politico (della Dc) mi ha contattato. Mi hanno invece telefonato quattro ragazzi: «Siamo di Comunione e Liberazione: vorremmo parlarle». E sono venuti nel mio studio; la cosa che mi ha stupito è che non erano tutto quello che dicono essi siano. Non mi hanno mai chiesto niente: come fosse la mia povera vita, quali fossero i miei errori; ma mi hanno accolto (e io credo di averli accolti) come amici. Io non sono di Cl, voi lo sapete: sono molto vicino. Le sono vicino per una cosa sola: perché hanno questo senso dell’amicizia, questo senso dell’umanità, dell’integrità della fede, non è integralismo, checché ne scrivano, e sbagliano a scrivere così, perché scrivono per ignoranza, perché non li conoscono. Sono tutti di un pezzo, poi anche loro fanno errori, per fortuna. Però hanno questa rocciosità per quel che riguarda l’uomo (l’altro, il fratello, di qualunque idea sia, di qualunque stortura – Dio solo sa le storture che avevo ed ho io…). Loro non chiedono niente, non domandano conto di niente. Solo su questo piano di umanità. E io vorrei ricordare qui, forse in molti di voi lo sapete, e forse farà piacere sentirlo ai miei due grandi amici Tino Carraro e Pugelli; don Giussani mi raccontava in segreto (ma non è più un segreto, l’ho già raccontato) cos’è stato per lui la scoperta, il senso più abissale della sua posizione di prete e di uomo, quando subito dopo essere stato ordinato, in una delle prime confessioni, se non la prima, si è trovato di fronte a un giovane che, dall’altra parte del confessionale, non riusciva a dire, a parlare. E lui lo esortava: «non c’è niente che tu abbia fatto che non possa essere perdonato, che non possa essere accolto»; ma l’altro faceva fatica e don Giussani, con le parole che riesce a tirare fuori dalla sua fede, dalla sua umanità, lo invitava fraternamente. A un certo punto sente questo giovane dire: «ho ucciso un uomo». Don Giussani dice che è stato lì un attimo, un’eternità, e poi ha risposto: «Solo uno?». Poi mi diceva: «Lì ho capito cos’è la carità, la fraternità, l’amore, cos’è il perdono di cui lui è soltanto il tratto». E l’altro è scoppiato a piangere. Da allora sono diventati, credo, amici, lui è andato a confessare alle autorità il suo gesto e sono diventati amici. Io, perché sono diventato amico di quelli di Cl? Perché se io dicessi a loro tutte le porcate che ho fatto, direbbero “solo questo?”. Perdete pure tutto; ma non perdete questo senso “oltre tutto”, questa umanità che non si scandalizza di niente. Questo sapere che l’uomo può compiere qualunque gesto, può essere di qualunque parte, ma è prima di tutto uomo, figlio di Dio, creatura redenta da Dio diventato Uomo. Se perdiamo questo perdiamo il senso dell’incarnazione, cioè perdiamo il senso totale del nostro essere cristiani. Questa apertura, sì alla integrità, sì alla solidità, ma come mi diceva continuamente Giussani «senza carità», senza amore, anche la fede è niente. La fede è proprio questo amore: questo amore prima di tutto. Io devo ringraziare questi ragazzi (voi e quelli che c’erano prima di voi: voi siete l’ultima generazione) di questa capacità di amore, di umanità, perché arriverà il momento che la leggeranno anche quelli che oggi non la sanno leggere. Ma se anche non la leggeranno, non importa: l’importante è offrire.
Oggi come allora, questo accade in CL (e nella Chiesa). Oggi come allora CL è la comunità in cui passano le più profonde tensioni della storia, per presentarsi nella loro interezza al Dio che pone il Suo sguardo sull’uomo per riempirlo di sé.
Sotto la via crucis di CL di Rimini, svoltasi questa domenica (domenica delle Palme) con il propio vescovo. La comunità di Cl segue da anni la richiesta del vescovo di svolgerla la domenica delle Palme, così da poterla celebrare insieme.
Impressionante la notizia che riporta Il Sussidiario… Un donna ferita al Bataclan, colpita da 6 colpi di arma da fuoco, tre al petto e tre al ventre, è uscita dal coma (leggi qui). La riabilitazione durerà un anno, ma tutto concorreva a far sì che non dovesse essere più su questa terra.
Di fronte all’abisso di questa incredibile sfortuna (essere lì) e “fortuna” (essere viva, malgrado l’essere stati trapassati dalle pallottole delle armi automatiche dei terroristi), non ci si può non chiedere: ma perché? Cosa vuol dire ora per lei vivere? E cosa è morire?
Perché ci siamo e qualcuno non c’è…?
Ed esserci, in mezzo a questa “casualità” assoluta (o non dobbiamo forse dire “gratuità” assoluta, il che è lo stesso, visto però da un altro lato), che significato assume?
Chi ci tiene in vita e chi ce la toglie? Un caso, un destino o Uno con cui entrare in rapporto…?
C’è possibilità di entrare in rapporto con la ragione del nostro esserci? Ma chi è, cosa è, in definitiva, questa ragione? Giacché quanto accade attesta ragioni (il mondo ha una sua struttura), ma queste ragioni non paiono sufficienti a spiegare il punto d’origine.
Viene in mente la modalità con cui Marta Bellavista si poneva questa domanda, nel famoso intervento che tenne in Università nel 2007, dopo essere guarita dal suo primo tumore, un approccio del tutto singolare e a noi così poco noto.
“tu che mi hai ridato la vita una seconda volta, tu che mi hai salvata, cosa vuoi da me? perché mi hai donato tutto questo? perché mi fai desiderare tutto così potentemente? tu che mi puoi togliere e mi puoi dare tutto, continua a mostrarmi il tuo amore e permetti che io non ti resista ma mi abbandoni totalmente a te.”
Marta aveva instaurato un dialogo profondo con un interlocutore.
Vengono in mente le inquiete domande di Tree of life, di Malick, e quelle che ci poniamo sempre quando tra persone libere, pur partendo spesso da posizioni del tutto differenti, ci si ritrova a parlare di ciò che ci preme nelle vita. Non c’è altra domanda che valga la pena realmente porsi, e tutte le domande che possono insorgere, non fanno altro che rimandare a questa. Urge una risposta. E questa “urgenza” rende affascinante la vita.
PS: (dedicato agli amici della “birra filosofica”).
«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa. L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».
(Lettera postata su Facebook da Antoine Leiris, che si rivolge ai terroristi che venerdì hanno ucciso la moglie, al concerto degli Eagles of Death Metal al teatro Bataclan di Parigi).
Questo è l’occidente che vincerà la battaglia. È la radice umana e cristiana della nostra storia. Cristiana, e dunque, per definizione stessa, aperta all’uomo, all’uomo in tutte le sue condizioni, fino a giungere a quel dolore che nessuno ha il coraggio di guardare. Quel dolore che è un abisso, a cui tuttavia siamo stati educati a guardare attraverso gli occhi della croce e della resurrezione. E da cui nasce la potenza di quell’altra parola, perdono. Parola che pare impossibile all’uomo.
Di contro ad ogni facile semplificazione, occorre distinguere e capire, certi che esiste una ricchezza preziosa, capace di darci l’opportunità di uscire dall’empasse in cui siamo caduti.
Il valore della lettera di Leiris, infatti, è nella testimonianza di una diversità presente, non ancora cancellata, di un vivere capace di vincere la morte e l’odio.
Per questo la testimonianza di amici mussulmani, amici cari di cristiani, come FarahdBitani o Wael Farouq, sono oggi preziose, perché percorsi rinnovati e in atto di una possibile novità per l’uomo, chiamato, ora come sempre, a rispondere alla domanda che ci accomuna tutti: che cosa regge di fronte alle sfide dell’esistenza?
La risposta al terrorismo passa per le vite di ognuno di noi, chiamati a non dimenticare, come vorrebbero che facessimo, questa domanda.
Il mio amico Arca, scrive su Facebook, riportando Pasolini…
Non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine, o con i discorsi, con gli scritti, con i versi: la lotta più dura è quella che si svolge nell’intimo delle coscienze, nelle suture più delicate dei sentimenti.
Pier Paolo Pasolini – “Vie Nuove” n. 51
28 dicembre 1961
Uniti nel tentativo di rispondere ci si riscopre assieme, pur da posizioni differenti.
È il voler il bene dell’altro in quanto altro. È l’anima dell’Europa.
Come dice Leiris, se saremo fedeli a questo, siamo già vincitori.
Come già scritto, lavorando sui totalitarismi con le mie due quinte, in occasione dell’imminente viaggio, a Monaco l’una, a Berlino l’altra, abbiamo scoperto una luce quanto mai interessante per leggere l’attuale situazione di violenza e paura, scatenata dagli attentati di Parigi.
Non un evento che riguarda altri, un passato già sepolto (Nazi-comunismo) o persone di altra civiltà e cultura (Isis). Ma un evento che riguarda noi. Riguarda le ipocrisie, recenti e remote, dei potenti e delle persone comuni che si abbeverano a slogan dal fiato corto. Riguardano noi, riguardano me e te, e “l’egoismo sdrucciolo che abbiamo tutti quanti” (Guccini, Libera nos domine).
Per questo ho apprezzato enormemente l’ “azione” dei ragazzi che si sono resi disponibili a proseguire il lavoro svolto a lezione, con ore aggiuntive (e non dovute), guardando e ragionando su film come La Rosa bianca (totalitarismo nazista) e le Vite degli altri (totalitarismo comunista) insieme a docenti (di filosofia e storia, ma anche religione, fisica, matematica) che allo stesso modo hanno giocato il loro tempo per un qualcosa di non scontato, non dovuto. Gratuitamente.
C’è un segreto importante in questa piccola mossa degli studenti e dei prof implicati, capaci di commuoversi di fronte a vicende e temi di questo genere. Ci siamo mossi insieme attorno alla ricerca di un vita nella verità.
Il film Le vite degli altri, anticipato dalla lettura di un brano del libro dell’allora dissidente Vaclav Havel, Il potere dei senzapotere(1978), ha messo a fuoco il motivo di questo muoversi e commuoversi.
La svolta della vita dell’aguzzino della Stasi avviene dopo l’ascolto della Suonata per un uomo buono, il cui spartito viene regalato da un caro amico, rovinato dal regime e poi suicida, allo stesso protagonista (Georg Dreyman.). Dopo averla suonata, Georg Dreyman esclama, “ma se uno ha ascoltato, veramente ascoltato, questa musica, come può continuare ad essere ancora cattivo?”.
La suonata viene associata, sempre dal protagonista, all’Appassionata di Beethoven, il brano con cui ho iniziato ad amare la musica classica, allora 19enne… musica poi compagna di una vita intera e che spesso faccio ascoltare ai miei studenti.
Non ho potuto non ricordare, a conclusione del film, un passo di T.S. Eliot che mi è sovvenuto alla mente immediatamente… “Sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono”.
In fondo il totalitarismo è il grande tentativo, ancora in corso in forme diverse, di realizzare questi “sistemi”.
Il totalitarismo non è lontano da noi. È l’esperienza dell’ottundimento della ragione, l’oblio dell’amore al bello e al buono, l’indifferenza all’altro, la perdita del gusto della ricerca della verità, il fermarsi all’esecuzione dei propri compiti senza che nulla ci strappi dal nulla, quel nulla in cui cade necessariamente la nostra esistenza se non ci accorgessimo della presenza di un “alone di splendore (che) aleggia sulla vita degli uomini” (Christoph Probst, membro della Rosa Bianca).
Questo alone di splendore va riconosciuto, contendendo “palmo a palmo il terreno alla notte” (don Giussani).
Una bella battaglia. Questa la vera battaglia, questi i “compagni di lotta”, contro cui l’ISIS non ha chanche di vittoria.
Di compagni di lotta così ne ho conosciuti tanti nella mia vita e ne conosco ogni giorno di nuovi. Uomini (alcuni cristiani, altri islamici, altri ancora non credenti) capaci di desiderare ancora il bello, il vero, il buono.
Ma quegli uomini che hanno ucciso che speranza avevano? La donna, Hasna, era una dirigente d’azienda, bella, brillante… ma odiava la Francia, paese d’infedeli. Altri erano imbottiti di droga, per reggere il grande passo verso la morte. Altro che Martiri. Martiri sono i 19 Egiziani Copti che benedicono Cristo, mentre il boia impartisce loro una morte che non desideravano. 19 giovani che vivevano per qualcosa di più forte della morte.
I criminali dell’ISIS, non immigrati, ma nativi in Europa, non balordi ma colti e affermati – così taluni -, che Francia ed Europa hanno incontrato? Come non essere tristi per non aver saputo loro testimoniare nulla di buono?
Per questo la lotta al nulla, che accomuna noi e l’Isis, noi nella nostra impotenza a testimoniare una speranza, l’Isis nella sua folle traduzione della disperazione in un progetto totalitario e irrazionale, così simile al Nazismo per la sua crudeltà e lucida pazzia, passa per scintille di bellezza e di vita diversa. Come quella messa in atto, pur forse inconsapevolmente, dai miei ragazzi e colleghi. Per questo dico loro grazie.
Scintille di vita buona. Come quella in cui si darà esplicita manifestazione con il grande gesto di gratuità della Colletta alimentare del 28 novembre. Un puro gesto di gratuità che spezza il grigiore del quotidiano e fa riscopre l’alone di splendore di cui ben si accorgeva il martire per la libertà Probst. Anche per questa iniziativa, occorre dire grazie a tutti coloro, studenti, amici, che si stanno mettendo in gioco e mi testimoniano che l’ISIS non può vincere.
Scintille di vita diversa, per imprimere alla vita un corso diverso dal nulla a cui ci vogliono portare, soavemente con le note di un motivetto alla moda, o crudelmente, con il volto accigliato di un terrorista islamico.