Un paio di giorni fa Charlie Gard è volato in cielo. I genitori hanno rinunciato a procedere nella loro battaglia, riconoscendone l’impossibilità. L’ospedale ha proceduto secondo le proprie prerogative.
Non ci interessa, qui, proseguire una battaglia che è stata irta di malintesi e banalità, che abbiamo in parte documentato in due lunghi articoli (leggi il primo e il secondo). Malintesi e banalità che fan fuori una complessità che il dialogo con alcuni amici, tra cui medici e persone appassionate alla vita ed alla vicenda, ha confermato e che la Chiesa stessa riconosce in questi casi, come gli articoli del Catechismo voluto da Ratzinger attestano (si veda art. 2278 e 2279 del Catechismo), lasciando margini di azione terribilmente ampi, tutti in mano ai medici ed ai famigliari.
Vogliamo porre lo sguardo su quello che realmente e profondamente è accaduto.
Da una parte, ancora una volta, si è affermata la tragedia che riguarda ogni uomo. La sconfitta delle proprie aspirazioni, la prova fattuale che “non ce la possiamo fare”. La morte è il riscontro sicuro e oggettivo di questa impotenza a realizzare i propri desideri.
Con la vicenda di Charlie Gard si è visto, tuttavia, anche altro. Si è visto che il desiderio dell’uomo di vivere, di amare, di combattere è potente. È capace di stringere insieme migliaia e milioni di uomini. I genitori di Charlie sono stati la testimonianza di questa forza e in tantissimi ci siamo stretti attorno a loro (pur con diverse valutazioni sulle opportunità da seguire, sulle quali i medici stessi si sono trovati divisi, anche a causa del condizionamento mediatico), commossi per questa tenacia e questo amore al proprio figlio.
Viene in mente il Leopardi della Ginestra, il Leopardi del titanismo, che piega il suo pessimismo verso un volontaristico e imponente sforzo di compassione e un appello all’unione del genere umano per combattere contro la natura matrigna.
Ma resta la domanda. È una battaglia che può essere vincente? La risposta è chiara. No.
Vengono in mente i miti del Foscolo (unica consolazione per l’uomo, destinato al nulla), oppure, in tempi più recenti la bella canzone di Guccini, Le cinque anatre. Se anche una sola continuerà il suo volo, mentre le altre 4 cadono, questa sarebbe la prova che “si doveva volare”. Il problema è che neppure quell’unica anatra, nel nostro caso, può continuare il volo per raggiungere il suo Sud.
Ma allora che significato ha la tenacia dei genitori e la commozione del mondo intero (commozione capace di muovere perfino i potenti)?
La soluzione è quella di non deviare l’urgenza della domanda che Charlie testimonia: a che vale la vita? Perché il grande spettacolo della vita, se poi ci viene improvvisante portato via?
Di qui la necessità – di cui dicevamo a margine dei precedenti post – di poter sperimentare da subito scintille di resurrezione, ovvero di vittoria.
Costruire luoghi dove è possibile sperimentare da subito la vittoria sulla morte, dove tale vittoria è altrettanto quotidiana e reale quanto la presenza della morte che ci pervade, è la vera buona battaglia. Luoghi che diano senso e speranza anche alla tenera e cara vita di Charlie, e senso e speranza al dolore di quanti lo hanno amato così fortemente.
Lo ricordava don Giussani, nel 1982, come cifra risolutiva per la vita di ognuno.
« “Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede”. Questa è la vittoria che vince l’inesorabile degradazione verso la morte, la mortificazione della vita, l’anticipo del sepolcro che è l’abitudine: la fede, il riconoscimento di qualcosa che accade, di ciò che accade, del senso della vita che accade, di Cristo che viene tra noi». (don Giussani, Una strana compagnia).
La nostra fede, come reale riconoscimento di un avvenimento, e non miti (progressisti o conservatori, pragmatici o valoriali) creati da noi e che inesorabilmente saltano la realtà nella sua fattualità (rende in bianco e nero ciò che è pieno di sfumature). Quella realtà che dobbiamo imparare ad avere il coraggio di amare.
Per questo serve , oggi più che mai, l’intelligenza della fede, affinché si abbia finalmente il coraggio di guardare ciò che c’è, senza sogni e aggiustamenti.
Io non so niente
ma mi sembra che ogni cosa
nell’aria e nella luce
debba essere felice
Credo che se c’è una cosa che insegna la vicenda del piccolo Charlie, sia proprio questa: imparare ad amare la complessità.
Le semplificazioni e le battaglie in nome di certezze preventive hanno generato interventi in rete, ed anche sui giornali, di cui non si avvertiva onestamente il bisogno.
In una vicenda in cui i colpi di scena si avvicendano a cadenza quotidiana (tanto la vicenda medica e giuridica è intricata per chi non possieda la cartella clinica di Charlie), occorre prudenza e attenzione vigile. Ultimo, tra i colpi di scena, è la richiesta dei medici del Great Ormond, l’ospedale dove è in cura Charlie, di riaprire la questione, rivolgendosi all’Alta Corte inglese per riesaminare il proprio giudizio alla luce delle richieste dell’ospedale Bambin Gesù del Vaticano. (Si legga qui). E speriamo che si aprano davvero speranze, per quanto la luce sia flebile.
Bisognerà seguire la vicenda dunque, ora per ora, per capire di più e meglio.
È sempre più chiaro che la grossolana mole di certezze che, da una parte come dall’altra, ha caratterizzato il dibattito è veramente inappropriata e sbagliata come approccio.
E mi ci metto dentro anche io (che pur mi son preso del “Pilato”, “traditore” e quanto altro potete immaginare di bassissimo e nefando, per aver osato avere dubbi e cercare di riflettere). Malgrado il lunghissimo post di un paio di giorni fa, frutto di giorni di letture e riflessioni, ancora molto sfuggiva. Il post è stato però l’occasione, quale onesto tentativo di comprendere, per risposte e approfondimenti importanti, di cui ringrazio i lettori (e invito a leggere i commenti, preziosi in coda al precedente articolo).
Mi sfuggiva ad esempio la lunga intervista a Colombo che avevo letto e apprezzato ma non adeguatamente interiorizzato e fatta mia. Oggi molti amici si chiedono quali siano le coordinate (sia mediche, che etiche, che teologiche) della questione. Credo che l’intervento di Colombo dia il contesto giusto e vada preso come linea maestra per ogni successiva discussione. Bisogna avere la pazienza di leggerlo tutto fino in fondo (in particolare al punto “3” senza fretta. (Si legga qui)
Anche l’intervista al dott. Cesana su Il Foglio, permette di comprendere quanta prudenza occorra avere. Si rompono dunque anche schemi consolidati, nel panorama del “mondo cattolico” tra i cosiddetti “battaglieri”, e fedeli alla linea, e le “colombe” (categorie idiote per il mondo cattolico, dove la più grande battaglia è quella dell’agnello immolato, ovvero Cristo). E meno male che gli schemi si rompono. (Si legga qui Cesana)
Il problema vero è riconoscere e dare credito a quelle “scintille di resurrezione” di cui parlavo nell’articolo precedente, vero aspetto interessante e pertinente (resurrezione da non ridurre a una “posizione per cui combattere”). Scintille presenti nell’attività di tanti medici, tra cui la dott.ssa Parravicini, ma attestata anche dalla bella lettera di Valeria Bertilaccio.
Ma perché questo accada occorre amare la complessità. Non ridurre la realtà al “già saputo”.
Ma a quale condizione è possibile amare la complessità?
C’è solo un modo per potersi addentrate nella realtà senza aver timore che questa ci porti via speranza, vita, valore. Occorre “credere” che la realtà sia densa di significato, comunque si ponga, in ogni suo aspetto. Un “credere” che diventa esperienza ragionevolmente fondata nell’incontro con Cristo, laddove si scopre che il Logos si è incarnato ed è la stoffa di cui è fatta la realtà (“la realtà invece è Cristo”, San Paolo).
Pertanto, se proprio all’interno di media cristiani si sono aperte battaglie grossolane (e tardive, ci ricordano amici che vivono a Londra), – magari da parte di tanti ingenuamente- è per poca fede e non per urgenza della fede. La battaglia che la realtà ci chiede, per uscire dal vortice del nulla, è un’altra. È la domanda di esistenza, di vita, dell’esserci. È la preghiera perché Charlie e la sua famiglia si salvino (dalla morte, prima che non dai tribunali). Lo aveva capito perfettamente Giorgio Gaber, a cui ieri abbiamo dedicato, con gli amici del Centro culturale Il Portico del Vasaio, una serata conviviale di ascolto e di riflessione. In Io e le cose afferma “Io non so niente / ma mi sembra che ogni cosa / nell’aria e nella luce / debba essere felice.”
Per il resto, prima di brandire “casi” come armi per sostenere una propria idea, occorre passione per capire, certi che la realtà non tradisce.
E questa è la fede che ho imparato da Giussani che in fin di vita sostenne, “la realtà non mi ha mai tradito”.
I nuovi complessi problemi etici che si sono aperti da tempo, potranno generare nuove soluzioni di pensiero, solo a partire da questo, laico e di fede (ovvero pienamente razionale), approccio.
È per questo preziosa l’ “altra parte” del dibattito. Quella fatta di ricerca, richieste di chiarimento, lettura appassionata, attenzione ai dati. Una ricerca che ha portato a nuove e più consapevoli domande che oggi richiedono risposte decisamente urgenti.
L’intensificazione di questo lavoro di “presa di coscienza” è sicuramente generativo di una nuova speranza.
La vicenda di Charlie Gard ha aperto ferite. Domande (molte) e risposte (poche, ma ne emerge una assolutamente decisiva e va guardata con reale interesse). Emerge una diversità di opinioni. Battaglie non esattamente sacrosante e battaglie invece profonde e vere, ma salvo alcuni casi soffocate da un senso di enorme, ed inerme, impotenza.
Senza dubbio la domanda più grave è il significato e il senso di tutto quanto è in gioco. Ha senso una sentenza che non accoglie la volontà dei genitori di tentare tutto perché il proprio figlio viva? Ha senso il precedente veto dei medici ad operare scelte da parte della famiglia per una nuova “cura”? Ha senso tuttavia perseguire una “cura” che si affermi come non produttiva se non di nuovi dolori (così dicono con diversi livelli di certezza)? Ma perché negarne la possibilità? E perché lottare così tanto per un figlio che “non ha futuro”? E poi, oggi terribilmente urgente, che cosa è eutanasia e cosa accanimento terapeutico?
E soprattuto dove consiste il valore di una vita?
Ad alcune di queste domande, risposte sono giunte, ad altre no. Ci sono dati che, peraltro, il clamore mediatico non ha messo bene in rilievo. Tra l’altro ringrazio le obiezioni di alcuni miei alunni, ora studenti di medicina, e di alcuni colleghi, perché mi hanno aiutato ad andare più a fondo. Premetto che di tutta la vicenda e delle risposte che mi sono state date, c’è qualcosa che proprio non torna ancora. In sostanza ritengo che “staccare la spina”, di fatto, non sia una risposta ma un cedimento. Necessario? Opportuno? Comunque un cedimento, una sconfitta di fronte a “quella battaglia che nessun uomo potrà mai vincere” (Springsteen). Occorre capire se ci sono margini di speranza su questa battaglia, che in fondo è quella di tutti. Solo così sarà possibile illuminare di una luce diversa anche la vicenda di Charlie. Occorrono scintille di resurrezione perché altrimenti non è fottuto solo Charlie, ma anche tutti noi. Questa storia mette a nudo questa terribile verità. Siamo ingannati dalla vita o questa ha un senso (malgrado tutto, ma proprio tutto, anche malgrado, e dentro, drammi come quelli di Charlie)? L’amarezza della canzone di Springsteen fotografa la stessa amarezza che proviamo di fronte a Charlie. Ma questa è specchio della nostra vita, delle nostre giornate.
Senza arrivare a questo punto, si produce ingiustizia, anche sostenendo le idee giuste, È così ingiusto (moneta di segno opposto ma dello stessa natura di chi propaga la morte) fare battaglie senza conoscere i dettagli e l’unicità di questo caso. Anzi l’unicità di tutti questi casi, avendo connotazioni veramente delicate, come dimostrano gli interventi di numerosi medici cattolici – anch’essi divisi nelle opinioni – e come dimostra la pratica effettiva in tanti ospedali cattolici. A dimostrazione del fatto che il problema ha una sua delicatezza tutta particolare e che le questioni che si aprono sono nuove e prive di risposte pre-definite, pur entro l’alveo certo che ha chiarito il Papa: si lotta per la vita, non per altro.
I due interventi hanno suscitato una marea di critiche, a volte virulente (veri e propri insulti), segno di quanto la vicenda sia importante e sentita, ma anche di una reattività, istintiva e violenta, a volte non comprensibile, sicuramente non tollerabile.
Appare chiaro che forse non ci si stia intendendo su numerosi dettagli, ma forse non ci si intende su che significhi “vita” .
Mele, Emanuele Campostrini, intanto, a dispetto della diagnosi delle prime settimane, va a scuola (vedi l’articolo integrale). La famiglia Gard e la famiglia Campostrini (che aveva inviato un video appello perché si lasciasse vivere Chiarlie) si sentono quotidianamente.
In rete si trovano numerosissimi altri articoli, espressione delle due direzioni di opinione. Sempre Vita.it ricorda, intervistando Luca Manfredini, referente per la terapia del dolore e cure palliative dell’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova, che in Italia i bambini che necessitano di cure palliative (che non hanno speranza di guarigione) sono 35mila e solo il 15% ne può usufruire. Fatto di cui nessuno si occupa. Cure palliative, non eutanasia. L’eutanasia non può mai essere contemplata – al contrario di come sembra affermare la legislazione belga, contro cui si è scagliato l’International Children’s Palliative Care Network (ICPCN) – come opzione percorribile in questi casi.
Ma è questo il caso di Charlie? Alla fine dell’articolo si chiarisce la questione ricalcando la posizione della dott.ssa Rigoli. (Si veda qui per intero l’articolo). Il finale tenta di chiarire uno dei grandi dilemmi: «nessun intervento medico è consentito a meno che i suoi vantaggi non superino i danni. Quando la cura non è più possibile, tali benefici e danni devono essere considerati in senso ampio, in un modo che comprende anche gli interessi emotivi, psicologici e spirituali così come quelli fisici. Poiché è la famiglia dei bambini che li conosce meglio, tale considerazione si basa sulle discussioni tra la famiglia e il team sanitario (e quando possibile, il bambino stesso) per stabilire se gli interventi sono equilibrati e nel migliore interesse del bambino. Quelli che non lo sono – cioè il cui danno supera i benefici – dovrebbero essere interrotti o evitati. Questo non costituisce eutanasia».
Come si vede la questione è estremamente complessa (ma sarebbe un errore grave avere paura della complessità) e non sono giustificate battaglie all’arma bianca, mentre risultano a dir poco sconsolanti i tentativi di far apparire silenti e assenti le istituzioni della Chiesa da parte di “ultras cattolici”, tirandole per la giacchetta. In tal senso si veda il solito Socci che conclude il suo articolo con l’umile e devota espressione, “un Papa vero non si comporta così”. In realtà già i vescovi inglesi erano intervenuti, così come mons. Paglia e lo stesso presidente della CEI Bassetti e mentre Socci si apprestava a pubblicare le sue parole di fuoco, il papa interveniva con un tweet a cui è seguito un comunicato tramite il suo portavoce (si veda qui). La posizione del papa è quella della difesa della vita e della relazione di Charlie con la propria famiglia (ma su questo pare che essi abbiano perso la patria potestà nel momento che sono entrati in contenzioso con l’ospedale, come prevede la legge inglese – vedi articolo Bertini-).
Le avvisaglie di questa “cultura di morte” sono state messe in luce da lungo tempo. In occasione del dibattito intorno al caso Eluana, l’associazione riminese Hannah Arednt invitò il dott. Mario Melazzini, malato di SLA. Durante la conferenza si espresse provocatoriamente, affermando che nella sua situazione non era preoccupato di “aver diritto a morire dignitosamente” (come allora si chiedeva da più parti alla legislazione italiana), bensì di aver diritto a vivere, poiché in tanti paesi, specie di cultura anglo-sassone, non si curano più i malati terminali; le loro cure sono ritenute costose e inutili, e li si lascia morire. Parole che paiono profetiche.
Melazzini, poi, sempre a Rimini, presentando un suo libro al Meeting, affermò “Quando mi hanno comunicato che avevo la Sla ho pensato che di questa malattia si muore. Ora mi rendo conto che il mio male mi ha dato più di quanto mi ha tolto ed è questo sguardo che voglio dall’infinito. Apprezzare con gioia la vita, ma con la consapevolezza del Mistero che ci circonda… anche su una sedia a rotelle non si smette mai di cercare”. Una cultura che non riconosce più il valore della vita, anche nella malattia, esiste e c’è chi la combatte mostrando che la vita c’è dove meno te l’aspetti.
Sarebbe invece grave prendere a pretesto questo caso, per innescare una presunta “battaglia di popolo”. È una posizione rischiosa, perché prevale un progetto sulla presenza di una vita (una e irripetibile), che c’è ed è il vero punto di rinascita, il quale non potrà consistere in una nuova presunta cultura, nata sull’onda emotiva di un fatto così straziante, e non dalla reale presenza di vita rinnovata. In tal senso occorre, in primo luogo, recuperare un reale senso del valore dell’esistenza. Non di una concezione dell’esistenza ma dell’esistenza stessa. Alcuni fatti sono d’aiuto a capire questo ultimo punto e la possibilità di una svolta in questo dibattito.
Il primo fatto è che se migliaia di persone si sono stracciate le vesti di fronte alla sorte di Charlie, un’amica che vive a Londra mi scrive un paio di giorni fa: “La cosa più triste per me è la solitudine dei genitori, su cui certo anche qualche medico ha le sue colpe, come poi è emerso dalla sentenza. (…) Non c’era nessuno davanti all’ospedale. Tutti su Facebook a fare crociate.”
Un’annotazione semplice ma di importanza capitale.
Evitando di considerare la storia di Charlie come un’arma da scagliare contro la “cultura della morte” (Charlie non è un’arma, Charlie è lui, è terribilmente malato e il suo destino è misterioso), offre i criteri per un giudizio (la difesa della vita e il valore della relazione con i genitori) ma soprattutto rilancia le domande che sono sottese da questa terribile vicenda. Domande sulla morte e sulla vita. Domande che trovano una risposta in quello che la Parravicini ha costruito, esprimendo un’indomabile esperienza di vita. Che sperimenta concretamente che significhi sperare contro ogni speranza.
Senza questa esperienza, senza questi sprazzi di resurrezione, ogni battaglia è perduta in partenza. Avrebbe terribilmente ragione Springsteen, geniale laddove afferma che “c’è qualcosa che muore per strada questa notte. Quando la scommessa viene infranta, (…) questo ti ruba qualcosa dal profondo dell’anima. Come quando viene detta la verità e questa non fa alcuna differenza e qualcosa nel tuo cuore diventa di ghiaccio.”
Senza sprazzi di resurrezione saremmo di ghiaccio e privi di vita, già sconfitti, sia sul fronte pro-life che sul fronte di coloro che vogliono staccare la spina, anzi tante spine. Quelle spine che ci ricordano le parole del preconio pasquale: “Nessun vantaggio per noi essere nati, se Lui non ci avesse redenti”.
Come non diventare di ghiaccio di fronte ai duri colpi della vita e mantenere vivo il “sogno della giovinezza” (Giovanni XXIII)?
È la questione che solleva il dramma che sta vivendo Charlie. Un dramma che, nascosto tra le apparenze del quotidiano, è in realtà dentro ognuno di noi in ogni frangente delle nostre giornate.