Il virus che ammorba la scuola e i suoi anticorpi

Mio articolo uscito su BuongiornoRimini il 6 novembre 2020

C’è un virus ancora più grave del CoronaVirus. È più subdolo, nascosto, eppure assai più devastante. Non riguarda i corpi. Non riguarda la nostra biologia. Qui non c’entrano mutazioni, diffusioni, fattori RT di contagio. Riguarda l’anima, riguarda l’intelligenza e la volontà. Riguarda la libertà.
C’è un virus che sta uccidendo la nostra libertà, perché sta uccidendo la nostra capacità di confrontarci con la realtà, chiudendoci in una dimensione meccanica e priva di passione per le cose.

Questa pandemia è particolarmente attiva nella scuola, il luogo dove si dovrebbero crescere le anime, formare le persone, aprire le menti. Invece oggi è il luogo dove vige la potenza di questo virus occulto e non dichiarato. Eppure nella scuola ci sono forti anticorpi, che hanno permesso alla stessa di resistere fino ad ora. La scuola, malgrado sia così infetta e maleodorante, resta un luogo dove persone vive si incontrano.

Le persone che portano questi anticorpi talvolta sono i docenti. Dovrebbe essere questo il loro compito precipuo. Certamente non sempre è così. Possiamo dire che il virus, in questo secondo caso, trova la sua vittoria. Portatori sani di anticorpi, spesso, sono gli stessi studenti. Con la loro baldanzosa naturalezza, con una incredibile e spontanea energia, sparigliano spesso le carte. A loro basta poco. Una domanda, una considerazione, un gesto magari poco opportuno ma che porta tutto il desiderio di una vita vera, di una conoscenza non artefatta, di una passione non spenta nei confronti di quanto si va facendo. Basta poco, e la lezione rinasce. In questo tempo di Lockdown nella scuola sono accadute cose di grande portata profetica, per chi intenda guardarle.

Due esempi. Uno del virus ammorbante. Uno degli anticorpi più forti del virus.

In questi giorni, studenti e insegnanti si sono visti traditi nel loro sforzo di dare un senso al proprio percorso. Salvato l’anno scolastico a marzo scorso, inventando una didattica a distanza che non era dovuta da contratto, messo in piedi a settembre tutto un apparato di sicurezza per cui a scuola senza dubbio ci si sentiva in un luogo sicuro (non vi è stata diffusione del CoronaVirus tra le aule, ma semmai in altri luoghi), a causa delle mancanze di altri attori (in primis il problema dei trasporti) docenti e studenti si sono visti settimana scorsa di nuovo costretti ad una sconfortante didattica a distanza (che comunque resta sempre meglio che nulla). Dapprima per il 75 % delle classi, ora per il 100%. A fronte di questa forte e palpabile delusione, la beffa. Increduli, i docenti di numerose scuole hanno letto in circolari comprovate da normative varie, che se anche tutti i propri studenti della mattinata fossero stati destinati a casa, il prof doveva essere “in presenza”. In presenza nell’assenza. Costretto da circolari bizantine a fare lezione a distanza, ma da scuola. Così la scuola diveniva di fatto un “non luogo”.

Quegli stessi insegnanti che hanno salvato l’anno scolastico con un impegno a casa propria che non era previsto da nessun contratto e che risultava perfino illegittimo (erano tenuti a marzo a non firmare il registro, perché risulta “illegale” far lezione da casa, con conseguenza di una complicatissima procedura per assegnare voti e assenze), ecco, proprio costoro che, senza tirarsi indietro di un millimetro hanno ostinatamente voluto “far lezione”, ora vengono chiamati a una sorta di “lavoro forzato”, ovvero ad uno sforzo senza altro significato se non quello che può essere immaginato quale “punitivo”. 

Difatti, fatta salva ovviamente la possibilità di accogliere a scuola quei docenti che mancassero di strumenti, non si capisce perché mai un prof debba fare da scuola – mentre la nazione intera tenta di limitare i contatti sociali e gli spostamenti – quel che può fare con più efficacia da casa. Come era facile prevedere, per aggiungere note di grottesco a questo noir dai sapori stantii, si è subito visto come le scuole non siano affatto preparate ad accogliere l’interezza delle lezioni via web. Cadute di connessione, computer non predisposti, disturbo dato da una organizzazione oggettivamente complessa hanno portato mediamente (stima data dal racconto degli insegnanti stessi e degli alunni) a una perdita del tempo di lezione che si avvicina ad un terzo rispetto al lavoro che poteva essere fatto da casa (in certi casi anche oltre la metà).

In una classe vuota, con i ragazzi sul monitor, la domanda spontanea era se tutto questo fosse uno strano sogno. Una specie di incubo, un “sonno della ragione”. Ora qualcuno sembra essersene accorto. Paiono essere mutati i bizantinismi interpretativi. Meno male. Ma resta indelebile questa settimana di follia giuridicamente corretta (o forse no?).

Ma veniamo agli anticorpi.

Si potrebbe parlare di tante cose ma per capire quali siano gli anticorpi che salveranno la scuola, e di conseguenza l’intera società, basta un semplice episodio. Banale e inconcludente. Ma salvifico.

Due giorni fa mi accorgo che un ragazzo sta seguendo dal terrazzo. Accadeva anche a  primavera, talvolta. E, tra me e me, dicevo “fan bene, lo farei anche io se potessi!”. E magari ci usciva anche una battuta sugli Aristotelici che facevano lezione passeggiando… Ma a novembre no. Qualcosa non torna. Oggi, dalle 8 del mattino, è ancora sul terrazzo, avvolto in un pesante piumino invernale.

E allora incuriosito chiedo, “ma perché sei sul terrazzo, non hai freddo? Ci sono problemi di silenzio o di spazio in casa…?”. La risposta è stata fulminante nella sua semplicità: “Prof, mi sono appena trasferito e non ci è arrivato ancora il wi fi. Ho finito in una giornata i giga del mio cellulare, ma ho scoperto che c’è un wi fi libero qui vicino. Purtroppo prende solo da qui. Così seguo le lezioni dal terrazzo. Mi sono costruito una copertura, una tenda…  Il problema è che ieri c’era nebbia e si bagnavano i fogli! Così dopo 3 ore son dovuto entrare in casa e disconnettermi”. Sono a bocca aperta. Questo ragazzo, un normale nostro studente non particolarmente “secchione”, pur di seguire le lezioni è stato per una settimana intera ogni mattina sul suo terrazzo per 5 ore di fila. Senza dire nulla. Senza lamentare difficoltà di connessione. Senza trovare scusanti per una più che comprensibile assenza, magari autorizzata dai genitori. In questo gesto semplice, ma decisamente significativo, in questo moto della libertà del tutto personale e “disarmato”, si cela qualcosa che c’entra con la possibilità di una rinascita della scuola e della società.

Possiamo starne certi. Vinceremo il virus. E non intendo certo il Covid, che, a fronte dell’assurdità in cui siamo immersi, è poca cosa davvero (ed è tutto dire).

Il ricordo che non oblia

Pubblicato su buongiornoRimini

È singolare come sia facile al contempo celebrare il tema della memoria e del ricordo, e cadere nel più profondo oblio delle ragioni per cui meritano di esistere giornate di questo genere. Oggi, a lezione, uno studente mi chiede: “ma perché ricordare queste persone, questi eventi?”. Domanda tutt’altro che banale, anche alla luce di quel che si vede ripetersi attorno a noi, tra scontri di vecchie ideologie, polemiche pretestuose, parzialità terribili nel ricordare i drammi del nostro tempo.
Per anni abbiamo giustamente celebrato nella Giornata della Memoria (27 gennaio) la tragedia dell’Olocausto (unica nel suo genere), inorridendo per le violenze razziali perpetrate dai Nazisti. Tuttavia troppo spesso questa celebrazione ha avuto un sapore strano, un retrogusto d’artificiosa parzialità, una sorta di occulta retorica falsante che rendeva quel momento non pienamente autentico. Con l’istituzione della Giornata del Ricordo, nel 2004, – giornata che cade il 10 febbraio– si è tentato di porre un parziale rimedio a quell’oblio occulto. Con il ricordo dei caduti nelle foibe e dell’esodo degli italiani del confine orientale, si è finalmente guardato qualcosa che era sotto casa, vicino, prossimo, e dunque ancor più scandalosamente taciuto.
Ma per rispondere alla domanda del nostro studente, occorre fare uno sforzo ulteriore.

Se andiamo a vedere i grandi drammi del Novecento, troveremo un tratto comune, che ci aiuterà in questa ricerca.
Sforzandoci un po’ in questo esercizio di memoria, troveremo ad inizi Novecento la tragedia che il giurista Raphael Lemkin, colui che poi nel ’44 coniò il termine genocidio, intese sottoporre all’attenzione della stessa Società delle Nazioni.

Le marce della morte degli Armeni

Si tratta del genocidio degli Armeni, perpetrato dai Turchi nel 1915 (si parla di circa un milione e mezzo di morti). Ignoto per il grande pubblico e nelle scuole fino a una quindicina di anni fa, tutt’oggi è ben poco conosciuto. Per non parlare della tragedia dell’ Holodomor, ovvero la morte procurata per fame da Stalin agli Ucraini, notoriamente ostili ai principi della rivoluzione, all’interno del contesto della grande carestia ad inizio degli anni ’30 in URSS. Anche questo evento rientra, a parere di Lemkin, nel novero dei genocidi.


Proseguendo questa carrellata esemplificativa, incontriamo la tragedia di Katyn, dove l’URSS tentò di azzerare la coscienza nazionale polacca, decapitandola delle sue classi dirigenti. Ben 22mila ufficiali dell’esercito, a freddo e senza motivazione bellica, furono uccisi e sepolti in fosse comuni presso Katyn. Malgrado da subito fosse chiara la cronologia dell’evento, attestato da rilievi degli operatori della Croce rossa, e dunque la responsabilità dei russi allora occupanti (1940), gli stessi riuscirono ad accreditare fino agli anni ‘90 la tesi della colpevolezza dei nazisti, giunti 3 anni dopo in quell’area e scopritori delle fosse.

Harry Wu

Possiamo poi prendere in considerazione i Laogai, i lager cinesi, tuttora attivi e ben poco noti salvo ai lettori più attenti (il test sui miei studenti ha dato risultati pari a zero per tutto quanto sopra citato), di cui, qui a Rimini, dieci anni fa, potemmo ascoltare una descrizione da un testimone diretto, Harry Wu, ospite del Meeting.

Ma gli stessi Lager russi, fino agli anni ’80 erano un tabù per l’opinione pubblica di massa.
Mi permetto inoltre di tornare a inizio secolo, viaggiando al di là dell’oceano, per ricordare la guerra cristiada, combattuta dal popolo messicano contro la laicizzazione forzata dei governi rivoluzionari di ispirazione massonica.

Il tratto comune di queste esperienze, pur così diverse, è chiaro.
Pur nella loro estrema differenza, queste esemplificazioni (qui necessariamente riportate per cenno e dunque senza i tanti dettagli e distinguo che sarebbero fondamentali per una più approfondita descrizione) possiedono un tratto comune che ci rilancia fortemente sull’oggi e che rende ragione alla preziosa domanda del mio studente, “ma poi perché oggi ricordare questi eventi?”.
Si tratta di un elemento comune che eccede – per spregiudicatezza, dimensioni, brutalità – ogni altra ragione (di potere, di carattere economico o politico, o che faccia capo a violenze e vendette). In tutti questi casi assistiamo al tentativo di costruire una società sulla base di un programma politico che azzera l’uomo reale, la società esistente, il popolo nella sua concreta espressione effettiva. In nome della razza da ripristinare nella sua purezza, in nome della giustizia sociale, in nome di un astratto progresso frutto della pura ragione o in nome di un nazionalismo di maniera, troviamo regimi che si sentono legittimati – e dunque zelanti nell’esercizio del loro potere – a ridefinire i connotati di un popolo, eliminando chi non rientra in quanto già definito.

Oggi occorre tornare a ricordare quegli eventi, perché se ne riconosca l’origine comune, quel vizio della contemporaneità che si condensa nel cedimento alle ideologie portatrici di una tentazione totalitaria. Di contro si tratta di comprendere quale sia l’unico valore che possiamo affermare nella storia, attraverso un’azione politica autenticamente costruttiva: la libertà dell’uomo. Quell’uomo concreto, in carne ed ossa, portatore di limiti ma anche di risorse preziose (talora imprevedibili), e che tuttora è dimenticato, cacciato nell’oblio a causa di slogan, proclami, parole d’ordine, magari foriere di voti ma dimentiche di chi è il reale protagonista delle azioni che proclamiamo.
In fondo è una terribile leggerezza che dobbiamo lasciarci alle spalle e la forza drammatica che alcuni eventi passati possiedono può risvegliarci e farci accorgere che non è possibile accontentarsi di “un gioco tattile sulla superficie delle cose” (Nietzsche), specie se si parla della cosa pubblica e dell’interesse di milioni di persone.

La drammatica vicenda degli esuli italiani del confine orientale, dovrebbe farci ricordare che erano uomini in fuga non solo da vendette legate al conflitto, ma da un regime che mostrava tratti disumani, uomini non accolti adeguatamente dalla stessa loro nazione, spesso in nome di un principio ideologico analogo a quello che fuggivano. Una ostilità ideologica che oggi si ripropone in forme nuove e secondo nuovi slogan. Una “leggerezza” politica che dobbiamo assolutamente sconfiggere, affinché si affermi l’unica risorsa tanto del nostro come di ogni tempo: l’uomo, quale io unico e irripetibile, mai riducibile a categoria sociologica.

Dio salvi l’Italia

Se Mattarella ha deciso di porre uno stop così eclatante ad un percorso che pareva essere sulla via della conclusione, qualcosa di grave, di molto grave, assai più di quanto possiamo già sapere o immaginare, aleggia tra le quinte del dibattito politico di questi giorni.

Certamente la situazione non può essere ridotta alle semplificazioni che penetrano la nostra pelle, con la complicità dei social. “Mattarella servo della Merkel”. “Democrazia defraudata”. “Volontà popolare schiacciata”. Dittatura del Presidente”.

Slogan che non possono essere il criterio per un giudizio che permetta di ricostruire la nostra democrazia. e un’Italia più forte. Slogan che non posso che cozzare contro i “Poteri forti” e infrangersi in mille pezzi, con la naturale conseguenza di portare al disastro la nazione intera, destinata a deflagrare sulla spinta di iracondi desideri contrapposti.

In questa situazione, il punto di speranza – data l’assenza della politica – è il tessuto sociale ancora presente in Italia. Gruppi e gruppetti di amici appassionati alla politica che, fuori dai giochi, si aiutino a vincere la reattività e la passività  (due facce dello stesso errore).

Vincere la semplificazione iraconda è il primo dato.
Il secondo è l’amore per la realtà che non coincide mai con semplici schemi (di destra o di sinistra, penta stellati-sovranisti o europeisti, democraticisti o putiniani).
Il terzo è vivere da subito un elemento di positività e di speranza, da difendere, da sostenere. Non il risentimento ma la speranza, la cui certezza sia il presente che soddisfa, che riempie l’esistenza e che pertanto ha rilievo, conta, pesa inferendo senso di responsabilità, fino ad evitare sbandate istintive alla “tanto peggio” (tipico di chi non ha nulla da difendere).

Confrontandomi con amici in alcuni di questi gruppetti, che si stanno moltiplicando spontaneamente, in sé senza alcuna pretesa e futuro ma di cui sono profondamente grato come l’elemento più utile oggi, ho chiesto – proprio per vincere la tentazione della reazione istintiva – all’amico e grande saggio della politica Nicola Sanese una sua opinione.

Questi i punti che ci ha girato in una chat e che credo meritino una più ampia diffusione.  Nicola ha acconsentito di riportarli su questo blog, malgrado siano ovviamente precari, quali semplici appunti scritti su WhatsApp.

Il dibattito nella chat citata si era innescato dopo un mio post che suonava così: “Conte rinuncia. La situazione precipita. Preghiamo per l’Italia.”.

Così Nicola Sanese:

” In estrema sintesi:
1. Situazione molto critica iniziata dal 4/12/17 e dagli errori dell’ ex-premier Renzi.
2. Legge elettorale “Rosatellum” del tutto inadeguata.
3. Passo debole di Di Maio-Salvini l’avere indicato un non eletto il 4/3.
4. Mattarella ha assecondato al meglio l’esito del voto del  4/3 , ma ha avvertito i due di alcuni limiti invalicabili.
5. L’inesperienza di Conte e la “prepotenza” dei due “escono” dal campo della politica.
6. Nel crollo delle evidenze va aggiunto il consumarsi del sistema democratico.
7. La saggezza politica (da chiedere si, con la preghiera) è un governo di tutti per: blocco aumento IVA, legge di bilancio e legge elettorale modificata.
NB: apprezzo molto il vs dialogo
PS: Nel passato più volte ci furono stop su candidati ministri “.

Che dibattiti di tale profondità si moltiplichino, vincendo l’istinto forcaiolo (e impotente) è l’unica speranza per il medio termine.  Il breve sarà sicuramente durissimo.

Dio salvi l’Italia.

 

Al concerto “Canta per il mondo” di sabato 19 maggio, Marco Ponselè, giovane operatore di AVSI, ci racconterà la sua Africa

Sarà Marco Ponselè, il testimonial della serata che il Coro popolare e l’Ensemble Amarcanto regaleranno alla città sabato sera alle ore 21, presso il Novelli dei Rimini.

Marco Ponselè

Marco, giovanissimo, da un anno lavora in AVSI. Una scelta professionale ma anche di vita, di ricerca di un lavoro che possa permettere di realizzare il “sogno della giovinezza” (Giovanni XXIII).
In Marco l’entusiasmo per una vita che si va costruendo (e nel migliore dei modi) è palese, ed è contagioso. Nelle sue parole i drammi dell’Uganda, del Sud Sudan, del Kenia non sono occasione per una cupa percezione di quello che non va (ed è tanto), ma un terreno da arare, un campo di lavoro, una strada, pur irta di ostacoli, da percorrere con energia e sguardo aperto al futuro.

Vi proponiamo una video intervista, realizzata via Skype, dagli uffici di Milano dove Marco lavora insieme a Lorenzo (intervistato ieri) e Maria (già presente a Rimini ottobre scorso).

Marco ci ha parlato del primo suo vero incontro con AVSI, frutto di un viaggio e di una collaborazione nata ai tempi della tesi di laurea in Università Cattolica in management, per la quale passò un periodo in Kenia. Un incontro che nel tempo si è trasformata in una scelta di lavoro.

Nel descrivere il suo lavoro, definito come  “corrispondente” al suo desiderio, ha toccato quelle realtà di AVSI  che proprio il concerto di sabato andrà a sostenere, ovvero l’Uganda.

Colpito dal desiderio di riscatto e di costruire la propria vita che le persone incontrate in Africa gli hanno testimoniato, Marco ha sottolineato come “tale desiderio rimanga dentro”, costituisca la molla per cui si possa costruire una realtà grande come AVSI. Un desiderio di costruire la propria vita e la società che fa sì che la scuola di Kampala sia tale “da far invidia a tante nostre scuole”, un luogo bello, “dove desideri starci”. Dunque una positività e una vita rinnovata, di cui sentiamo tutti il bisogno. Anche noi comodi occidentali.

Ma merita di essere ascoltata per intero questa clip di soli 15 minuti, ma decisamente intensa.

Buona visione e ci si vede sabato (domani) sera!

AVSI 2018: una casa per tutti

 

Lorenzo Franchi

In attesa del concerto del Coro Popolare di sabato prossimo, abbiamo intervistato Lorenzo Franchi, responsabile della Campagna AVSI 2018, ovvero la raccolta fondi che permette di sostenere ben 149 progetti sparsi in 30 paesi del mondo.

Con lui vogliamo capire meglio le ragioni di un impegno divenuto così esteso  e tale da riguardare  un numero sempre crescente di volontari.

Lorenzo partiamo dal tema che avete scelto quest’anno. La casa.  Perchè?

L’idea di casa che stiamo raccontando non è solo un luogo fisico, ma un luogo dove una persona si può sentire accolta, guardata, curata se ne ha bisogno. Intendiamo tutti quei luoghi dove una persona può intrecciare relazioni. È la casa intesa come dimora, come luogo in cui trovare se stessi. Questo concetto si presta bene come “ombrello” che raccoglie i vari progetti che sosteniamo quest’anno: il progetto della Luigi Giussani High School di Kampala, l’asilo di Qaraqosh, Portofranco in Italia e  gli “ospedali aperti” in Siria. È decisamente interessante, in tal senso, quanto dice in un video girato a Kampala, all’interno del quale un prof. della scuola afferma: “chiunque viene qui si sente a casa”, concetto ribadito da un ragazzo, durante l’inaugurazione dell’anno della scuola. Cerimonia importante con studenti, famiglie, i prof., autorità, e prende la parola Odong, uno studente, dicendo “questa non è una scuola” e si interrompe. Istanti di silenzio, tra il terrore degli insegnati che hanno pensato “chissà cosa dirà adesso!
Poi prosegue: “questa non è una scuola, perché questo posto è casa mia. Qui infatti sono atteso, guardato e amato in ogni istante. È per questo che al mattino non cammino ma corro per venire qui.” 

Notevole. Vogliamo fare una panoramica sugli altri progetti sostenuti questo anno?

Partiamo dalla Siria. In un paese straziato dall’odio, ridotto in poco tempo a condizioni inimmaginabili tra cui l’emergenza sanitaria che è altissima (si parla di 11 milioni e mezzo di persone che non hanno possibilità di curarsi), nasce nel 2016, grazie alla sollecitazione del nunzio apostolico Mario Zenari, il progetto Ospedali aperti. È un progetto che porterà cure a 40mila persone. Già quest’ anno abbiamo curato 4mila persone. Una goccia nell’oceano, ma accogliere gratuitamente tutti (vi sono ospedali funzionanti, ma a pagamento e le persone non possono accedervi), senza distinzione di credo (accogliamo cristiani, sunniti, sciiti…) o di provenienza, è una grande rivoluzione in un paese connotato dall’odio.

Ospedali in Siria (clicca sull’immagine per leggere maggiori informazioni)

 

In particolare l’intervento su cosa verte?

Abbiamo potenziato tre ospedali, con macchinari, strumentazioni, strutture. Abbiamo istituito un ufficio per valutare i casi di più forte urgenza e di reale bisogno (verificando che siano veramente persone prive di risorse). Ospedali aperti accende una speranza, perché fa capire che si può essere accolti per quello che si è, senza alcun retropensiero o interesse.  In un paese dilaniato per ben 7 anni da una guerra che nasce da pretesti religiosi, la nostra presenza fa comprendere che ci può essere un modo diverso di vivere.

Passiamo all’asilo di Quaraqosh.

L’asilo di Qaraqosh (clicca per maggiori informazioni)

Qui è particolarmente evidente il concetto di casa. Liberata la città dall’ISIS, i 50mila profughi che in tempi rapidissimi erano dovuti fuggire nel 2014, ora possono tornare. Ma tutto è da ricostruire. La prima cosa che hanno chiesto è stato di costruire un asilo per i propri figli, sulla scia dell’esperienza entusiasmante vissuta nei campi profughi, dove avevamo iniziato un’esperienza simile. È lì, nei campi profughi di Erbil, che li avevamo incontrati. Offrivamo loro la prima assistenza ma poi è nato un asilo di 150 bambini. E’ da quella esperienza che hanno voluto ripartire. L’asilo è cresciuto fino a raggiungere 400 bambini. E’  l’unico funzionante ed è il centro, il volano, della rinascita della città.
L’obiettivo è quello di ricostruire l’umano, cosa ben più difficile (e importante) che non ricostruire gli edifici.

Portofranco invece opera in Italia…

Portofranco, aiuto gratuito allo studio (clicca per maggiori informazioni)

Portofranco, la rete di docenti che aiuta gratuitamente ragazzi in difficoltà con lo studio, sta incontrando centinaia e centinaia di stranieri. Sta diventando cioè uno strumento di integrazione eccezionale, un luogo dove italiani e stranieri, alunni e docenti, si incontrano e si riconoscono nel bisogno di crescere, di imparare un metodo, di trovare un terreno comune. Portofranco sta facendo molto per l’integrazione.

Tornando all’Uganda, la situazione come si configura?

La “Luigi Giussani High School” di Kampala (clicca per maggiori informazioni)

La situazione è di grande povertà. L’Uganda accoglie un milione e cinquecentomila profughi del Sud Sudan, dove una guerra che si sta protraendo dal 2013 ha già causato 50mila morti. Un paese duramente provato, che vede AVSI presente da tanto tempo. Qui fortissimo è il rapporto con Rose Busingye, l’infermiera che ha costituito un centro di assistenza per donne ammalate di AIDS a Kampala.
La Luigi Giussani High School, l’hanno voluta loro per i propri figli, perché rinate in un rapporto personale con Rose hanno voluto che per i loro bambini potesse aprirsi una speranza, ovvero la possibilità di vivere la bellezza della vita che hanno cominciato ad assaporare.  (si veda integralmente il video linkato sopra, dove Rose interviene più volte). 

Senza dubbio, in questo mare di bisogno, l’opera di AVSI è una goccia…

AVSI i progetti e la diffusione nel mondo

Certo, e vorremmo fare molto di più, avere molte più risorse. Ma non è questo il punto. AVSI intende educare le persone. Ogni intervento tende a generare una novità in chi ci incontra così che questa vita nuova possa poi dilatarsi. La sfida è la possibilità di far crescere dei soggetti vivi, nelle zone del mondo disastrate ma anche qui in italia.
È una sfida, dunque, che riguarda ognuno di noi. Riguarda anche il semplice volontario che aiuta la campagna con un’iniziativa come le tante nate a Rimini, tra cui quella del Coro.

Cosa significa per te lavorare in AVSI?

Oltre ad essere una professione, AVSI per me è un luogo dove posso avere uno sguardo privilegiato sulla realtà.  È un lavoro che mi tiene aperto sul mondo intero.

Quanto sono importanti le iniziative come quella di sabato sera?

Esprimono bene questa azione corale, in cui ognuno ha un compito. Oltre a questo, ci forniscono risorse decisamente significative. Sono un migliaio i nostri sostenitori e, grazie a tutti voi, ci arrivano un milione e trecentomila euro. Con il sostegno a distanza sono assistiti 25mila bambini.  Sono dati importanti. Ma ancor più, con queste attività spesso così creative come la vostra, seminiamo un principio differente dentro la realtà che viviamo.
Dentro il bisogno di cura, di sviluppo, di educazione cerchiamo di far emergere quello che nel profondo sta a cuore ad ogni uomo. È su questo riconoscimento di un bisogno profondo che nasce e si costruisce una casa comune dove sentirsi pienamente accolti.

 

“Canta per il mondo”: dare casa al desiderio di pienezza di ogni uomo

Torna il concerto del Coro Popolare (detto il “corone”), la realtà nata a Rimini oramai cinque anni fa dal singolare incontro tra genitori e ragazzi preoccupati di costruire un valido percorso educativo – l’associazione di Famiglie Onlus Il Ponte sul Mare –  e l’ensemble Amarcanto. Quest’anno, sulla scia della bella esperienza di anno corso, si aggiunge il giovanissimo Piccolo coro delle scuole Karis, guidato da Teresa Forlani. Il tutto coordinato con esperienza da Laura Amati e Anna Tedaldi.

L’appuntamento è per il 19 maggio, al teatro Novelli di Rimini, alle ore 21 (vedi la locandina).

Siamo al quinto anno, tanti ne sono passati dal primo concerto, ma è più che mai vivo il desiderio di incontrarsi e di porre nella città un principio di novità, una possibilità di incontro e di risposta ai propri bisogni più profondi. È questa infatti la ragione ultima che muove i circa 70 componenti del coro, i quali mettono in gioco se stessi e la loro passione per la bellezza, attraverso il canto, per giungere ai confini del mondo, sia con la ricerca musicale, sia, concretamente, rispondendo alle urgenze che incontrano. Anche quest’ anno, infatti, i proventi del concerto andranno a sostenere gli studi di 14 studenti in Uganda. I ragazzi frequentano la Luigi Giussani High School, un’ oasi di umanità in un paese già martoriato dalla guerra, in preda oggi alla povertà e terra di accoglienza di profughi provenienti dal Sud Sudan.

A descrivere le sofferenze, ma anche le speranze e le scintille di vita presenti in quelle terre (tra cui la scuola è una delle perle più preziose), sarà Marco Ponselè, membro di AVSI e di recente impegnato proprio in Sud Sudan e che vanta forti legami con il Kenia e soprattutto l’Uganda.

AVSI è la realtà che coordina 150 progetti di aiuto concreto alle popolazioni in ben 30 paesi tra le zone più bisognose del pianeta. Quest’anno la raccolta fondi lanciata in Italia sostiene quattro progetti: un’ospedale in Siria aperto a tutte le persone, di qualsiasi ceto e credo religioso; un asilo a Qaraqosh, la città da poco liberata dall’ISIS; l’associazione Portofranco, che in Italia garantisce un aiuto allo studio a centinaia di ragazzi, tra cui numerosi stranieri, fornendo così un’esperienza di integrazione di straordinario valore; ed infine proprio la Luigi Giussani High School.

La formula della serata sarà quella sperimentata con successo gli anni scorsi: ad introdurre il concerto vi sarà la testimonianza di Ponselè,  per poi viaggiare nel mondo intero, grazie alla musica, seguendo una traccia ben precisa, dettata dal tema che ha caratterizzato tutte le iniziative di AVSI di quest’anno.

Il tema scelto per il 2018 è la casa, intesa non solo come dimora fisica, ma come luogo di accoglienza e di incontro. Luogo in cui uno trova se stesso.

Ed è proprio questa, in fin dei conti, l’esperienza del “corone”, che da Rimini si dilata al mondo, come già gli anni scorsi abbiamo scritto ampiamente.

Quest’anno questa intuizione originale è ancora più evidente.

È sempre più forte infatti il pullulare di iniziative che nascono spontanee e che vanno ad incontrare i bisogni crescenti di una società sempre più liquida. Liquida nelle sue componenti d’origine. Non sappiamo più chi siamo. Non riconosciamo più la nostra terra come nostra “casa”. Non abbiamo più luoghi di reale incontro.  Una perdita di coscienza resa ancora più acuta, ma non causata, dalla presenza di numerosi migranti, stranieri che fuggono dalle situazioni che AVSI tenta di alleviare e confortare nelle zone d’origine. Nascono così gruppi e realtà che si muovono per rispondere anche qui, in Italia, al bisogno di dimora, di istruzione, di accoglienza.

Il Coro Popolare di Rimini è un grande ponte lanciato tra il bisogno di trovare ed offrire una dimora. Cercare e trovare la propria casa ed offrirla a chi l’ha perduta è un tutt’uno. E questo si realizza, in primo luogo, in uno sguardo, in un incontro (dove tutto si ricompone, dove la casa prende forma  nel proprio animo), fino a giungere a volerla costruire, raccogliendo denaro, producendo iniziative, magari partendo come testimonieranno i volontari di AVSI, che nei prossimi giorni interpelleremo per farveli conoscere meglio e che sabato sera avremo presenti fisicamente a Rimini.

La casa è un movimento della persona, che genera un’amicizia che diventa un luogo umano, una dimora dove ritrovarsi. Condividere questa casa con chi non la possiede, perché distrutta o mai costruita, è un passo conseguente e necessario.  Ed è così che accade che gli amici del Coro possano giungere a sostenere una mezza classe di ragazzi, strappati ad un destino, altrimenti privo di speranza. È così che AVSI si impegna, senza pretese risolutive, a costruisce una casa per tutti.

Nei prossimi giorni approfondiremo quello che fa AVSI nel mondo e la grande opportunità che la serata di sabato offre ad ognuno di noi.

Opportunità, in primo luogo, di ritrovare la propria casa.

Nel 2014 il Coro Popolare già cantava “Voglio una casa”, anticipando il tema 2018 di Avsi. 

Il Natale nel nuovo millennio: la commossa meraviglia per una bellezza povera e drammatica

Spesso Giovanni Paolo II parlava dell’avvento del nuovo Millennio come il tempo di una rinascita del Cristianesimo e di una nuova evangelizzazione (“aprite le porte a Cristo”). Papa Benedetto ha precisato come dovessero cadere tutte le “conseguenze” del Cristianesimo, per attestarci sull’essenziale: Dio che ci viene incontro (parlava di “minoranze creative” e prefigurava il disegno di una chiesa che ha perso e perderà ogni potere mondano). Papa Francesco sta operando fattivamente secondo la dinamica dell’incontro, testimoniando la prossimità di Dio in ogni situazione, in ogni storia particolare, con un impeto tutto nuovo e con forme sorprendenti e libere.

L’esperienza umana, per credenti e non credenti che seguano attentamente il cammino di consapevolezza della Chiesa degli ultimi decenni, è appassionante. È la scoperta continua di una positività insperata, ancor più luminosa se nascosta nelle pieghe più buie della vita. È una “impossibile” positività che vince e si afferma, seppure visibile solo agli occhi di chi è abbastanza “povero” da poter vedere.

Trovo riassunta in questa dinamica tutta la migliore filosofia che gli autori, che insegno da anni, propongono (Socrate, Platone, Tommaso, ma anche Kant stesso ed alcuni aspetti del tanto vituperato Hegel o di Marx, per non dimenticare Nietzsche o Heidegger).  In questo gioco sottile della natura con la ragione, di Dio con l’uomo, si inscrive la grande ricerca della verità di sempre.

Il Natale è semplice ma non è cosa da poco.

È la grandezza di un Mistero che ci dona la ragione per comprendere la realtà e poi sceglie ciò che è impossibile per la ragione per darci una luce definitiva sulla vita.

Ed è necessario che sia così.

Proprio in questi giorni a lezione, studiando Cartesio e Pascal, emergeva come l’intelletto  non possa afferrare il cuore dell’esistenza (ma poi lo sostiene anche, sorprendentemente e criticando l’illuminismo, il giovane Hegel, emblema del razionalismo moderno). Come dunque afferrare il cuore dell’esistenza se non oltrepassando quella ragione, i cui concetti  la mia docente tomista (Sofia Vanni Rovighi) definiva con termini pascaliani, “grandezza e miseria del genere umano”?

Il Natale per un filosofo è cosa strana. Da una parte la sua semplicità e quotidianità lo lasciano attonito e quasi smarrito. Come fosse troppo poco. Dall’altra lo affascinano e lo attirano, come un segreto che pre-sente ma non conosce, un segreto rivelato ai piccoli e di cui lui, che fa del conoscere il suo mestiere, non ne sa nulla.

Trovandomi con numerosi colleghi per una cena insieme, ed essendo prossimi al Natale, ho voluto regalare  loro il Volantone che alcuni amici preparano ogni anno. Ho desiderato in realtà condividere  quanto  ha voluto dire per me questo foglio di carta quest’anno,  riassunto in un video che ho proposto a colleghi, studenti e amici, e che  trovate qui sotto.

Il volantone è una foto , accompagnata da una frase di un altro mio docente all’università (e molto più che un docente), don Luigi Giussani.

Una “storia particolare” è la chiave di volta della concezione cristiana dell’uomo, della sua moralità, nel suo rapporto con Dio, con la vita, con il mondo. La nostra speranza è in Cristo, in quella Presenza che, per quanto distratti e smemorati, non riusciamo più a togliere – non fino all’ultimo briciolo, almeno – dalla terra del nostro cuore per tutta la tradizione dentro la quale Egli è giunto fino a noi.

Quando l’ho visto la prima volta, distrattamente, ho pensato a una suggestiva foto di un presepe. Il tema è, in un bianco e nero cupo, la luce che promana dalla capanna di Betlemme. Osservando meglio, ci si avvede che si tratta di migranti. E qui mi sovviene la lezione che per un corso di aggiornamento  di filosofia avevo udito un paio di mesi fa. Il prof. Elio Franzini, descrivendo la “natura del bello”, concluse in maniera commovente, citando San Francesco e definendo la “bellezza della povertà” quale chiave per capire la natura più profonda del bello.

È anche la chiave di questo volantone che, uscendo – come accadde già diversi anni fa più volte per quello analogo di Pasqua –  dall’immagine iconografica classica, lancia un messaggio eccezionale. Il messaggio che Franzini, inconsapevolmente, ci ha lanciato ad ottobre: “guardiamo queste immagini – si riferiva a drammatiche foto di migranti – vi è una bellezza povera, drammatica, che non ha bisogno di parole ma finché non comprenderemo questa bellezza povera e drammatica noi non comprenderemo il senso che la bellezza ancora oggi ha per noi”.

Il Natale è per tutti, come ha scritto Carron. Il Natale è per questo nuovo millennio, tempo in cui abbiamo smarrito la nostra ricchezza. Il Natale ci permette di guardare nuovamente e realmente quella realtà che ci appare spoglia e povera ma che nasconde una ricchezza inestimabile: l’amore di un Dio che si fa compagno della nostra intera esistenza e che nulla al mondo ci può strappare di dosso o può allontanare dalla nostra vita, qualsiasi condizione stiamo attraversando.

Il cuore vuoto e il cuore chiuso

Il Meeting 2017 procede nel cammino verso l’approfondimento del carisma di Giussani, riconosciuto sempre più decisivo per approcciarsi al presente. Un carisma, che, come ben delinea la mostra – brevissima ma di notevole chiarezza – che si trova sul retro del banco dell’ International Meeting Point, non coincide con alcune “forme di presenza” o alcuni giudizi ma con l’immedesimazione completa, totale e appassionata con Cristo, vissuto come “stoffa dell’essere”, come radice di cui ogni cosa vive. E dunque fonte di giudizio libero e appassionato su tutto.

Un giudizio che si compie grazie all’aiuto dell’ “altro”, del diverso, di colui che non ti aspettavi.

Questa libertà è quanto Giussani ha vissuto ed ha tentato di insegnarci. Una libertà che nasce da una dimensione di rapporto con il Mistero, quasi fosse una “mistica” incarnata nella storia.  Non a caso, il momento topico del meeting 2017 può essere identificato, ad oggi, nell’incontro tra due monaci, ovvero due uomini che di mistica se ne intendono. Ebbene in questa “mistica” si può trovare la radice per una nuova passione per la Polis, una passione capace di superare vecchie forme, lontane davvero un millennio.

Lunedì scorso si è parlato dell’amicizia tra don Giussani e Abukawa, il monaco buddista del Monte Koya, il più profondo centro spirituale del Giappone (interessante leggere l’articolo sul Quotidiano Meeting dove un’appassionata orientalista scopre casualmente che nella sua Rimini sarebbe venuto colui che, per incontrarlo, dovette raggiungerlo in Giappone, dove peraltro aveva trovato misteriosamente le stanze costellate di foto del Meeting di Rimini). Quel Giappone così ostile ai valori cristiani, come ci è stato ricordato dal film Silence recentemente. È proprio con Abukawa che oramai da trent’anni nasce e si conserva un’amicizia profonda e intensa, per nulla limitata dalle “differenze culturali”.

L’incontro del 21 (lunedì scorso) tra l’abate generale dei Cistercensi, Mauro Giuseppe Lepori, e Shodo Abukawa – Lepori ha ereditato tale amicizia da don Giussani – è stato un approfondimento eccezionale di qual sia il compito del cristiano, di fronte alle sfide del nuovo millennio.

Liberi da ogni formalismo, hanno pregato assieme (in una forma rispettosa del credo di ognuno, senza sincretismi), hanno relazionato e testimoniato il valore di un incontro tra uomini che si fonda sul comune rapporto con il Mistero, come bene ha sintetizzato Alessandro Caprio sul Quotidiano Meeting (pag 1 e pag. 3). (Ma è assolutamente imperdibile la visione dell’intero incontro cliccando qui.)

In particolare Lepori ha posto alcune sottolineature che risultano decisive per il futuro della Chiesa e dell’uomo contemporaneo, così restio ad abbracciare una tradizione che considera un peso, un intralcio, una sorta di residuo che funge da zavorra nel suo confuso errare verso una realizzazione, che pure gli appare sempre più una chimera. Giudizi che possiamo considerare sciagurati, e che tuttavia stanno lì, inamovibili e rocciosi. Tanto più rocciosi, quanto più l’uomo, ferito, sanguina e ansima, straziato dal dolore di un’esistenza che appare sempre più vuota. Eppure, sempre più chiaramente, questa situazione emerge come una grande risorsa, da cogliere per il bene di tutti.

Lepori ha letto il contenuto di una calligrafia, realizzata da Abukawa e portata a lui in dono, in cui si afferma una vecchia espressione di Kobo-daishi, il fondatore del Buddismo Shingon: “Tutti quelli che vanno a trovare un grande maestro o una persona virtuosa, hanno il loro cuore vuoto. Ma grazie all’incontro con lui, tutti saranno salvati e torneranno sulla strada di casa con il loro cuore pieno di soddisfazione”.

Lepori ha colto, a partire di qui, la grande dicotomia che abbiamo di fronte oggi. Oggi si tratta di scegliere, se avere “un cuore chiuso o un cuore vuoto” (Lepori ha più precisamente detto che “l’alternativa a un cuore vuoto è un cuore chiuso”).

Questa espressione, lapidaria e fulminante, nasconde un chiarimento essenziale di fronte a  tutta la fatica della chiesa e dell’uomo di oggi. Il grande compito rispetto a cui il papa sta incoraggiando instancabilmente  l’umanità intera. Esortazione che lo rende l’unica autorità morale del presente, come più osservatori hanno affermato.

La via di uscita, oggi, non è un cuore pieno. Bensì sostare sul quel vuoto, non temerlo, condividerlo con l’uomo d’oggi, cercare chi avverte questo smarrimento di fronte al Mistero, per ritrovarsi di fronte alla dimensione ultima della vita, sostare di fronte a quel Tu che unico può riempire la vita (Giussani ci insegnò: “Io sono Tu che mi fai”).

Se non raggiungiamo questo livello ultimo e profondo (per questo si parlava di mistica, non si fraintenda con uno spiritualismo), oggi nessuna risposta “della terra di mezzo” può apparire significativa. Il cristiano, come d’altro canto ha ben chiarito Costantino Esposito con il suo momento “Profeti del nostro tempo”, ha l’occasione di comprendere più pienamente la sua fede, potremmo dire se stesso, la propria identità (che non si identifica con quanto già costruito, ciò di cui Vittadini in maniera provocatoria ha detto di “non sapere che farsene”) in un mondo che crolla. Il nichilismo dell’uomo contemporaneo, vissuto come grido, è la grande opportunità perché l’uomo torni a vedere Cristo, e non sue propaggini, sue conseguenze, sempre e comunque insufficienti.

Seguendo la suggestione di Lepori si può dire che fare cultura oggi (rendere la fede cultura) è soprattutto costruire “relazioni che rendano eterne quelle costruzioni” (di mura, di idee, di valori) che la storia sta spazzando via. Costruire ciò che le rende eterne, cosicché quand’anche venissero spazzate vie le idee, le mura, i valori, nulla cambierebbe perché ne sarebbe mantenuta l’origine. Si comprende bene il carattere invincibile di tale posizione. Quand’anche l’ISIS facesse crollare San Pietro, non saremmo perduti, se (e solo se) vivremo questa dimensione.

È la strada. La nuova ed antica strada, in un momento di ricostruzione di civiltà (una ricostruzione i cui frutti probabilmente, in termini di “strutture” la nostra generazione non vedrà, come d’altro canto la generazione di S.Agostino non vide la societas christiana ).

È decisamente un approfondimento notevole, che chiarisce, distilla, precisa tutta la vita di CL, riprendendo tutti gli instancabili interventi del Gius per correggere un percorso che oggi si adagia con sempre maggiore docilità sulla linea maestra dell’esperienza viva e sorgiva nata da lui, dopo tanti “tentativi ironici”, preziosi ma per definizione da definire e correggere sempre. Oggi più che mai.

Possiamo dire che dalla “mistica” di Lepori (e Abukawa) e dal “cuore francescano” di Pizzaballa (che ha approfondito il tema del Meeting), nasce un nuovo impegno nel mondo, una nuova passione per la Polis, resa possibile da quell’agilità del cuore (espressione sempre di Lepori, in un successivo dialogo) che può rendere il nostro impegno libero di riconoscere i bisogni dell’oggi, in quanto libero da qualsivoglia schema. È quella ingenua baldanza che il Gius ci ha insegnato e che oggi riguadagniamo, scoprendoci con il cuore vuoto e ferito (come d’altro canto ogni uomo del XXI secolo) di fronte al grande Mistero che costituisce ogni cosa e che prende forma in maestri, talora impensati, talora perfino lontani, e diventa via e metodo nel grande alveo della nostra madre Chiesa.


Un Meeting che ci immerge in un tempo appassionante, dove la sfida è già vinta, ma tutta da riguadagnare.

Un Meeting dove il “popolo di Cl” in maniera massiccia comprende le nuove sfide, come attesta la presenza selettiva agli incontri che toccano questi nodi decisivi. All’incontro con Lepori la sala non ha potuto contenere la folla, che ha riempito all’inverosimile anche la Hall Sud, mentre le visualizzazioni su Youtube già hanno raggiunto  ben 2.800 visualizzazioni. Allo stesso modo, ed anzi superiore, una folla sterminata era presente all’incontro con Pizzaballa, anche qui ben oltre la capacità di contenimento della sala, a cui si aggiungono 5450 visualizzazioni su Youtube.

Da questo Meeting esce un popolo pronto e sensibile alle sfide del cambiamento d’epoca.


 

Meeting 2017: la riscoperta del proprio inizio

Papa Francesco ha descritto, in anticipo, l’effettiva prima giornata del Meeting 2017. Così si legge nel suo discorso di saluto:

Come evitare questo “alzheimer spirituale”? C’è una sola strada: attualizzare gli inizi, il “primo Amore”, che non è un discorso o un pensiero astratto, ma una Persona. La memoria grata di questo inizio assicura lo slancio necessario per affrontare le sfide sempre nuove che esigono risposte altrettanto nuove, rimanendo sempre aperti alle sorprese dello Spirito che soffia dove vuole.
Come arriva a noi la grande tradizione della fede? Come l’amore di Gesù ci raggiunge oggi? Attraverso la vita della Chiesa, attraverso una moltitudine di testimoni che da duemila anni rinnovano l’annuncio dell’avvenimento del Dio-con-noi e ci consentono di rivivere l’esperienza dell’inizio, come fu per i primi che Lo incontrarono.

(…)

Quello sguardo sempre ci precede, come ci ricorda sant’Agostino parlando di Zaccheo: «Fu guardato e allora vide» (Discorso 174, 4.4). Non dobbiamo mai dimenticare questo inizio. Ecco ciò che abbiamo ereditato, il tesoro prezioso che dobbiamo riscoprire ogni giorno, se vogliamo che sia nostro. Don Giussani ha lasciato un’immagine efficace di questo impegno che non possiamo disertare: «Per natura, chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita […]. Ma, a un certo punto, la natura dà al bambino, a chi era bambino, l’istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi. […] Deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto! Se non diventa problema, non diventerà mai maturo […]. Portato il sacco davanti agli occhi, […] paragona quel che vede dentro, cioè quel che gli ha messo sulle spalle la tradizione, con i desideri del suo cuore: […] esigenza di vero, di bello, di buono. […] ,Così facendo, prende la sua fisionomia di uomo» (Il rischio educativo, Milano 2005, 17-19).

È la descrizione di questa prima giornata di Meeting, dove si rinnova lo stupore per una compagnia capace di generare giudizi nuovi e dotati di realismo. Giudizi da parte di chi ama la realtà e non la piega a giudizi preconfezionati.

Così, in particolare Luciano Violante, nel suo intervento delle ore 19, ha ribadito per ben due volte la sua stima e ammirazione per questa “strana compagnia”. Dapprima sostenendo che il Meeting è rimasto l’unico luogo dove si può parlare confrontandosi su valori, ovvero mettendo in gioco ideali che valgono per la vita (“confrontarsi e costruire tra persone diverse è uno dei grandi risultati del vivere”).  Poi, interrompendo il suo discorso ampio e articolato su democrazia e cambiamento d’epoca, affermando: “Vedete, voi siete una cosa straordinaria, perché siete una comunità (…) non avete delegato la vostra vita a un terzo, siete voi i protagonisti”. 

È notevole, e sorprendente, questo incontro di un uomo che, proveniente dalla tradizione della sinistra (e precisamente comunista, una provenienza che ben si avverte nelle sue analisi, alcuni profonde e geniali, altre che possono essere discutibili), trovi realizzato il suo desiderio di costruire una socialità nuova nella compagnia cristiana, riconoscendola come unico luogo rimasto oggi capace di questa coesione, di questo comune sentire in cui ognuno può essere protagonista. È impressionante la cordialità genuina con cui Violante parla ai giovani e meno giovani di questo popolo, in particolare nei momenti informali, come è accaduto oggi (quasi per caso) con una decina di riminesi, dimenticando lo scorrere del tempo e gli impegni precedentemente presi. Una forma di incontrarsi che è consueta al Meeting, che ne costituisce la sua stessa storia.  Una storia costellata di questi grandi incontri tra diversità che si scoprono vicine e cordiali (per citarne alcuni: Tarkovskij, Evtuschenko, Testori, i monaci buddisti, Joseph Weiler,  Wael Farouq, Bertinotti, Violante).

È un Meeting che non si sottrae alle sfide dell’oggi, come accaduto durante l’incontro sull’intelligenza artificiale e sulle sue affascinanti e inquietanti prospettive. Un Meeting che si confronta con l’attuale governo, portando il primo ministro Gentiloni a slanci di orgoglio nazionale di non poco conto e di cui occorre ritrovarne il significato più autentico (e non semplicemente retorico).

Il Meeting c’è e ripropone l’autentico messaggio cristiano, ovvero quello di un amore sconfinato per la realtà intera, senza alcuna pregiudiziale ma con la certezza che Cristo salva.

Domani, lunedì, (oggi per chi legge), tra i 4 o 5 eventi che personalmente giudico di rilievo, il must  sarà l’ incontro tra l’abate Lepori e il monaco buddista Shodo Habukawa (vedi programma). Un’antica amicizia tra persone di differente cultura, iniziata con don Giussani e oggi più viva che mai.

Buon Meeting!

Barcellona, il Meeting e quel che accende la speranza

Il terrorismo è tornato a colpire. Siamo alla vigilia di un evento, qual è il Meeting di Rimini,  che da quasi 40 anni si colloca al centro della storia e dei cambiamenti epocali che hanno contraddistinto questo passaggio di millennio. L’inizio della settimana riminese non può non essere segnato dalle domande, dalle inquietudini, dal bisogno di trovare una strada che gli eventi di Barcellona sollevano.

In uno scambio di battute tra amici, in margine alla pubblicazione del breve ma significativo volantino di Comunione e Liberazione uscito dopo l’attentato di Barcellona, riferendosi al passo, “È più che mai necessario testimoniare l’amore alla vita che abbiamo conosciuto”, Marco ha esclamato: “è il motivo per cui continuiamo a fare il Meeting”.
Credo che nella semplice battuta di Marco ci stia tutto il Meeting. Una dimensione ancora oggi così ignota a tanti, anche assai prossimi all’evento riminese, da scoprire e riscoprire (parafrasando il titolo del Meeting: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”).

È l’origine del Cristianesimo. È l’origine del movimento di CL, nella figura oggi più che mai attuale di don Giussani. È quella  instancabile e indistruttibile passione per la vita e per la realtà, senza infingimenti, senza sovrastrutture e senza progetti, se non quell’ Uomo (Cristo) che ha fatto nascere una scintilla di speranza (“faccio nuove tutte le cose”) in tempi non certo migliori e più facili dei nostri.

Certo, è facile equivocare un evento che tratta di tutto (perché nulla è escluso dallo sguardo rigeneratore di Cristo, dalla politica alla storia, dalle scienze alla poesia, senza dimenticare, arte, filosofia, economia…) e su cui ognuno può porre il suo sguardo selettivo. Da sempre il Meeting ha subìto, sui media in particolare, uno sguardo ridotto tale da generare assurde polemiche, contro cui recentemente abbiamo avuto anche l’occasione di controbattere divertiti (per la banalità delle posizioni espresse). 

In genere sui media – in particolare a metà degli anni ’80- è la politica a farla da padrone (allora il Meeting era craxiano, ricordate?) e qualcuno misura l’evento solo a partire da quello. Poca cosa. D’atro canto, non si può che scrollar la testa a legger ancora oggi l’articolo su La Repubblica, laddove si colloca il Meeting tra le varie feste di partito o sindacali (“Fra Imola e Rimini, la Romagna protagonista dei raduni politici di fine estate. Cl parte per prima con il suo meeting.”). Una semplificazione che non coglie la realtà dell’evento, ovviamente. Un po’ come confrontare una processione con un Gay pride o una sfilata per la pace con un comizio di partito. Cose diverse.

D’altro canto lo stesso atteggiamento – cieco a quel che CL e il Meeting sono in se stessi – lo denota chi oggi tira per la giacchetta il movimento  perché si starebbe collocando troppo poco a destra, rispetto ad anni fa. Come se non fosse cambiato nulla nell’Italia attuale. Come se il movimento si fosse identificato con uno schieramento o con una soluzione politica. Come se nella letteratura cristiana non esistesse un documento, assai amato dentro il movimento, che proclama che il cristiano è “senza patria” (Lettera a Diogneto).

Da questo punto di vista, la libertà dalla politica che vuol dettare l’agenda e costruire una sua patria a chi invece è libero (venga questa agenda da destra come da sinistra, che sia quella di chi comanda, come quella di chi vorrebbe comandare), ben la esprime Vittadini con la sua intervista al Corriere. Giudizi che potranno essere veri o sbagliati, ma che indicano un criterio di libertà e realismo interessante. Peraltro di forte pertinenza rispetto ai rischi di semplificazione e banalizzazione che il dibattito politico in Italia sta correndo da qualche tempo (nell’articolo si parla dell’illusione di un “uomo solo” – di nome Renzi, o Berlusconi o Grillo, non importa – che possa risolvere i problemi dell’Italia).

Certo, per chi fisicamente non sarà presente in fiera in questi sette giorni (la stragrande maggioranza degli italiani, ovviamente), restano i media, che riferiscono del Meeting come di un “raduno politico”.  Siamo di fronte a quanto oggi troppo spesso accade nei dibattiti (e non solo in quelli dei media, ma anche tra la gente). Una sorta di terrore della differenza, della complessità e della ricchezza della realtà. Ancora una volta siamo vittime di una semplificazione funzionale. Sui media, si tratta di semplificare la realtà in caselle pre-digerite, perché possa essere assimilata da persone dall’intestino pigro. E così al destrorso si conferisce l’idea di una meeting “festa dell’unità”, al sinistrorso si conferisce l’immagine di un meeting sempre pronto a seguire il grande capitale, al “pro life” si offre l’idea di un meeting disattento ai temi etici, ecc. Il tutto con pezzetti di realtà, ben isolati dal tutto. L’esito è quello di solleticare l’istintiva insofferenza che una situazione di crisi rende così viva  nelle persone e dunque farsi leggere. La vittima è la realtà, ma non solo. Vittima è anche la speranza, quell’inizio di vita che affiora, soffocato dal clamore e dall’iracondia.

Invece quel “tutto”, ovvero quell’ “altro” di cui parlavamo prima, resta la cosa più interessante e la risposta veramente pertinente ai grandi drammi dell’oggi. Drammi e problematiche che, sfogliando il programma del Meeting, si ritrovano in abbondanza. Quell’ “altro” da riguadagnare per possederlo realmente e non lasciarsi trascinare nell’orbita di una cultura della morte.

È un cammino che sta accadendo nel mondo intero attorno al movimento ed alla Chiesa. Significativa (ed anche divertente nella sua vivacità e semplicità), a questo proposito, la presentazione della Bellezza disarmata, il testo di don Julian Carron, attuale guida di CL, proprio a Barcellona, la città martoriata dai “cultori della morte”.

Dialogando con Pilar Rahola, giornalista di La Vanguardia, atea e protagonista di tante battaglie civili spesso lontane dalla tradizione cristiana, si trova un punto di interesse comune fondamentale, che la stessa giornalista ha sottolineato, scrivendo un articolo all’indomani del suo incontro con Carron. Così si è espressa su La Vanguardia“In alcuni passi del libro, Julián parla della fine dell’Illuminismo, un Illuminismo che ha operato bene nel porre la ragione al centro dell’universo umano, ma male nel credere che questo fosse l’unico motore possibile. Certo è che, dalla mia posizione di non credente, sono d’accordo con lui: l’Illuminismo ha fallito nel suo intento di porre la ragione come misura e soluzione di tutto. Per questo motivo in questo momento di profondo smarrimento, con ideologie totalitarie che ci minacciano e democrazie in pieno naufragio, la parola di Gesù torna a essere un’idea luminosa.” E conclude dicendo: “Termino con una provocazione: che i cristiani escano dall’armadio. Forse non tutti abbiamo una fede come la loro, ma la loro fede rende tutti migliori.

Ma merita di essere ascoltato per intero il video dell’incontro.

E buon Meeting a tutti coloro che vogliono uscire dall’armadio delle loro ideologie !