“I miei grandi amici musulmani…” ovvero la quintessenza del Meeting

Ha fatto discutere al Meeting un’affermazione forte di padre Douglas, il quale, in sostanza, ha identificato l’Islam con il “male”. In particolare risulta decisamente stridente, se messa a confronto con il resto della sua testimonianza e poi con la testimonianza di padre Ibrahim. L’espressione è stata commentata dal moderatore don Stefano Alberto (don Pino), che ha sostenuto “noi sappiamo che occorre distinguere, lo dico pensando ai miei grandi amici musulmani, ai tanti uomini di buona volontà…”, rispetto al qual commento padre Douglas ha applaudito, confermando il cuore del suo intervento: non l’amarezza e la distinzione (per quanto forti e sbattute in faccia a noi per una giusta provocazione a vincere l’indifferenza), bensì altro, come si può ben ascoltare dal video dell’incontro che vi propongo qui sotto (Padre Douglas dice esplicitamente “non voglio incitare all’odio contro l’Islam”). Medesimo contenuto che poi, con toni differenti, ha espresso padre Ibrahim.

Nessuno ha chiuso gli occhi di fronte alle violenze inaudite che islamici stanno perpetrando, ma nessuno se ne è lasciato determinare, in un gioco perverso di contrapposizione, di causa ed effetto, che non può che alimentare l’orrore, vero obiettivo dell’Isis, come di Al Qaeda e ancora prima dei Talebani (tutti abbondantemente finanziati o “tollerati” dall’Occidente laico ed economicamente rilevante, mentre scorreva il sangue di cristiani ed islamici, vittime innocenti dell’orrore).

Una sottile, ma resistente, cecità potrebbe farci indugiare su quella semplificazione (del tutto comprensibile e che porta un suo richiamo importante), che invece in alcun modo deve indurci a contrapporre ad un banale “dialogo tra idee”, un altrettanto banale “scontro tra idee”. Occorre sostare sul punto centrale dell’incontro: la possibilità di un confronto reale tra uomini diversi. È, d’altro canto, questa tutta l’esperienza del Meeting fin da quando è nato nel 1980 e non per nulla si chiama Meeting per la pace e l’amicizia tra i popoli. Fin dall’inizio, proprio anche grazie ai rapporti nati col don Gius, furono invitati buddisti, protestanti, islamici, ebrei, ecc….

Qualcuno invece oggi sostiene, anche sulla stampa e in forma autorevole, che il Meeting abbia intrapreso una linea “buonista e dialogante”. Ma è solo un “non vedere” che porta a giudizi così superficiali.

Per capire il passo compiuto dal Meeting, che va nella direzione di un approfondimento e di una conferma delle sue origini, è bene tornare all’articolo pubblicato da don Carron su Corriere della Sera all’indomani dei fatti tragici di Charlie Hebdo. Carron scriveva: “Quando coloro che abbandonano le loro terre arrivano da noi alla ricerca di una vita migliore, quando i loro figli nascono e diventano adulti in Occidente, che cosa vedono? Possono trovare qualcosa in grado di attrarre la loro umanità, di sfidare la loro ragione e la loro libertà? Lo stesso problema si pone in rapporto ai nostri figli: abbiamo da offrire loro qualcosa all’altezza della domanda di compimento e di senso che essi si trovano addosso? In tanti giovani che crescono nel cosiddetto mondo occidentale regna un grande nulla, un vuoto profondo, che costituisce l’origine di quella disperazione che finisce in violenza. Basti pensare a chi dall’Europa va a combattere nelle file di formazioni terroristiche. O alla vita dispersa e disorientata di tanti giovani delle nostre città. A questo vuoto corrosivo, a questo nulla dilagante, bisogna rispondere”. 

E, proprio oggi, mi viene in aiuto una testimonianza, di cui ho saputo da mia figlia e da alcuni studenti. Alla vacanza di Gioventù Studentesca, appena conclusa, ha partecipato Farhad Bitani, autore del libro “L’ultimo lenzuolo bianco. L’infermo e il cuore dell’Afghanistan”.

Le prime parole che mi sono state raccontate dell’incontro sono state “ha vissuto la violenza, teste mozzate, donne uccise, e sotto il regime dei talebani, questo diventava uno spettacolo allo stadio e a nessuno – nemmeno lui – si ribellava. Lui vi partecipava. Poi, vinto dal dolore e dalla paura, è venuto in Italia pieno di pregiudizi contro gli infedeli, ma ha visto qua un modo diverso di vivere. Ci ha raccontato di una vacanza con un suo compagno di corso (scuola militare) e con la sua famiglia e del rispetto per lui. Poi ha incontrato un prete, infine ha incontrato gli amici della scuola di comunità, ha conosciuto chi era Giussani…”.

Lui è (e resta) musulmano, ma la sua vita è cambiata perché il suo animo si è ribellato a quel dolore e perché ha incontrato un’umanità diversa. L’ha incontrata in famiglie e amici cristiani. Ed ora lotta contro ogni fondamentalismo. Troppo poco? Appare tale, ma qui, e solo qui, c’è la radice, fragile ma efficace, per un cambiamento, per una vita nuova. In primis per quei duecento giovani che lo hanno ascoltato in vacanza a La Thuille e si sono accesi perché hanno visto come Cristo possa cambiare il cuore di un uomo, qualunque fede e posizione umana abbia. Nulla è impossibile, nemmeno che un cuore segnato dall’odio cambi.

Incuriosito, ho trovato questo articolo di Tempi, dove Farad mette a fuoco l’ipocrisia di questi regimi ultrareligiosi, e ben si evince che il problema consiste  non in “troppa” religione (islamica in questo caso) ma  in “poca” e distorta. Ho trovato anche un’intervista televisiva a Farhad che riporto qui sotto. Farhad mette a fuoco anche l’origine del suo cambiamento e i toni si assimilano a quelli che ho sentito raccontare dai ragazzi riminesi.

http://https://youtu.be/CkqPuuTLPs0

Si può continuare a discutere se esista un Islam buono o se vi sia solo un Islam cattivo, se sia riformabile oppure no… Ma questo è un problema loro. Il problema nostro è essere noi stessi. Anzi riscoprire noi stessi perché, come popolo e come singoli, ci siamo persi.

Lasciarsi colpire da questa vita nuova, che ha affascinato quegli amici musulmani, e viverla così pienamente da renderla contagiosa. Non solo. Non abdicare nella vita civile, lottare, dove e quando si può, perché l’Europa resti ancorata a quell’origine pienamente umana e cristiana, da cui è nata. Questo il grande compito di oggi. Qui rinasce quella civiltà che ha colpito Farhad mediante la vita quotidiana di un amico, di tanti amici.

Ps: “Nulla è impossibile” è l’esaltazione della categoria della possibilità, ovvero della razionalità intesa come capacità di apertura (e di lettura corretta) di fronte alla realtà. Quei ragazzi hanno fatto un’esperienza di profonda razionalità, incontrando un uomo. Torneranno scuola con  una marcia in più, se manterranno viva questa esperienza.

 

Pps: Spulciando l’archivio, poco dopo aver scritto questo articolo, ho trovato questa pagina della Voce , che avevo curato. Era il 4 novembre del 2010 e si era appena concluso il Meeting tenuto al Cairo da amici mussulmani.  Cliccate qui.

C’è qualcosa che non va in origine…

Qualche giorno fa, ha fatto scalpore la notizia della denuncia di una donna bianca  dell’Ohio, unita con la sua compagna,  per aver ricevuto lo sperma di un afro-americano, anziché, come richiesto, di un donatore caucasico. Come spiega il Corriere della Sera, un banale errore nella lettura del numero che la banca del seme ha commesso insensatamente (fialetta 330, al posto della fialetta 380). Un banale errore di lettura…

Jennifer Cramblett e Amanda Zinkon avevano trascorso un anno a scegliere il donatore per poter diventare genitori e la scelta era caduta proprio su un uomo bianco perché le due donne vivono in una cittadina poco tollerante con gli afro americani, dove i bianchi rappresentano il 98% della popolazione. Attendevano una bimba bionda con gli occhi azzurri, ma è nata una bambina di razza mista

Ma la vicenda, che ha risvolti – è  inutile negarlo – che lasciano affiorare uno strisciante e capillare razzismo tale da far rabbrividire  (ambiente bianco, disagio nell’allevare un bimbo nero, e via dicendo), per quanto le due donne affermino che amano la loro bambina, nasconde aspetti ben più importanti.

Vi è uno stridore, uno senso di spaesamento che non va censurato.

Al di là di come la si pensi su questi temi, occorre  chiedersi se non vi sia un vizio d’origine, un più radicale equivoco, un’insufficienza di ragioni e di verità nelle scelte, nelle strutture, nell’intera dinamica messa in atto da questo nuovo settore dell’industria medica.

Domandiamoci: ma è giusto selezionare il seme – e dunque l’aspettativa delle caratteristiche del figlio – nel modo che mostra l’immagine qui sotto?  Non vi è forse qualcosa che non torna e che non c’entra nulla con la maternità e la paternità? Il figlio, questo mistero che non dipende da me, che non è frutto della mia biologia, ma esito totalmente imprevisto, quand’anche atteso, del mio amore per una donna (che non è come mi aspettavo, che compare nella vita come un elemento del tutto nuovo all’orizzonte), è ancora lì, davanti a me, capace, con la sua novità assoluta e incontenibile, di ridare speranza alla nostra vecchia civiltà?

Lo vedo ancora, offuscato dal mercato delle banche del seme?

Pagina pubblicitaria di una nota banca del seme, tra le più fornite ed efficienti. Come si legge dalla didascalia del Corriere della sera, si può scegliere tutte le caratteristiche del donatore, e dunque rinforzare le proprie le aspettative nel figlio.
Pagina pubblicitaria di una nota banca del seme, tra le più fornite ed efficienti. Come si legge dalla didascalia del Corriere della sera, si possono scegliere tutte le caratteristiche del donatore, e dunque rinforzare le proprie aspettative nel figlio.

I nostri figli non ci appartengono, sostiene la saggezza popolare (sono un dono del cielo, dicono i vecchi), e Gibran utilizza la metafora poetica dell’arco e della freccia.

I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie dell’ardore che la Vita ha per sé stessa.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e non vi appartengono benché viviate insieme. (…)

Voi siete gli archi da cui i vostri figli come frecce vive,
sono scoccati lontano.

Queste news diventeranno sempre più frequenti, così come le pratiche sempre più sbrigative. Entrambe denunciano un deficit che sta all’origine. È una carenza ontologica, una mancanza di senso, un vuoto dell’Essere, che non può essere colmato in questo modo.

È cercare dove non si trova, evitare la ferita lacerante e dolorosa di una mancanza che – proprio essa, che noi disdegnano – è l’unico punto di speranza per un nuovo inizio.