Un concerto per crescere nella bellezza. Crescere tutti. Sia chi è protagonista dell’evento, ovvero il grande coro di giovani e meno giovani, nato dall’amicizia del gruppo musicale Amarcanto con l’associazione dei ragazzi di Open e quella delle famiglie de Il Ponte sul Mare. Sia chi sarà al Teatro Novelli sabato 14 maggio (domani) alle ore 21 (entrata a offerta libera) per ascoltarli in concerto. Canta per il mondo, darà saggio del loro repertorio proveniente da tutte le tradizioni musicali del mondo. Ma potranno crescere immersi nella bellezza di un percorso educativo all’altezza della dignità della persona umana anche i 10 ragazzi dell’Uganda che riceveranno, grazie a quanto verrà raccolto durante la serata, la possibilità di iscriversi presso la scuola Luigi Giussani a Kampala.
È questo uno delle decine di progetti curati da AVSI e sostenuto dalle tradizionali campagne annuali di raccolta fondi, di cui il momento di sabato sera – a cui non si può mancare – è un esempio nobile.
Tre anni di concerti, in un Teatro Novelli pieno di gente ed entusiasmo, prove, lavoro, rapporti che già lasciano assaporare una novità possibile fin da subito, fin nell’oggi, e che subito si spalanca sul mondo intero fino ad arrivare a Kampala. E non solo per interposta persona. I ragazzi che avranno il sostegno di cui dicevamo sono stati incontrati via web dagli amici del coro, come rivela Buongiorno Rimini. Non sono anonime “situazioni di bisogno” ma persone vere e vive, ora amici, con cui stringere una relazione. E le relazioni, se vere, cambiano le persone. Così i ragazzi ugandesi hanno risposto al grande coro riminese mettendo in piedi un loro coro, in un ribalzare di note, tra continenti, che ha dell’incredibile.
Ma a proposito di cambiare le persone, sabato sera ci sarà la possibilità di ascoltare anche la testimonianza di un protagonista di primo piano della straordinaria attività di AVSI. Si tratta del medico e scrittore Alberto Reggiori.
Lo abbiamo intervistato e le sue parole hanno fatto crescere in noi la curiosità di incontrarlo sabato sera. Ecco l’intervista.
Al tavolo il dott. Alberto Reggiori in Uganda
Alberto ci spieghi come è nata la scelta di partire?
Eri sposato da soli due anni, immagino le cose da sistemare… e invece nel 1985 da Varese ti ritrovi in Uganda…
Tutto è nato dall’aver visto e incontrato alcuni medici missionari che in quegli anni spesso venivano a Varese a raccontare la loro esperienza. Poi ho visto partire miei amici e non ho potuto che provare una profonda invidia per loro. Testimoniavano una vita piena, vera, che ho desiderato vivere anche io. Quel desiderio, di cui mi chiedevo se fosse un mio pallino o qualcosa d più, è stato illuminato dalle parole di Giovanni Paolo II. Ad un’udienza (29 settembre 1984) che concesse alla Fraternità di Comunione e Liberazione, ci disse “Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza e la pace, che si incontrano in Cristo Redentore”. Lì capii che quel mio desiderio era una cosa seria. Ne parlai subito con mia moglie che era del tutto d’accordo e partimmo per l’Uganda. Avevamo già un figlio…
E non ti sei più fermato…
La permanenza in Uganda fu di dieci anni circa, ma tutt’oggi uso le mie ferie per andare nei diversi luoghi dove AVSI ha bisogno. Sono stato in Sud Sudan, Iraq, Haiti, Albania, Messico…
Quale il contributo più importante che il tuo partire, ma anche il nostro ben più semplice aiuto, può offrire a queste persone? Qual è il valore di quanto si sta facendo?
Attraverso le opere che si realizzano, quello che veramente è importante, e che può dare frutti, è portare una stima e una coscienza del valore di chi si incontra. Attraverso parole e gesti concreti noi stiamo dicendo a quelle persone che valgono, che sono importanti, che le stimiamo per il loro grande valore. Si potrebbe dire oggi, nell’anno Santo, che ciò che conta è portare uno sguardo di misericordia che faccia capire all’altro che ha un valore e ha capacità di vivere. Questo è ciò che fa rinascere le persone e le fa diventare protagoniste esse stesse, in prima persona, di una ricostruzione della loro terra martoriata.
In questi anni hai incontrato situazioni difficile e dolore sconfinato. Immagino che sia impossibile reggere tutto questo senza un “ricevere”, un imparare… Che cosa hai ricevuto da questa esperienza? E quanto ricevuto là, è vivibile anche qui italia?
Ho verificato di persona che la vita è qualcosa che si guadagna dandola, spendendola. È scritto nel Vangelo, ma posso dire di averlo verificato. Ognuno può verificarlo nella sua esperienza quotidiana. Se la vita la vivi per te, la chiudi in te, il tempo te la porta via. Invece se la doni, ti ritorna molto più potente. Posso dirlo di averlo verificato in termini umani, in mille rapporti.
Alberto Reggiori narra la storia di Veronica, madre bambina, poi malata di AIDS, incontrata in Uganda
L’incontro con Veronica è uno di quelli che ci porteremo sempre dentro, uno di quelli in cui capisci cosa è l’essenziale. Lei ha cominciato a venire da noi quando si è ammalata di AIDS. Aveva una storia terrible alle spalle. Ha visto qualcosa di buono, ha desiderato stare sempre più con noi, fino a chiedere di essere battezzata. Dalla disperazione che viveva prima è nata in lei una speranza. E attorno a questi rapporti anche la mia vita è rifiorita, la mia e quella della mia famiglia, compresi i rapporti tra me e mia moglie, perché ovviamente ci sono stati momenti non semplici.
Quale il momento più difficile?
Quando arrivò la guerriglia, la situazione era diventata pericolosa per le famiglie. Erano nati altri miei figli là (ben tre nacquero in Uganda ndr) e non era sicuro rimanere per loro. Così -eravamo tre o quattro famiglie- decidemmo di rimanere solo noi medici. Il distacco è stato duro per tutti.
Invece il momento più bello, più commovente?
Sicuramente la visita di Giovanni Paolo II. Quando venne in Uganda, per un caso fortuito potemmo anche dialogare con lui.
Qual è, in questo momento, la frontiera più delicata su cui operare?
AVSI ha deciso di dedicare tutti i suoi sforzi quest’anno ai profughi, in particolare i cristiani perseguitati nel mondo. L’intervento è rivolto sia ad alleviare le condizioni di vita nelle loro terre, dove spesso hanno perso tutto, sia nei centri di accoglienza qui in Europa. Vi sono tantissime iniziative di aiuto sparse in tutta Italia. Questi uomini, nostri fratelli, hanno perso tutto per non perdere la loro fede.
La serata di sabato 14 si prefigura davvero interessante dunque. Alberto Reggiori, dicevamo, oltre che medico è un ottimo scrittore. Abbiamo già parlato de La ragazza che guardava il cielo (di cui vi proponiamo qui il video della presentazione fatta al Meeting di Rimini nel 2011 a cui partecipò anche Veronica – visualizzare a partire dall’ora 1,01).
Oltre a questo libro ha pubblicato Dottore è finito il diesel, in cui narra la realtà in cui ha lavorato in Uganda e Fatti vivo, libro in cui si narrano vicende terribilmente personali.
Storie di sofferenze, riguardando i drammatici fatti che sono incorsi a suo figlio Giulio, per tanti versi così simili a quanto accaduto ad Antonio Socci con la propria figlia Caterina.
La prefazione Fatti vivoè stata scritta proprio da Socci. Sofferenze che tuttavia vengono superate e travolte da una sorprendente e sovrabbondante luce.
Quella che desideriamo incontrare domani sera al Teatro Novelli.
Ci si vede lì!
P.S.
Alberto Reggiori ha tenuto diverse conferenze in Italia. Oltre alle due partecipazioni al Meeting (2005 e 2011) abbiamo ritrovato in rete, tra gli altri, anche questo incontro a Cesano Boscone. La registrazione è amatoriale, ma la testimonianza di Alberto è di alto profilo. La proponiamo qui a conclusione del nostro articolo.
Don Gius ci ha insegnato che il protagonista della storia è il mendicante. L’uomo mendicante di Cristo (e Cristo mendicante dell’uomo).
Chissà se mai abbiamo preso sul serio questa sua celebre, e ripetuta per migliaia di volte, espressione. Chissà se riusciremo a comprendere che solo nella sequela al Mistero fatto carne, implorato ed agognato, fiorisce una umanità davvero nuova.
Don Giuseppe lo ha fatto, in particolare in questi ultimi giorni della sua vita. Ecco, il bellissimo comunicato redatto dalla comunità di Comunione e Liberazione di Rimini. Attorno al don, alla sua domanda di Cristo, fiorisce la vita.
Rimini, 15 aprile 2016
Don Giuseppe Maioli – Nota di Comunione e Liberazione
“Eccomi Gesù, sono tuo”. Con queste parole don Giuseppe ci ha invitato ad unirci alla sua preghiera, trascinandoci nella profonda e semplice immedesimazione con Cristo che ci ha testimoniato. Uno dei compagni di stanza dell’ultimo ricovero ospedaliero ha riconosciuto stupito e commosso: “Quest’uomo mi ha cambiato la vita”. Come può un uomo bloccato su un letto d’ospedale cambiare la vita di un compagno al suo fianco? Come l’avrà guardato? Noi desideriamo non perdere quello che è accaduto in questi “giorni pieni di una grazia sconosciuta” (Mounier), che hanno mostrato come la presenza del nostro don Beppe abbia segnato così profondamente la vita della Fraternità di CL e di tutti coloro che sono stati affidati al suo ministero sacerdotale.
In questi ultimi giorni, vissuti attorniato dai familiari e dagli amici sacerdoti ed accompagnato dall’incessante preghiera del suo popolo, abbiamo riconosciuto nel suo volto sofferente e lieto l’estremo gesto della sua paternità nei nostri confronti: “figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!” (Gal 4,19).
Come ci ha detto don Carrón, Presidente della Fraternità di CL, telefonando per testimoniare la sua vicinanza a don Giuseppe negli ultimi momenti della sua vita: la questione decisiva è immedesimarci con lui, per avvicinarci anche noi al traguardo: siamo amici solo per questo. Lo stesso don Giuseppe, riflettendo su queste parole, ha sottolineato che “questa immedesimazione con Cristo è ciò di cui abbiamo bisogno per l’esperienza che stiamo vivendo in questo momento storico”.
Per questo, la nostra gratitudine si esprime nel desiderio di essere come lui, protesi a Cristo e ai nostri fratelli uomini.
Questa notte è tornato tra le braccia del Padre don Giuseppe Maioli. Raramente ho visto una persona come lui, testimone di un rapporto buono con le cose e soprattutto con le persone. Una bontà profonda, quasi insondabile, che colpiva subito, al primo udire la sua voce, pacata e misurata ma piena di passione per tutto ciò che è bello, vero e buono.
Don Giuseppe era amante della bellezza come pochi. Celebre la sua cura maniacale nell’insegnarci, a noi giovani studenti affascinati dal carisma ecclesiale di Giussani, i canti di montagna o il gregoriano. Ne usciva alla fine, dopo quarti d’ora di prove e ripetizioni – e correzioni minute- un canto (talora in centinaia radunati in saloni o sulle cime in montagna) di una bellezza unica, che ti portavi dentro per sempre.
Don Giuseppe era responsabile di Gioventù studentesca di Rimini, quando io vi entrai. Se il mio riferimento primo, e per me decisivo, era don Mario Vannini, docente di religione al Serpieri, il mio liceo, don Giuseppe rappresentava l’immagine incarnata, immediata, semplice e spontanea, di questa accoglienza sconfinata del Mistero, di questa bontà segreta nascosta nelle pieghe della realtà.
Questo inverno, rivedendo con i miei studenti Le vite degli altri, ed ascoltando la Sinfonia per un uomo buono (la musica che induce al cambiamento la spia della Stasi) non ho potuto non pensare immediatamente a lui, già gravemente malato. Il brano musicale esprime bene l’idea di questa bontà non banale, di questa pace densa del tumulto dell’animo proprio di quegli uomini che sono in cerca dell’infinito.
Durante l’autunno l’avevo di nuovo incrociato più da vicino, per un’occasione speciale. Aveva amato moltissimo il libro Voglio tutto, contenente gli scritti di Marta che avevo curato. Volle presentarlo alla sua nuova Parrocchia. Disse che, per quel che stava vivendo, il libro gli aveva fatto molta compagnia.
Era la compagnia non di un semplice libro, ma la compagnia del Mistero stesso, quello che in tanti giovani riminesi abbiamo proprio imparato da lui e che lui re-imparava continuamente da chi si era incamminato sulla stessa strada. Credo che questo sia la Chiesa. Credo che questo sia il cuore del movimento di Comunione e Liberazione in cui entrambi ci siamo ritrovati: un luogo dove si sperimenta inaspettatamente -anche attraverso la malattia- l’abbraccio del Padre. Quell’abbraccio del Padre che per lui ora è definitivo.
Grazie di tutto don Beppe e continua a starci vicino come tu sai!
(Questa sera 14 aprile alle ore 21 vi sarà una veglia presso la parrocchia di S.Ermete, domani sera 15 aprile alle ore 21 presso la parrocchia della Riconciliazione e sabato mattina 16 aprile i funerali presso la Rinciliazione alle ore 9,30)
Il Canto che potete ascoltare qui sotto, raccolto da Marina Valmaggi, è stato composto da don Giuseppe mentre era un giovane seminarista (fine anni ’60). Uno dei tanti canti amati dalle comunità di CL e divenuto noto in tutta la Chiesa. Un giorno, ad una vacanza dei ragazzi di GS del giugno del 2011, ero in pulmino con lui e mi chiedeva di raccontargli gli esercizi spirituali nazionali dei ragazzi, che si erano svolti un paio di mesi prima a Rimini in Fiera (2011). Gli raccontai di un filmato sullo Tsunami in Giappone, e di come si prese spunto per interrogarsi su quale roccia poggiare la propria vita. Gli raccontai poi che subito dopo il video, terribile, si eseguì il suo canto, “Se il Signore non costruisce la città”. Con un sorriso, simile a quello di un bambino, esclamò sorpreso, “Ma davvero! Lo si canta ancora! Che bello!” Era lieto. Semplicemente, puramente, totalmente lieto di poter servire in tutto la Chiesa. Anche con questo suo bellissimo canto.
È un tempo straordinario per la Chiesa e l’umanità intera. Una situazione in cui ogni certezza ha il bisogno di essere rifondata, ricostruita, riconquistata. Un tempo in cui siamo chiamati a combattere un’immane lotta, uno ad uno, per uscire dall’anestesia degradante che abbraccia la “folla”.
Un tempo che è l’apice della ricchezza e della povertà.
1) Il fatto.
In questo tempo è pressoché normale che vi siano fibrillazioni, incomprensioni, situazioni di tensione. Questo accade sia al livello della storia universale (sistemi politici ed equilibri economici pluridecennali tremano, la Chiesa è stata definita una barca sballottata dalle acque…) che particolare. Così si spiegano, ad esempio, alcune discussioni che si stanno amplificando all’interno di Comunione e Liberazione, movimento che da sempre ha saputo vivere sulla frontiera del tempo, mai evitando le sfide del presente e sapendo selezionare i reali crinali della storia, dalle battaglie riduttive, indotte dal potere.
Anche CL, al pari della Chiesa, vive le medesime tensioni interne. Una parte, pur minoritaria, del movimento, oggi mette in discussione il riferimento del nuovo leader del movimento, don Julan Carron, al fondatore don Luigi Giussani. Una messa in discussione che, al di là dei numeri esigui, seppur qualificati, è decisiva, e non solo per Cl. E dunque va capita bene.
È stato lo stesso Giussani ad aver indicato con chiarezza la prosecuzione del suo carisma in Carron. Cito alcune espressioni riportate in più ambiti: “in Spagna vi sono gli echi delle origini del movimento”, oppure “nell’amicizia di un gruppo di preti spagnoli si gioca la permanenza del carisma nel movimento”. Non ho la possibilità di essere testuale ma che esse siano più che reali, lo attesta una fonte decisamente autorevole. Don Stefano Alberto – detto don Pino – per lungo tempo è stato ritenuto, e a ragione, il possibile successore del Gius alla guida di CL. Ebbene, con sferzante ironia rispetto a chi avanza dubbi e resistenze, don Pino ha sostenuto la seconda delle due frasi in un breve passaggio durante un incontro dell’estate scorsa, in occasione della presentazione del libro “Voglio tutto“, dove si raccoglie la storia di una ragazza, decisamente “giussaniana”, avendone vissuto il carisma con impressionante immedesimazione. Don Pino ricorda la posizione di don Giussani, maturata fin dagli inizi degli anni ’90 su questo tema e ne evidenzia il criterio (già esplicitato da Giussani): l’unità, l’amicizia.
Malgrado questa volontà esplicita, malgrado il giudizio chiaro nel criterio (unità contro interpretazione, si legga per questo la relazione dell’incontro nelle parti finali) e malgrado i frutti e la fioritura del movimento – tra i quali Marta è uno dei più belli e dolorosi-, che continua ad essere ricco di testimonianze vive di fede e di impegno nella società, vi è chi fatica a comprendere tale nesso tra l’origine del movimento e l’amicizia dei preti spagnoli.
Nulla di nuovo da una parte. Da sempre don Gius si è dimostrato un passo avanti rispetto al movimento “che aveva visto nascere” attorno a lui, richiamandolo, sollecitandolo, costringendolo ad un cambio di passo. Chi ne ha fatto e ne fa parte sa bene cosa si intenda dire. Per tutti gli altri è sufficiente ripercorrere i testi di don Giussani o la Vita di don Giussani di Alberto Savorana, oppure se non ci si vuole rifare a questa recente opera (recente dunque “carroniana”), si può far capo alla trilogia di mons. Massimo Camisasca sulla storia del movimento. La storia del movimento è storia di svolte, di riprese, di ricentrature. Una ricentratura sempre coincidente con la straordinaria e commossa constatazione della Presenza di Cristo in mezzo a noi, contrapposta al rischio, altrettanto sempre presente, di far scivolare la propria attenzione sulle conseguenze (operative o culturali) di tale Presenza. Su qualcosa di inessenziale dunque, rispetto all’eccezionalità dell’evento cristiano. In tale senso don Gius ha sempre ribaltato gli equilibri.
Ma oggi la difficoltà da parte di qualcuno di accettare le sollecitazioni di chi guida il movimento è straordinariamente coincidente con la difficoltà di accettare chi guida la Chiesa stessa. È una difficoltà speciale, una difficoltà dell’oggi, con caratteristiche uniche nel suo genere e che qualcuno giustamente assimila al ’68, anno in cui il movimento fu spazzato via dagli eventi per poi rinascere nel giro di pochi anni con più chiarezza. Non è un caso, d’altronde, che l’attuale battaglia sui diritti, sul gender, sulla famiglia, sia stata equiparata dal card. Angelo Scola alla rivoluzione del ’68.
D’altro canto don Giussani ha insegnato sempre a seguire il papa – anche quando non era Giovanni Paolo II -. Invece oggi chi fatica a seguire Carron, fatica anche a seguire papa Francesco e in numerosi casi si arriva ad un’aperta distinzione, compendiata di pubblici giudizi con accuse a volte altisonanti. Il tutto, si comprenderà, è altamente significativo e presenta richiami eccezionali, che possono aiutare a capire meglio la difficoltà dell’oggi.
2) Carron e Bergoglio – Giussani e Wojtyla. Ratzinger la chiave per capire 40 anni di storia e le proiezioni sul futuro.
Papa Bergoglio, pur con un temperamento e provenienze differenti, sta raccogliendo la sfida che Giovanni Paolo II, prima, e Benedetto XVI, poi, hanno lanciato al mondo. La sta raccogliendo e riproponendo in termini pressoché identici. È la stessa sfida che don Giussani ha lanciato agli inizi degli anni ’50.
(Nel filmato papa Francesco, in occasione dell’incontro del 18 maggio del 2013 con i movimenti, entra in San Pietro sulle note di Povera Voce, la canzone che meglio di tutte le altre identifica il carisma di Comunione e Liberazione)
Don Carron ha colto questa inflessione e sta lavorando con grande umiltà all’interno del movimento per mettere a fuoco il cuore della testimonianza di don Giussani e del magistero della Chiesa in questi ultimi decenni. Una testimonianza che non si riduce ad un pensiero predefinito ma, piuttosto, ad una continua premura per un’umanità ferita, manchevole di tutto, in primis del “senso delle cose”, della consistenza delle realtà effimere e quotidiane. Una premura che lascia nella storia perle di pensiero, di giudizi, di lungimiranti vedute sul reale ma che trova la sua origine nel cuore stesso dell’evento cristiano, ovvero la misericordia di Dio verso l’uomo. Ricordo la definizione di misericordia data da don Giussani ad una giornata di inizio d’anno degli universitari negli anni ’80. La misericordia è “una giustizia che ricrea” ed esemplificava con uno stupendo esempio: «la Misericordia di Dio sta in questo: che di fronte ad un corpo macilento, coperto di piaghe purulente, lo guarda e per l’unico centimetro di pelle sana, esclama “che bello”!».
Recentemente Avvenire ha pubblicato l’intervista che il teologo Jaques Servais ha ottenuto dal papa emerito Benedetto XVI ottobre scorso e finora inedita, nella quale Ratzinger spiega inequivocabilmente il nesso tra il suo pontificato (tacendolo, e dimostrando così un’umiltà ed una capacità di servizio alla verità che lo rende un gigante capace di primeggiare tra giganti della fede), quello di Giovanni Paolo II e quello di Francesco. Va letta interamente l’intervista -che peraltro ripresenta la grandezza anche intellettuale di questo papa e la sua capacità di visione profetica-, ma in sostanza Benedetto ci spiega perché la Misericordia è oggi la strada privilegiata della Chiesa. Ci spiega come l’umanità non sia più nella condizione in cui versava al tempo di Lutero – allora temeva il terrible giudizio di Dio, oggi imputa a Dio il male della storia – e come la strada della Misericordia sia l’unica efficace oggi. È questa la strada intrapresa con decisione da Wojtyla – non a caso devoto a S.Faustina, fondatrice delle sorelle della Divina Misericordia – e oggi da Bergoglio – che ha convocato l’anno Santo della Misericordia.
Una pubblicazione il cui significato ha ben colto il vaticanista del Corriere, di decennale esperienza, Luigi Accattoli, il cui articolo è titolato però in maniera superficiale e tale da aprire le consuete dispute: “il sostegno a sorpresa del papa emerito alla linea indicata da Francesco”. Le analisi sono condivisibili e acute, ma il titolo, con quel “a sorpresa”, è banale. Così come non è neppure corretta l’opposizione altrettanto giornalistica e superficiale di Antonio Socci, che usa maldestramente, a suo pro, un articolo apparso sull’Osservatore romano.
A parte questo aspetto, l’articolo di Accattoli riconosce perfettamente tutto il percorso indicato da papa Ratzinger e di fronte ad esso si inchina ammirato. Mette conto di riportare le righe in cui Ratzinger esplicita – per la prima volta – un giudizio sul suo successore.
Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia.
Al contrario, c’è chi ha saputo propagandare tale messaggio, stralciandone pochi passi, come esemplificazione e conferma di proprie tesi complottiste, rispetto alla rinuncia di papa Benedetto (uno dei gesti più grandi e coraggiosi della recente storia della chiesa, segno di grandezza e non di debolezza di Ratzinger, logica che tuttavia sfugge completamente in queste valutazioni terribilmente leggere). Ci riferiamo di nuovo ad Antonio Socci, i cui articoli su Lbero, raccolti nel suo Blog, sono un’ostinata opposizione (e con una continuità che lascia pensare ad una sorta di ossessione) al papa, identificato come il più grande nemico della Chiesa. Parole che richiamano quelle acri e ostili a Roma, pronunciate da Lutero 500 anni fa. Parole che avrebbero addolorato fino alla morte don Giussani, il quale, di fronte ad una Chiesa che in certi frangenti non lo ha certo “appoggiato”, manifestò sempre una fedeltà e una sequela commovente ad essa. Un don Giussani che ebbe il coraggio di affermare, con dolore fino alle lacrime, che “la Chiesa ha abbandonato l’uomo, poiché ha avuto paura, ha avuto vergogna di Cristo”, ma che ha combattuto col suo movimento nella più totale obbedienza alla gerarchia, fino ad esserne il fronte più fedele. Tutti i ciellini degli anni ’70 (per ridursi alla esperienza di cui posso attestare personalmente) hanno imparato l’obbedienza, costitutiva per la propria fede, al papa e ai vescovi all’interno del movimento di CL, mentre molti, forse la maggior parte, dei cristiani provenienti da esperienze parrocchiali, in quei tempi manifestavano mille distinguo e quasi giustificavano – in un’errata interpretazione di don Milani – la disobbedienza pratica e teorica alla gerarchia della Chiesa.
Via Crucis del movimento di Rimini, svolta la domenica delle Palme con il proprio vescovo.
3) le evidenze (non sempre riconosciute)
Nel dibattito attuale, Carron e i responsabili delle varie comunità non stanno chiedendo un “serrate le fila”. Con un atteggiamento tipicamente “giussaniano” si sta chiedendo a tutti di giudicare nella propria esperienza quanto è in gioco, le scelte, le differenti posizioni. Si sta chiedendo se quanto di ciò che si va affermando corrisponda alle esigenze più profonde del proprio cuore. Il tentativo, coraggioso, è quello di scoprire qual è il ruolo di un cristiano nella società di oggi, di fronte alle nuove sfide. La proposta insomma è quella di verificare se sia vero (verificato nella propria personale esperienza) che l’unico compito è quello di testimoniare nel quotidiano la presenza di Cristo (il “caldo abbraccio del Mistero”, la misericordia, il Suo sguardo, una potenza eccezionale che cambia la vita da subito) , un Cristo da rilevare presente nell’unità dei credenti, ma in termini reali e operativi, non conclamati o sbandierati.
Se Cristo è presente, allora non c’è altro da fare che abbracciarLo, e allargare questo abbraccio a tutto il mondo. Ma Cristo “è presente se opera”, ed ecco il grande lavoro di giudizio sulla propria esperienza reale, in atto ora come sempre nel movimento.
In Comunione e Liberazione è sempre stato così. Questo il fascino e la fatica di stare di fronte al movimento. Una realtà urticante tanto è decisa nell’affermare l’essenziale.
È stato così per il grande intellettuale Testori, uno dei più forti amici di CL.
Giovanni Testori, omosessuale, intellettuale maledetto, rimase colpito da Cl, e lo ha detto più volte, non per un programma di lotta, non per teologie raffinate, né per altro. Quanto lo colpì fu la misericordia di Dio che arrivava attraverso i volti e l’umanità di alcuni ragazzi e poi dell’intero movimento.
Non condivideva tutto. Non divenne di CL. Ma seguiva il movimento per un di più di umanità, segno di quell’abbraccio. Oggi qualcuno stralcia anche i suoi interventi, decontestualizzandoli, per contrapporre impegno a testimonianza (denunciando la carenza dell’uno sull’altra). Ma dimentica che Testori fu perturbato e commosso dalla testimonianza di umanità, sola a dare senso alla lotta contro il potere (la sua affermazione “non c’è insurrezione senza resurrezione” è universale, mentre quella reciproca, “non c’è resurrezione senza insurrezione”, da lui pure sostenuta -vedi più sotto-, è legata alle contingenze, come è ovvio). Altro segno della partita in gioco, tutta tesa tra riduzione e apertura di orizzonte all’infinitezza del Mistero che si volge su di noi.
Qui trovate il testo integrale del bellissimo incontro del centro culturale San Carlo di Milano, che ha dato occasione alle consuete e desuete discussioni e che invece manifesta qual era e qual è l’impatto di chiunque, specie se un’anima ferita e intelligente come quella di Testori, con il movimento (ovvero con la visibilità di Cristo). In alcuni passaggi gli echi sulla misericordia sono gli stessi che udiamo oggi.
Così si esprimeva Testori a 10 anni dalla sua conversione, a 10 anni dal suo incontro con il movimento (ma poi il suo intervento merita una lettura completa).
Ma io sono sempre stato un cattivo cristiano, in certi momenti disperato, sono nato non solo in una famiglia cristiana, ma anche in una cultura cristiana. Non è una conversione: è una precisazione del mio povero modo di essere cristiano, a cui sono stato indotto dalla morte di mia madre. Mia madre, morendo, ha ridato peso, grembo, latte a questo mio povero modo di essere cristiano. Comunque, quando scrissi questi articoli, nessun vescovo, nessun cardinale, nessun uomo politico (della Dc) mi ha contattato. Mi hanno invece telefonato quattro ragazzi: «Siamo di Comunione e Liberazione: vorremmo parlarle». E sono venuti nel mio studio; la cosa che mi ha stupito è che non erano tutto quello che dicono essi siano. Non mi hanno mai chiesto niente: come fosse la mia povera vita, quali fossero i miei errori; ma mi hanno accolto (e io credo di averli accolti) come amici. Io non sono di Cl, voi lo sapete: sono molto vicino. Le sono vicino per una cosa sola: perché hanno questo senso dell’amicizia, questo senso dell’umanità, dell’integrità della fede, non è integralismo, checché ne scrivano, e sbagliano a scrivere così, perché scrivono per ignoranza, perché non li conoscono. Sono tutti di un pezzo, poi anche loro fanno errori, per fortuna. Però hanno questa rocciosità per quel che riguarda l’uomo (l’altro, il fratello, di qualunque idea sia, di qualunque stortura – Dio solo sa le storture che avevo ed ho io…). Loro non chiedono niente, non domandano conto di niente. Solo su questo piano di umanità. E io vorrei ricordare qui, forse in molti di voi lo sapete, e forse farà piacere sentirlo ai miei due grandi amici Tino Carraro e Pugelli; don Giussani mi raccontava in segreto (ma non è più un segreto, l’ho già raccontato) cos’è stato per lui la scoperta, il senso più abissale della sua posizione di prete e di uomo, quando subito dopo essere stato ordinato, in una delle prime confessioni, se non la prima, si è trovato di fronte a un giovane che, dall’altra parte del confessionale, non riusciva a dire, a parlare. E lui lo esortava: «non c’è niente che tu abbia fatto che non possa essere perdonato, che non possa essere accolto»; ma l’altro faceva fatica e don Giussani, con le parole che riesce a tirare fuori dalla sua fede, dalla sua umanità, lo invitava fraternamente. A un certo punto sente questo giovane dire: «ho ucciso un uomo». Don Giussani dice che è stato lì un attimo, un’eternità, e poi ha risposto: «Solo uno?». Poi mi diceva: «Lì ho capito cos’è la carità, la fraternità, l’amore, cos’è il perdono di cui lui è soltanto il tratto». E l’altro è scoppiato a piangere. Da allora sono diventati, credo, amici, lui è andato a confessare alle autorità il suo gesto e sono diventati amici. Io, perché sono diventato amico di quelli di Cl? Perché se io dicessi a loro tutte le porcate che ho fatto, direbbero “solo questo?”. Perdete pure tutto; ma non perdete questo senso “oltre tutto”, questa umanità che non si scandalizza di niente. Questo sapere che l’uomo può compiere qualunque gesto, può essere di qualunque parte, ma è prima di tutto uomo, figlio di Dio, creatura redenta da Dio diventato Uomo. Se perdiamo questo perdiamo il senso dell’incarnazione, cioè perdiamo il senso totale del nostro essere cristiani. Questa apertura, sì alla integrità, sì alla solidità, ma come mi diceva continuamente Giussani «senza carità», senza amore, anche la fede è niente. La fede è proprio questo amore: questo amore prima di tutto. Io devo ringraziare questi ragazzi (voi e quelli che c’erano prima di voi: voi siete l’ultima generazione) di questa capacità di amore, di umanità, perché arriverà il momento che la leggeranno anche quelli che oggi non la sanno leggere. Ma se anche non la leggeranno, non importa: l’importante è offrire.
Oggi come allora, questo accade in CL (e nella Chiesa). Oggi come allora CL è la comunità in cui passano le più profonde tensioni della storia, per presentarsi nella loro interezza al Dio che pone il Suo sguardo sull’uomo per riempirlo di sé.
Sotto la via crucis di CL di Rimini, svoltasi questa domenica (domenica delle Palme) con il propio vescovo. La comunità di Cl segue da anni la richiesta del vescovo di svolgerla la domenica delle Palme, così da poterla celebrare insieme.
Via Crucis del movimento di RImini, svolta la domenica delle Palme con il proprio vescovo.
Impressionante la notizia che riporta Il Sussidiario… Un donna ferita al Bataclan, colpita da 6 colpi di arma da fuoco, tre al petto e tre al ventre, è uscita dal coma (leggi qui). La riabilitazione durerà un anno, ma tutto concorreva a far sì che non dovesse essere più su questa terra.
Di fronte all’abisso di questa incredibile sfortuna (essere lì) e “fortuna” (essere viva, malgrado l’essere stati trapassati dalle pallottole delle armi automatiche dei terroristi), non ci si può non chiedere: ma perché? Cosa vuol dire ora per lei vivere? E cosa è morire?
Perché ci siamo e qualcuno non c’è…?
Ed esserci, in mezzo a questa “casualità” assoluta (o non dobbiamo forse dire “gratuità” assoluta, il che è lo stesso, visto però da un altro lato), che significato assume?
Chi ci tiene in vita e chi ce la toglie? Un caso, un destino o Uno con cui entrare in rapporto…?
C’è possibilità di entrare in rapporto con la ragione del nostro esserci? Ma chi è, cosa è, in definitiva, questa ragione? Giacché quanto accade attesta ragioni (il mondo ha una sua struttura), ma queste ragioni non paiono sufficienti a spiegare il punto d’origine.
Viene in mente la modalità con cui Marta Bellavista si poneva questa domanda, nel famoso intervento che tenne in Università nel 2007, dopo essere guarita dal suo primo tumore, un approccio del tutto singolare e a noi così poco noto.
“tu che mi hai ridato la vita una seconda volta, tu che mi hai salvata, cosa vuoi da me? perché mi hai donato tutto questo? perché mi fai desiderare tutto così potentemente? tu che mi puoi togliere e mi puoi dare tutto, continua a mostrarmi il tuo amore e permetti che io non ti resista ma mi abbandoni totalmente a te.”
Marta aveva instaurato un dialogo profondo con un interlocutore.
Vengono in mente le inquiete domande di Tree of life, di Malick, e quelle che ci poniamo sempre quando tra persone libere, pur partendo spesso da posizioni del tutto differenti, ci si ritrova a parlare di ciò che ci preme nelle vita. Non c’è altra domanda che valga la pena realmente porsi, e tutte le domande che possono insorgere, non fanno altro che rimandare a questa. Urge una risposta. E questa “urgenza” rende affascinante la vita.
PS: (dedicato agli amici della “birra filosofica”).
«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa. L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».
(Lettera postata su Facebook da Antoine Leiris, che si rivolge ai terroristi che venerdì hanno ucciso la moglie, al concerto degli Eagles of Death Metal al teatro Bataclan di Parigi).
Questo è l’occidente che vincerà la battaglia. È la radice umana e cristiana della nostra storia. Cristiana, e dunque, per definizione stessa, aperta all’uomo, all’uomo in tutte le sue condizioni, fino a giungere a quel dolore che nessuno ha il coraggio di guardare. Quel dolore che è un abisso, a cui tuttavia siamo stati educati a guardare attraverso gli occhi della croce e della resurrezione. E da cui nasce la potenza di quell’altra parola, perdono. Parola che pare impossibile all’uomo.
Di contro ad ogni facile semplificazione, occorre distinguere e capire, certi che esiste una ricchezza preziosa, capace di darci l’opportunità di uscire dall’empasse in cui siamo caduti.
Il valore della lettera di Leiris, infatti, è nella testimonianza di una diversità presente, non ancora cancellata, di un vivere capace di vincere la morte e l’odio.
Per questo la testimonianza di amici mussulmani, amici cari di cristiani, come FarahdBitani o Wael Farouq, sono oggi preziose, perché percorsi rinnovati e in atto di una possibile novità per l’uomo, chiamato, ora come sempre, a rispondere alla domanda che ci accomuna tutti: che cosa regge di fronte alle sfide dell’esistenza?
La risposta al terrorismo passa per le vite di ognuno di noi, chiamati a non dimenticare, come vorrebbero che facessimo, questa domanda.
Il mio amico Arca, scrive su Facebook, riportando Pasolini…
Non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine, o con i discorsi, con gli scritti, con i versi: la lotta più dura è quella che si svolge nell’intimo delle coscienze, nelle suture più delicate dei sentimenti.
Pier Paolo Pasolini – “Vie Nuove” n. 51
28 dicembre 1961
Uniti nel tentativo di rispondere ci si riscopre assieme, pur da posizioni differenti.
È il voler il bene dell’altro in quanto altro. È l’anima dell’Europa.
Come dice Leiris, se saremo fedeli a questo, siamo già vincitori.
Con centinaia di amici, davanti al sagrato del Duomo di Rimini. Con noi il vescovo, arrivato trafelato da una manifestazione ufficiale con le autorità in piazza, … e tutti noi grati per la sua vicinanza e paternità.
Le parole di don Carron, i canti stupendi della tradizione cristiana, i volti attoniti e commossi, ma lieti e certi degli amici di sempre, di chi tante volte ti ha aiutato a ripartire.
E poi l’ascolto delle parole del papa. “È una terza guerra mondiale. Non è un gesto religioso, né umano. Non si può comprendere…”.
Infine il saluto, la preghiera (bellissima) e la benedizione del nostro vescovo Francesco.
Si esce e si torna, insieme a moglie, figlie e amici, Per strada si incontra qualche tuo studente… Parole intanto sul telefonino con chi da scuola chiede cosa si possa fare… Settimana prossima ci sarà molto da lavorare.
E si esce con una certezza. Noi non moriremo. Ci possono anche ammazzare, ma non moriremo.
Per grazia, non moriremo. Lieti nella prova.
Testo consegnato al rosario tenuto a Rimini poche ore fa:
Comunione e Liberazione si unisce alla commozione, al dolore e alla preghiera di Papa Francesco per le vittime degli attacchi di Parigi e per il popolo francese: «Queste cose sono difficili da capire. Non ci sono giustificazioni per queste cose, questo non è umano» (Papa Francesco al telefono con TV2000). Don Julián Carrón, presidente della Fraternità di CL, ha dichiarato: «Davanti ai nostri occhi c’è un’evidenza: la vita di ciascuno è appesa a un filo, potendo essere uccisi in qualsiasi momento e ovunque, al ristorante, allo stadio o durante un concerto. La possibilità di una morte violenta e feroce è divenuta una realtà anche nelle nostre città. Per questo i fatti di Parigi ci mettono davanti alla domanda decisiva: perché vale la pena vivere? È una provocazione che nessuno di noi può evitare. Cercare una risposta adeguata alla domanda sul significato della nostra vita è l’unico antidoto alla paura che ci assale guardando la televisione in queste ore, è il fondamento che nessun terrore può distruggere».
«Chiediamo al Signore di poter affrontare questa terribile sfida con gli stessi sentimenti di Cristo che non si lasciò vincere dalla paura: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia” (I Pt 2,23). Con questa Presenza negli occhi potremo guardare perfino la morte, a cominciare da quella di coloro che hanno perso la vita a Parigi, offrire ai nostri figli un’ipotesi di significato per stare davanti a queste stragi e a ciascuno di noi una ragione per tornare al lavoro lunedì mattina continuando a costruire un mondo all’altezza della nostra umanità, con la certezza della speranza che è in noi». Con queste parole don Carrón ha invitato tutti gli amici del Movimento ad aderire ai momenti di preghiera che saranno proposti dalle diocesi, in unità con il Papa e con tutta la Chiesa.
Le parole del papa
Santità quali pensieri e sentimenti davanti alla carneficina di Parigi ? “Sono commosso e addolorato. Non capisco ma queste cose sono difficili da capire, fatte da essere umani. Per questo sono commosso, addolorato e prego. Sono tanto vicino al popolo francese tanto amato, sono vicino ai familiari delle vittime e prego per tutti loro”.
Lei ha parlato tante volte di una terza guerra mondiale a pezzi ? “Questo è un pezzo, non ci sono giustificazioni per queste cose”. Soprattutto non ci può essere una giustificazione religiosa ? “Religiosa e umana. Questo non è umano. Per questo sono vicino a tutta la Francia che le voglio tanto bene”.
Ha fatto discutere al Meeting un’affermazione forte di padre Douglas, il quale, in sostanza, ha identificato l’Islam con il “male”. In particolare risulta decisamente stridente, se messa a confronto con il resto della sua testimonianza e poi con la testimonianza di padre Ibrahim. L’espressione è stata commentata dal moderatore don Stefano Alberto (don Pino), che ha sostenuto “noi sappiamo che occorre distinguere, lo dico pensando ai miei grandi amici musulmani, ai tanti uomini di buona volontà…”, rispetto al qual commento padre Douglas ha applaudito, confermando il cuore del suo intervento: non l’amarezza e la distinzione (per quanto forti e sbattute in faccia a noi per una giusta provocazione a vincere l’indifferenza), bensì altro, come si può ben ascoltare dal video dell’incontro che vi propongo qui sotto (Padre Douglas dice esplicitamente “non voglio incitare all’odio contro l’Islam”). Medesimo contenuto che poi, con toni differenti, ha espresso padre Ibrahim.
Nessuno ha chiuso gli occhi di fronte alle violenze inaudite che islamici stanno perpetrando, ma nessuno se ne è lasciato determinare, in un gioco perverso di contrapposizione, di causa ed effetto, che non può che alimentare l’orrore, vero obiettivo dell’Isis, come di Al Qaeda e ancora prima dei Talebani (tutti abbondantemente finanziati o “tollerati” dall’Occidente laico ed economicamente rilevante, mentre scorreva il sangue di cristiani ed islamici, vittime innocenti dell’orrore).
Una sottile, ma resistente, cecità potrebbe farci indugiare su quella semplificazione (del tutto comprensibile e che porta un suo richiamo importante), che invece in alcun modo deve indurci a contrapporre ad un banale “dialogo tra idee”, un altrettanto banale “scontro tra idee”. Occorre sostare sul punto centrale dell’incontro: la possibilità di un confronto reale tra uomini diversi. È, d’altro canto, questa tutta l’esperienza del Meeting fin da quando è nato nel 1980 e non per nulla si chiama Meeting per la pace e l’amicizia tra ipopoli. Fin dall’inizio, proprio anche grazie ai rapporti nati col don Gius, furono invitati buddisti, protestanti, islamici, ebrei, ecc….
Qualcuno invece oggi sostiene, anche sulla stampa e in forma autorevole, che il Meeting abbia intrapreso una linea “buonista e dialogante”. Ma è solo un “non vedere” che porta a giudizi così superficiali.
Per capire il passo compiuto dal Meeting, che va nella direzione di un approfondimento e di una conferma delle sue origini, è bene tornare all’articolo pubblicato da don Carron su Corriere della Sera all’indomani dei fatti tragici di Charlie Hebdo. Carron scriveva: “Quando coloro che abbandonano le loro terre arrivano da noi alla ricerca di una vita migliore, quando i loro figli nascono e diventano adulti in Occidente, che cosa vedono? Possono trovare qualcosa in grado di attrarre la loro umanità, di sfidare la loro ragione e la loro libertà? Lo stesso problema si pone in rapporto ai nostri figli: abbiamo da offrire loro qualcosa all’altezza della domanda di compimento e di senso che essi si trovano addosso? In tanti giovani che crescono nel cosiddetto mondo occidentale regna un grande nulla, un vuoto profondo, che costituisce l’origine di quella disperazione che finisce in violenza. Basti pensare a chi dall’Europa va a combattere nelle file di formazioni terroristiche. O alla vita dispersa e disorientata di tanti giovani delle nostre città. A questo vuoto corrosivo, a questo nulla dilagante, bisogna rispondere”.
Le prime parole che mi sono state raccontate dell’incontro sono state “ha vissuto la violenza, teste mozzate, donne uccise, e sotto il regime dei talebani, questo diventava uno spettacolo allo stadio e a nessuno – nemmeno lui – si ribellava. Lui vi partecipava. Poi, vinto dal dolore e dalla paura, è venuto in Italia pieno di pregiudizi contro gli infedeli, ma ha visto qua un modo diverso di vivere. Ci ha raccontato di una vacanza con un suo compagno di corso (scuola militare) e con la sua famiglia e del rispetto per lui. Poi ha incontrato un prete, infine ha incontrato gli amici della scuola di comunità, ha conosciuto chi era Giussani…”.
Lui è (e resta) musulmano, ma la sua vita è cambiata perché il suo animo si è ribellato a quel dolore e perché ha incontrato un’umanità diversa. L’ha incontrata in famiglie e amici cristiani. Ed ora lotta contro ogni fondamentalismo. Troppo poco? Appare tale, ma qui, e solo qui, c’è la radice, fragile ma efficace, per un cambiamento, per una vita nuova. In primis per quei duecento giovani che lo hanno ascoltato in vacanza a La Thuille e si sono accesi perché hanno visto come Cristo possa cambiare il cuore di un uomo, qualunque fede e posizione umana abbia. Nulla è impossibile, nemmeno che un cuore segnato dall’odio cambi.
Incuriosito, ho trovato questo articolo di Tempi, dove Farad mette a fuoco l’ipocrisia di questi regimi ultrareligiosi, e ben si evince che il problema consiste non in “troppa” religione (islamica in questo caso) ma in “poca” e distorta. Ho trovato anche un’intervista televisiva a Farhad che riporto qui sotto. Farhad mette a fuoco anche l’origine del suo cambiamento e i toni si assimilano a quelli che ho sentito raccontare dai ragazzi riminesi.
Si può continuare a discutere se esista un Islam buono o se vi sia solo un Islam cattivo, se sia riformabile oppure no… Ma questo è un problema loro. Il problema nostro è essere noi stessi. Anzi riscoprire noi stessi perché, come popolo e come singoli, ci siamo persi.
Lasciarsi colpire da questa vita nuova, che ha affascinato quegli amici musulmani, e viverla così pienamente da renderla contagiosa. Non solo. Non abdicare nella vita civile, lottare, dove e quando si può, perché l’Europa resti ancorata a quell’origine pienamente umana e cristiana, da cui è nata. Questo il grande compito di oggi. Qui rinasce quella civiltà che ha colpito Farhad mediante la vita quotidiana di un amico, di tanti amici.
Ps: “Nulla è impossibile” è l’esaltazione della categoria della possibilità, ovvero della razionalità intesa come capacità di apertura (e di lettura corretta) di fronte alla realtà. Quei ragazzi hanno fatto un’esperienza di profonda razionalità, incontrando un uomo. Torneranno scuola con una marcia in più, se manterranno viva questa esperienza.
Pps: Spulciando l’archivio, poco dopo aver scritto questo articolo, ho trovato questa pagina della Voce , che avevo curato. Era il 4 novembre del 2010 e si era appena concluso il Meeting tenuto al Cairo da amici mussulmani. Cliccate qui.
Si può discutere su tutto. Si può partire (e finir chiusi lì) da scontri di idee e di opinioni. Ma il Meeting come l’ho vissuto io, fin dal 1980, il primo, è sempre stato il realizzarsi di qualcosa di impossibile, la sorpresa di una umanità rinata e che prende forme inaspettate. È quanto poi ho sempre scritto sul tema, ogni qual volta ne ho avuto occasione (come ad esempio nel 2010)
Fermarsi al cambiamento delle forme oggi, a mio modesto avviso, sarebbe ben poco segno di saggezza e di “giudizio culturale”, (pur così tanto millantato).
Al Meeting ho imparato che la verità è sempre un avvenimento... e questo non è mai venuto a meno.
Questo articolo di Tracce supera tutte le discussioni che, come ogni anno, si sviluppano intorno all’evento. Per comodità lo riproduciamo qui di seguito. È la storia di Alejandra, volontaria del Meeting, intervistata anche alla Rai (vedi qui il servizio)
«Vado lì, al compimento della vita»di Alessandra Stoppa 07/09/2015 – Meeting 2015, pranzo dell’ultimo giorno. Tutti a tavola per un’amica: Alejandra. Due settimane di lavoro volontario, un tumore incurabile e un’inspiegabile gioia di vivere. «Sono qui per sperimentare la gratuità. La cosa più simile al divino»
Ultimo giorno di Meeting. Ora di pranzo, nella mensa dei volontari. Alla tavolata si continuano ad aggiungere posti, fino a che non c‘è più spazio e si fanno doppie file. Ogni volta che arriva qualcuno, Alejandra, emozionata come una bambina, chiede di presentarsi. Nessuno conosce nessuno. C’è un solo punto in comune, ed è lei, che i più hanno incontrato da pochi giorni o da poche ore. La bellezza di Alejandra, la sua letizia, li ha convocati tutti qui senza calcolarlo. Al pranzo gente che non si è mai vista racconta la propria storia, canta, domanda, s’interessa all’altro con una familiarità che non si spiega e fa dire all’ultima arrivata, rimasta in piedi e di sasso: «Questo è il Paradiso».
Alejandra Diez Bernal, 48 anni, di Madrid, ha lavorato gratis al pre-Meeting, occupandosi dell’accoglienza dei volontari, e poi ha continuato a servire tutta la settimana, in mezzo alle altre duemila maglie blu. Lei scoppia, brilla di vita. «Forse questa è la mia ultima estate. E quel che volevo era venire al Meeting. Poter aiutare a costruirlo». Da più di un anno è malata di un sarcoma sinoviale, un tumore raro e aggressivo.
«Perché sei al Meeting?», le ha chiesto a metà settimana una giornalista tv: «Credo che la risposta più giusta sia perché Dio vuole». Ha in testa le parole della presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, nell’incontro con i volontari: «La coscienza giusta per stare qui è la gratitudine a Dio di poterci essere, perché non si può darlo per scontato». «Per me è proprio vero», dice Alejandra. L’anno scorso aveva già i biglietti per partire, quando le hanno trovato una metastasi al polmone e ha dovuto subito iniziare la chemioterapia. «Poi sembrava che il tumore si fermasse, invece no, è andato avanti. Così anche quest’anno, fino all’ultimo, non sapevo se sarei potuta partire. Allora, davvero, ogni istante sono cosciente di essere qui perché Dio vuole. E questa è la prima ragione, la ragione principale».
Alejandra lavora nella finanza, è una funzionaria del Governo di Madrid, in un ambiente dove la competizione è molto alta. Il lavoro da volontaria è stato, come dice lei, «un cambio di chip»: «Il mio modo di vivere non era per nulla gratuito. Al Meeting scopri quanto sia grande sperimentare la gratuità, perché è la cosa più simile al divino: Dio dà tutto».
Solo pochi mesi fa, non era così felice. Non voleva parlare della sua malattia, non voleva nemmeno che gli amici le facessero domande. Ma a maggio, durante gli Esercizi spirituali della Fraternità di CL in Spagna, un incontro le ha cambiato la vita. Un dialogo con don Julián Carrón, che racconta così: «Vado da lui e gli dico: “Carrón, sono Alejandra, non mi conosci ma voglio dirti che sono molto grave…”. E mi sono messa a piangere. Lui mi risponde: “E qual è il problema?”. Io ho pensato che non capisse più lo spagnolo. Gli ho ridetto: “Carrón, sto per morire, e ho molta paura…”. Lui, guardandomi negli occhi, con uno sguardo pieno di pace, mi dice: “Alejandra, qual è il problema? Tu vai al compimento della vita. Tu vai prima di noi, sei davanti”. E poi aggiunge: “Io verrei con te, ora”. Io lì ho visto che per lui era vero, che diceva la verità. Ero sotto shock, perché mai nessuno mi aveva parlato così. Tutti mi dicevano: “Non ti preoccupare, tranquilla, la scienza va molto veloce…”. Era la prima volta che incontravo qualcuno che era la Resurrezione fatta carne, e che mi diceva: “Alejandra, siamo stati creati per andare lì”».
Guarda il titolo del Meeting, che è scritto ovunque in Fiera: «Io ho incontrato un uomo che ha un desiderio grande, un desiderio che coincide assolutamente con quella domanda: “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?”. Ho visto un amico che vuole veramente “andare lì”, al compimento della vita. Per lui la mancanza è di vedere Dio. Noi possiamo fare tutto, passare la vita, dimenticandoci di quel che è vero. Ed io per questo sono venuta al Meeting: per collaborare a costruire questa cattedrale che mi aiuta a vivere».
Un consiglio: dopo aver letto, ascoltare, con calma, questo pezzo dei Mumford & Son. Chiude dicendo “sei fatto per conoscere chi ti ha fatto”. Al Meeting è carne… non solo poesia.
PS: personalmente lavorare e presentare in questi mesi (e al Meeting) gli scritti di Marta e vedere come la vita le fiorisca attorno, non solo allora, mentre malata scriveva, ma ora, a 5 anni dalla sua morte, fa dire lo stesso dell’amica Alejandra. E in tanti amici possiamo dire di vedere la medesima realtà davanti ai nostri occhi. Torneremo presto a parlare di tutto ciò.