“Questa gente è fatta di una sostanza diversa!”

Dopo una serata passata con amici, leggendo un libro altrettanto amico e confrontandoci appassionatamente;

dopo aver in particolare ragionato sulla rilevanza della Chiesa nella vita quotidiana, approfondendo il portato, nell’esistenza concreta, della fede, guidati dalle sapienti, profonde e semplici ad un tempo (ma non facili), riflessioni di don Giussani e don Carron;

dopo una serata in cui abbiamo balbettato qualcosa su come la vita può divenire più umana grazie a Cristo, può diventare più sensata e razionale grazie al rapporto reso finalmente presente e percorribile con il Mistero;

oramai tornato a casa e messomi a lavorare ancora per un po’,

un amico presente all’incontro, (Roberto, che ringrazio), mi gira questo filmato che ho guardato attonito e stupito, decisamente ammirato,  un minuto fa. Una notizia il cui titolo avevo letto senza poter approfondire durante le giornate scorse.

Ebbene, fotografia perfettamente quanto stavamo cercando di comprendere su cosa sia il Cristianesimo: un modo più umano di vivere tutto, compreso il dolore e qui persino il torto più atroce subito.

Avevamo letto della rilevanza esistenziale dell’Incarnazione (Dio che si fa uomo) e specificamente questi passaggi: “Cristo risorto conclama che tutto nella storia è redimibile, che non si perde nulla nel vortice degli eventi.” Oppure, “La comunicazione di verità che il divino nella Chiesa fa arrivare agli uomini mostra la sua validità proprio nel non dimenticare nulla, nel valorizzare il bene e nel giudicare o trasformare il male.”

Parlandoci, abbiamo scoperto che anche per noi  queste espressioni sono diventate vere. Ma di fronte a questa testimonianza occorre mettersi in ginocchio ammirati.

È accaduto, dopo i terribili attentati, in una televisione egiziana, ed è riportato qui nella trasmissione di Tv2000.

Si comprende bene dove sia il punto di svolta, ancora oggi come duemila anni fa, per l’umanità intera.

 

http://https://youtu.be/rYaiLLm0t3o

 

A che vale il mondo intero… A che vale la tua vita…

Oggi DjFabo è morto. La sua vita era assai complicata da tempo. Cieco e paraplegico dopo un incidente, di cui ci fornisce qualche dettaglio questo articolo.  Una vita che era diventata un inferno, come lui stesso sosteneva. Il Corriere della Sera titola con una sua frase, “qui senza l’aiuto del mio Stato”. D’altro canto, se non ci pensa l’Italia si vola in Svizzera.  In Svizzera la “morte dolce” ha la forma del “suicidio assistito”, ovvero la morte che viene indotta senza intervento diretto del medico, invece previsto nel caso dell’eutanasia (non ammessa neppure in Svizzera). E tuttavia, Fabiano (questo il suo vero nome) non poteva assumere da sé il cocktail di farmaci che lo ha portato alla morte. E così ci ha pensato, non la sua compagna di vita, Valeria che pure lo ha sostenuto in questa scelta, bensì Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni.

C’è una immediata distorsione che balza agli occhi. Una stonatura evidente tra il dramma che si è consumato, – la duplice morte di un uomo, quella durante l’incidente e quella di oggi – e la battaglia perché lo Stato intervenga. Che Fabiano ci sia o non ci sia, così come il dramma che lo ha colpito anni fa (l’incidente e la perdita della sua precedente vita), è sostituito mediaticamente da una battaglia civile affinché “ognuno possa decidere come meglio crede della propria vita”.  Interviene anche la signora Welby (moglie di Piergiorgio, che visse un’altra vicenda dai toni simili) affermando “non possono continuare a infliggere ad altri quello che loro non vorrebbero, quello che dal loro punto di vista è più giusto”.

Ma quanti si vedono infliggere dalla vita – e non semplicemente dalla politica-  ciò che non si ritiene affatto giusto?

Chi può decidere “come meglio crede” della propria vita?  Forse che noi, che non siamo colpiti da situazioni così evidenti e drammatiche, possiamo deciderlo?  Nel dire questo non intendiamo imputare nulla a Fabiano, ma stiamo riflettendo su di noi stessi. Se riflettiamo sul serio, possiamo davvero dire che noi della nostra vita possiamo decidere “come meglio crediamo”?

Il dramma sollevato da questa vicenda è ben più grande di quello di una disposizione di legge. Morire in Italia, anziché in Svizzera non toglie infatti di una briciola il dramma nascosto nella storia di Fabiano. E, in fin dei conti, in quella di ognuno di noi.

Qui non c’è in ballo una legge dello Stato, ma una legge intrinseca della vita (e dunque terribilmente insuperabile), che va compresa e imparata a dovere. Compresa, per capire – una volta per tutte – se è una cattiva legge oppure no. E la risposta diventa decisiva rispetto al compito che ogni uomo avverte ogni mattina: un giorno in più da sopportare terribilmente, oppure la costruzione di un nuovo tassello di una splendida opera, qual è la nostra vita (così come è)?

Personalmente non credo di avere ancora capito del tutto cosa significhi questa scommessa, questa partita che siamo chiamati inesorabilmente a giocare, senza che vi siano chance per evitarla. Ma da un po’ di tempo, da un bel po’ di tempo, è fonte di meditazione e di rivisitazione di tante certezze (vecchie e nuove). E questo è fonte di speranza.

Tra i fatti  meno recenti che obbligano a riflettere, occorre ricordare la vicenda di Eluana Englaro e la vicinanza al suo dramma da parte di chi era pure contrario alla scelta della dolce morte, come si evince da  un semplice ma chiaro volantino, oppure quello sguardo profondo di Enzo Jannacci, in quella sorprendente intervista al Corriere, dove  dichiarò “la vita è importante anche quando è inerme e indifesa. Fosse mio figlio mi basterebbe un battito di ciglio”, fino a chiudere l’intervista con quella espressione che era quasi una preghiera laica, “ci vorrebbe una carezza del Nazareno”.

Ma oltre Eluana, ho presente la vita di tanti amici colpiti da gravi malattie o eventi drammatici, fatti che tuttavia diventano qualcosa di inaspettato, ovvero opportunità prima non rivelate.

E poi l’aver avuto l’opportunità di curare la pubblicazione della storia di una ragazza, Marta Bellavista, che a 27 anni muore di tumore, dopo aver vissuto una iniziale guarigione e dunque con tutta la rinascita di aspettative e sentimenti che ognuno può ben immaginare, e che però afferma il valore di ogni secondo del suo respirare. E lo afferma in modo tale che la vita diventa del tutto “altro” da quanto immaginato. Secondo dopo secondo, un guadagno.

Tutte queste storie, tutte queste vicende, insieme ad altre storie difficili, dove il “tutto consueto”, che possediamo e che rimane,  non sembra sanare l’insoddisfazione, l’inferno, le atrocità di un vivere che pare non avere senso (quante storie così segnate, quanti amici, quante persone care che vivono l’inferno di un presunto “nulla” che coabita nel presunto “pieno” di tante cose: salute, soldi, affetti -poi infranti da noi stessi), mi portano a pensare che si debba andare ben più a fondo. Ancora più a fondo di quanto scrivevo ai tempi di Eluana (vedi il mio vecchio blog, in data febbraio 2009).

In questo andare più a fondo,  emerge il punto di discrimine che svela l’insufficienza di quel titolo del Corriere e di quanto lo stesso djFabo ha sostenuto in questi giorni. L’insufficienza di uno sguardo. La stessa insufficienza che non ci fa capire la vita, neppure quando siamo nel pieno delle nostre forze. Così come quando sembra sparire dai nostri orizzonti.

Sovviene alla mente quanto lo scrittore Saviano ha scritto sul caso del ragazzo sedicenne suicidatosi perché trovato con qualche grammo di hascisc e vittima di una perquisizione in casa. Si è suicidato davanti alla madre. Saviano scrive che tale morte non ci sarebbe stata se le leggi avessero liberalizzato l’uso della droga. Come se il dramma così potesse scomparire. Come se sballarsi non fosse già il dramma. Il dramma di una vita che non conosce la capacità di reggere il duro mestiere di vivere. La notizia, poi, che fu la stessa madre a chiamare gli agenti, le parole di lei, e il risvolto drammatico che tutto questo apre (in qualsiasi direzione lo si voglia guardare), fanno capire l’insufficienza e la portata riduttiva (perfino violenta nella sua banalità) di quanto detto da Saviano. Il quale su facebook non ha mancato di far sentire la sua voce anche su djFabo, andando a scomodare Cristo e la religione, ed incentivando una corsa alla ricerca del nemico (allo Stato è stato aggiunto l’italico popolo di falsa religione. Complimenti Saviano! Di fronte a un uomo che muore si sente proprio il bisogno di nuovi nemici!).

Occorre uscire da questa riduzione, che riguarda la morte di Fabiano e di Eluana, così come la vita di ognuno di noi.

In tal senso ci aiutano due articoli, apparsi in questi giorni.

Il primo è di Benedetta Frigerio. Ci fa vedere che esistono storie diverse. Svela anche lo stile di vita di Fabiano, dedita allo “sballo”, uno sballo non estraneo, ella sostiene, all’incidente in auto. Possiamo sentire insopportabile tale giudizio di Benedetta, e forse lo è, tuttavia è un aspetto che non può essere sottaciuto.  Ma soprattutto non possiamo non spostare la nostra attenzione sulla seconda parte dell’articolo, dove si parla di un altro dj, Andrea, che vive una situazione analoga a quella di Fabiano, ma afferma: “questa malattia mi ha tolto quasi tutto, ma mi consente di cogliere il valore di ciò che prima sottovalutavo”. Da leggere.

Il secondo articolo, di Lucia Bellaspiga,  presenta un quadro ancora più sorprendente. È l’appello, purtroppo inascoltato, di un ragazzo costretto a vivere senza movimenti da sempre (“può solo pensare”) a Fabiano perché eviti quel gesto, perché eviti di farla finita. Qui si svelano le infinite possibilità che la vita presenta, gli incredibili risvolti che l’esistenza possiede e le opportunità che offre a chi non la rinchiuda in uno schema (come, pur in forme “lievi”, facciamo noi tutti quotidianamente). Matteo, 19 anni, 25 chili, inchiodato ad una carrozzella, non può muoversi, non può parlare. Ma a partire dai 6 anni ha imparato a usare una tavoletta per comunicare ed ora frequenta il liceo, dove quest’anno si maturerà. Certo, gli insegnanti vanno a casa sua (come prevedono progetti di inclusione ampiamente sperimentati per casi meno gravi) e i sacrifici non mancano. Eppure la sua ironia spiazza, ci mette tutti contro un muro, perché capiamo che non abbiamo capito nulla della vita. Quella vita fatta consistere, così spesso, in quello che pensiamo e progettiamo di essa, considerato irrinunciabile, e che invece può essere tolto in un secondo.

Ma cosa è l’essenziale, che nessuno ci può portare via?

Matteo -la cui malattia è dovuta ad un errore dei medici al momento della nascita- ce lo ricorda in un paio di battute fulminanti. Rimando alla lettura dell’intero articolo (imperdibile, per le parole di Matteo stesso).

Il pensiero, poi, vola subito al dott. Melazzini (ammalato di SLA e assessore in Regione Lombardia), ma anche a esperienze vicine, più prossime, come i vecchi amici “handicappati” (oggi non si può più dire così, ma quanta ipocrisia!)  della Luce sul Mare di Igea Marina  con cui insieme ad alcuni amici, da giovane, passavo la domenica pomeriggio, e balza alla memoria  quella loro gioia nello spendere due ore assieme.  E come non pensare a chi soffre perché ha perso tutto, magari non l’uso del corpo ma il tutto di una esistenza intera  (per terremoto, malattia, anzianità devastanti)…

Storie differenti certo, ma che portano un inferno dentro che fa immediatamente gridare che “non è più vita”. C’è pure chi cade in irrimediabili tunnel, per la perdita del lavoro, della famiglia, e i suicidi di questi tempi di crisi sono lì ad attestare che è ben difficile misurare l’inferno che è nel cuore di ognuno.

E penso di nuovo a lei, a Marta, che insegna in ogni riga del suo diario, che la vita è altro da quello che noi decidiamo che sia. Appunto. Qui si avvicina la radice del problema.

Le ultime parole di Fabiano sono un ringraziamento. “Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato. Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore, di dolore, di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e lo ringraziero’ fino alla morte. Grazie Marco. Grazie mille”.

Alla fine del libro Voglio tutto (dove sono raccolti gli scritti di Marta), abbiamo posto il ringraziamento di Marta (sono le ultime parole proferite nel suo ultimo giorno di vita) a Francesco, l’amico con cui ha imparato che la vita è nelle mani di un Altro (il Nazareno di cui parla Jannacci). Ormai sedata si è tirata su e ha detto a lui che stava uscendo: “Grazie, grazie, grazie”. Poco dopo, la malattia la porterà via ai suoi cari.

Fabiano ripete per tre volte la parola dolore. Marta per tre volte la parola grazie. Ed era provata da quattro anni di un tumore che l’aveva ridotta a zero nel corpo.  Entrambi ringraziano. Ma per motivi opposti. Quello di Marta è un grazie per ogni istante vissuto, ogni dolore attraversato, ogni pezzetto di cammino, lieve o atroce che fosse, mentre l’altro è un grazie liberatorio per una vita insopportabile.

Siamo tutti di fronte a questo bivio. La nostra giornata è un bene, oppure è, e resta, in fondo, insopportabile, un dramma da cui essere anestetizzati? Magari con una vita da sballo, o parallela, oppure ridotta ai fine settimana o a serate come quelle cantate da J-Ax in Gente che spera, (“cercando qualcosa di più, in fondo alla sera”).

La vita è qualcosa in cui entrare, comunque sia, oppure da cui fuggire?

Qui si nasconde il vero dramma che Fabiano ci ricorda e che nessuna legge (bella o brutta) potrà eliminare: che cosa rende “sopportabile” l’esistenza? Una risposta che ognuno di noi deve imparare a dare. Possibilmente da subito. Perché la vita incalza.

La risposta di Marta è una bella canche. La sua strada rende vere, e non semplicemente sentimentali, le parole della canzone di Fiorella Mannoia. Che sia benedetta la vita.  Sempre.

Chi non vorrebbe poter imparare a dirlo, con forza, di fronte a ogni dramma?

È l’unica chance che abbiamo per toglierci l’inferno che ci abita nel cuore. In Svizzera o in Italia, a questo punto non importa più.

 

https://www.youtube.com/watch?v=IUE61h0DaRU

 

Quell’esperienza della croce, a noi sconosciuta

Silence è un capolavoro. Due ore e quaranta incollati allo schermo, senza accorgersi del tempo che passa. Un alternarsi di immagini e volti che scavano nell’anima. Perché nel film non solo é  immortalata la storia dei padri Gesuiti in missione nel Giappone del 1600 e quella del loro popolo – commovente per dignità e statura, nella semplicità e devastazione delle persecuzioni – ma la storia di ognuno di noi. Di ogni spettatore.

Protagonista del film, infatti, é il traditore Kichijiro, fedele fino all’ultimo e traditore fino all’ultimo. Lui, così spregevole, è l’immagine dell’uomo nella sua più profonda e terribile verità. Così, la vita di ogni personaggio del film è sempre sul filo della caduta, del non saper che fare e che scegliere, del non sapere dove sia il bene e il male, del vuoto che sembra sostituire il pieno che Dio ha promesso e lasciato intuire con inaudita certezza.

Si parla del dramma di ogni uomo impegnato seriamente con la propria esistenza.

Lo spettatore, dunque, anche colui che non sperimenti una vita cristiana, si trova pienamente espresso in quelle pur lontane situazioni. E ne prova un fascino infinito.

Raramente mi é capitato di vedere un film più mio, più espressione del dramma della mia e nostra esistenza. D’altro canto la persecuzione, così crudamente descritta, é il nostro futuro, e forse anche un po’ il nostro presente. Ma su questo torneremo a parlarne  più innanzi.

Occorre affrettarsi al cinema, per non perdere questa straordinaria metafora della vita che, non a

Padre Spadaro, a destra, e Martin Scorsese mentre dialogano intorno al film Silence. Nell’intervista Scorsese racconta come questo film sia stato una Grazia per lui

caso, è frutto di una riflessione lunga una vita, come Scorsese chiarisce nella lunga ma bellissima intervista al gesuita Antonio Spadaro.

Provo a costringere l’infinita gamma di sfumature e di spunti che il film suscita in alcuni pochi passaggi che mi sembra meritino di non essere perduti e che credo siano decisivi per l’uomo di oggi.

Occorre dire che, così come amici mi hanno saggiamente consigliato, è decisamente opportuno lasciarsi perturbare privi di qualsiasi condizionamento dal film, nella sua inquietante e fascinosa “ambivalenza” (così la croce pare a noi, “cristiani da pasticceria” – parole del papa che mi ha ricordato un’altra amica dopo la visione del film).  Per questo è consigliabile non leggere le pagine che seguono, se si è prossimi a vedere il film. Una volta visto il film è interessante il confronto, assai più che con queste parole, con la breve ed efficace recensione di Autieri, per le chiavi di lettura suggerite, e con un bell’articolo  sulla rivista mensile Tracce (articolo purtroppo non disponibile online)  per i riferimenti alla storia della chiesa in Giappone, di un tempo e di oggi, espressi intervistando il gesuita De Luca. Uma chiesa, come egli dice “che si mantenne viva, segretamente, benché non ci fossero né chiese, né preti”. Saranno i missionari francesi, nell’Ottocento, a scoprire le comunità segrete dei kakure kirishitan (“cristiani nascosti”). Uno sguardo alla storia della Chiesa cattolica in Giappone, anche solo sulla consueta wikipedia, è decisamente interessante.

Proviamo allora a fissare alcuni punti, consapevoli che potrebbero essere infiniti…

1) Dio parla nel silenzio. É notevole come il protagonista del film sia il cuore dell’uomo di ogni tempo. Un cuore che desidera l’infinito e che lo tradisce ad ogni passo. L’abiura non é solo quella continuativa di Kichijiro, o di padre Ferreira, o degli  altri padri. Ma é anche quella di chi, come padre Garupe, inizialmente identifica con la forma del martirio la propria fede, ridotta a rabbioso tentativo di coerenza. Una riduzione che nasce dalla fragilità di padre Garupe rispetto al più sereno e “forte” padre Rodriguez, che tuttavia, in una sorta di ribaltamento di posizioni, subirà anch’egli prove impossibili per un uomo. L’amore, pacato e sofferto, per quella gente -corpo di Cristo, chiesa nascente- di padre  Rodriguez é esemplare e supera perfino la “forma” del martirio, suggerendo perfino ai kirishitan  di accettare la formale abiura, mentre Garrupe, rabbioso e disperato, grida che non abiurino. La fede non ha forme predefinite. Nemmeno la forma suprema: il martirio.

2) E tuttavia è evidente che il progetto di  potere dell’inquisitore giapponese è quello di estirpare nell’uomo qualsiasi speranza, spingendo all’accettazione di una natura che sembra non risparmiare l’orrido orizzonte della morte ad ogni uomo (come attesta il vecchierel bianco di leopardiana memoria ). L’inquisitore afferma, con cinico distacco, che in Giappone non può crescere nulla di nuovo, che non vale la pena portare una fede per cui le persone saranno destinate a dare la vita, che nella palude di quella tera nulla può mettere radice. Anche la chiesa nascente, pur ricca e feconda (300mila persona in pochi decenni) sarà fatta scomparire.

L’inquisitore

È una cultura della morte, ma ordinata e dotata di un senso compiuto, circolare, che non si apre a nulla nel rischio che spezzi il ciclo della natura. Il Cristianesimo deve sparire perché accende la speranza di rompere questo cerchio e dunque è ancor più pericoloso di Portoghesi, Spagnoli, Olandesi, con i loro interessi economici. Il potere comprende che deve distruggere quel principio di speranza, se vuol mantenere se stesso così inossidabile e rassicurante, capace di organizzare la disperazione.

3) È incredibile l’efficacia della raffigurazione dei padri dopo l’abiura. Non c’è traccia di umanità nei loro volti e nelle loro parole. Freddi, distaccati. Anche infervorati nel difendere le proprie posizioni ma sfuggenti negli sguardi.  L’abiura é terribile, costringe l’uomo a soffocare se stesso, ovvero il desiderio più autentico del proprio cuore, acceso dalla fede cristiana. È una forma di martirio essa stessa. Fiorisce il corpo, ripulito, disteso, e nei volti non c’è più alcun dramma. Ma l’io è morto.

4) Eppure il cuore dell’uomo grida, afferma, quel Dio tradito e, al di là di ogni situazione, Dio parla, opera,  pur misteriosamente e nell’apparente sconfitta. Padre Ferreira (nella verità storica poi si ricrede e viene accolto nuovamente tra i Gesuiti) nomina inavvertitamente il nome di Dio. Se ne avvede padre Rodriguez, ma lui nega. Anche l’abiura, il tradimento e la zelante opera di collaborazione con l’inquisitore giapponese, scientificamente alimentata da una impeccabile strategia da parte del potere, non riesce a cancellare l’azione misericordiosa di Dio, resa particolarmente vivida e presente dal desiderio di pentimento  da parte del peccatore Kichijiro.  Malgrado l’abiura e la nuova vita padre Rodriguez resta padre, è “costretto” ad essere padre.

Scorsese con papa Francesco

E Scorsese ha voluto aggiungere al libro da cui il film è tratto (il romanzo di Shusako Endo, che Scorsese ha letto nel 1988 e che ha scavato nella sua vita) una sorpresa sconcertante, proprio nella scena che descrive la fine dell’esistenza di padre Rodriguez. Una geniale aggiunta di Scorsese che conferma le parole già da espresse  da Rodriguez , “nel silenzio ho sentito la tua voce”.

É misterioso e vertiginoso come Dio possa parlare anche nel fondo del peccato e del tradimento, nell’oscurità della Sua sconfitta. Ma non é forse questa la fede cristiana nella sua intima essenza, quella fede invincibile per il mondo, ovvero la fede nella croce? La “pace che il mondo irride ma che rapir non può?” (Manzoni).

La certezza che nulla è abbandonato – neppure l’abbandono più terribile e infamante – dall’abbraccio di Dio è il grande tema che il film ripropone (senza la pretesa di essere un impeccabile trattato teologico) e che oggi ci conviene guardare con grande attenzione.

Si aprono tempi, infatti, in cui sarà chiesto ad ognuno di prendere posizione a fronte di una società in cui tutto, ma proprio tutto, è contro il cristianesimo. Non ci saranno, presumiamo, le fantasiose torture giapponesi. Tuttavia una forma di ostracismo e rinuncia a pezzi di potere, a pezzi di prestigio sociale,  in nome della fede – nuda, pura – già è richiesta oggi. E continuamente la Chiesa sta richiamando la giusta battaglia per il cristiano di oggi, correggendo sottolineature sciagurate che vanno in direzioni apparentemente ragionevoli.  In tal senso è sufficiente rileggere le Ultime conversazioni di Benedetto XVI, dove il papa emerito si dichiara  preoccupato non per il calo di fedeli o di vocazioni, ma per la perdita della fede.

Ma cosa è questa fede, questo unico punto che conta per la chiesa universale?  Non forme predefinite (né intimistiche, né di militanza esteriore), ma il riconoscimento (fisico, reale, in luoghi che aiutino tale coscienza) del Dio che ci abbraccia ora e sempre, e dunque la possibilità di una vita nuova da subito, anche nella più devastata e lontana situazione che possiamo vivere. Anche in questo inferno interiore di cui siamo terribilmente protagonisti e artefici noi uomini dell’Europa del XXI secolo. Un inferno che, per certi aspetti,  ha poco da invidiare alla vita di fango e di stenti dei kirishitan giapponesi del 1.600.

Bauman e gli uomini connessi ma non soli

Come sappiamo, è morto, all’età di 91 anni, Zygmunt Bauman, il grande intellettuale che, seppure già di ampia notorietà, in questi ultimi tempi ha dimostrato una capacità di sguardo profetico rispetto alla società occidentale così acuta e pervicace, da poter raggiungere il grande pubblico. Notevoli, in particolare, le assonanze che Bauman ha avvertito con le parole e la figura di papa Francesco, uomo visto come lanciato oltre la crisi del post moderno.

Quello che mi colpisce in Bauman è il fatto che il vecchio “vizio” della filosofia occidentale (conoscere l’ “intero”), sembri rinascere, arricchito da una sensibilità per i movimenti della società, fin nei suoi aspetti più legati al costume, alla vita quotidiana, alle dinamiche economiche o di evoluzione tecnologica, con insolita freschezza.

La sua analisi della (ovvia ma drammatica) fragilità dei rapporti tra uomini senza legami, perseguita come progetto sociale ed oggi potenziata dal virtuale, già l’avevo percepita come illuminante, in una sua intervista collocata alla fine di un drammatico documentario relativo alla vita in Svezia (Qui puoi leggere il mio articolo, mentre purtroppo il filmato è stato rimosso dalla Rai).

Ma leggo proprio questa sera, al mio rientro dopo un’appassionata chiacchierata, a cena con amici, su temi vari, l’articolo di commiato di  Repubblica, che  propone, all’interno della pagina in rete, un’intervista video (in inglese con sottotitoli in italiano) e che potete leggere e vedere qui. Nel filmato di 10 minuti, il grande tema della attuale migrazione dei popoli  è legato da Bauman al tema della contemporaneità.

Bauman sostiene che modernità e migrazioni siano inscindibili (non vi sono queste senza l’altra). La modernità genera trasformazioni, che a loro volta generano spostamento di popoli, di quegli uomini cioè che non rientrano nell’ordine (generato nel disperato tentativo di  controllare il caos) e che dunque devono andarsene. Ma al minuto 3, 45 il giudizio diventa drammatico. I migranti “diasporici” (come sono quelli attuali) tendono a non integrarsi, a convivere con due e tre identità contemporanee (di cui essi stessi diventano portatori), destinate a non integrarsi affatto.

Sottolineatura che mette in luce il carattere epocale e drammatico dell’attuale movimento dei popoli, non risolvibile dunque né con un giudizio di chiusura (“fermiamo i flussi con i muri”, giacché la migrazione è tutt’uno con la modernità), né con un giudizio di generica apertura (di stampo “buonista”, – Bauman mette in luce il carattere drammatico e di “dis integrazione” che questo fenomeno ha in sé). Una impossibilità di integrazione che è generato e genera la società delle incertezze. Questo l’ultimo affondo terribile: si crede che la “società della incertezza” sia generata dall’immigrazione (e l’immigrato diviene capro espiatorio, utile alla politica di basso respiro), ma al contrario questa ne è un effetto. Baumann parla in tal senso di “ambiente dell’incertezza” (minuto 4,15 circa e seguenti) come connotato proprio della modernità. Gli immigrati sono “l’avamposto del grande ignoto”. E Bauman prosegue, affermando: “il grande ignoto è lì, nel cyber spazio”, inafferrabile. E qui sembra aprirsi una dimensione più ampia, capace di abbracciare anche il grande tema dell’assenza di legami, della solitudine, del virtuale.

Riflessioni che mettono in luce uno sguardo, quello di Bauman, capace di analizzare il dato singolo nell'”intero” della vita dell’uomo, della società e dei destini dell’umanità. Le numerose dinamiche dell’esistenza contemporanea (migrazioni, incertezza, crollo di evidenze, vita virtuale, capitalismo, individualismo, assenza di legami, ecc.) trovano una singolare coralità di visione, seppure non (ancora – e sarà lunga a venire-) una risposta fondativa

Decisamente un pensatore con cui è  essenziale  entrare in dialogo.

Dialogo decisamente piacevole per chi, come il gruppo di amici di questa sera, ama trovarsi a ragionare di queste cose senza lasciarsi schiacciare dal peso delle idee,  ovvero uomini “connessi ma non soli”, desiderosi di costruire nuovi “legami fondativi”, certi – per dirla alla Bauman – che “l’indipendenza non sia la felicità” ed  “alla fine porti ad una completa, assoluta, inimmaginabile noia”.

 

La “felice” società degli uomini soli: la teoria svedese dell’amore

È uscito ieri, 22 settembre, in alcune sale italiane, una decina in tutta la nazione, un conturbante film-documentario di Erik Gandini, video maker bergamasco che da decenni vive in Svezia e assai noto per il suo Videocracy, dedicato all’Italia berlusconiana, film che fece assai discutere.  Ma sono numerosi i suoi docufilm che hanno destato clamore (Raja Serajevo, Gitmo, Surplus) e che allo tesso tempo gli hanno portato riconoscimenti e notorietà.

L’ultimo lavoro di Gandini si intitola La teoria svedese dell’amore. Se l’edizione integrale è in proiezione a partire da oggi nelle sale, Rai 3 ne ha pubblicato una riduzione (assai ampia -60 minuti-) che permette perfettamente di entrare all’interno di questo viaggio nel cuore del paese “più civile del mondo”. Un viaggio surreale e decisamente conturbante. Un viaggio in un sogno, un’utopia, che si rivela un incubo.

È davvero istruttiva, e allo stesso tempo emotivamente intensa, la visione del film (non più disponibile sul sito della RAI il film è rintracciabile qui).  In questo docufilm  non si parla solo di Svezia, ma si tratta del nostro futuro, o meglio di come qualcuno vorrebbe si trasformasse il nostro futuro.

Gandini, in intervista,  ammette che il film è a tema, che non è espressione di tutto ciò che è la Svezia (come Videocracy per l’Italia, d’altronde) ma quanto egli documenta è fondato su dati statistici inoppugnabili ed esperienze reali.

Di che si tratta?

In sostanza un progetto politico esplicito, nato nel 1972, ha inteso fare della società svedese la società degli individui che non abbisognano di appartenere a nessuno e che dunque, negli intenti, possono vivere assolutamente liberi e “liberati”. Finalmente rapporti autentici, in quanto liberi e non costrittivi. Liberare i genitori anziani dalla necessità di dipendere dai figli, liberare i figli dai genitori, le donne dagli uomini… sfaldare lo stesso bisogno del partner da parte delle donne per la procreazione, (decisamente ironica la riflessione su quella che dovrà essere la funzione del maschio nel futuro, descritta in una banca del seme e che potete ben immaginare). la-teoria-svedese-dellamore2

Tuttavia l’esito di questo progetto politico-sociale è, ad oggi, una solitudine generalizzata, che assume tratti parossistici, descritti, come si diceva, con ironia ed un sarcasmo agghiacciante, senza perdere mai i tratti di un realismo che rende la visione ancora più drammatica. L’ufficio che si occupa del ritrovamento delle relazioni di persone anziane morte e dimenticate nei loro appartamenti, la descrizione di donne e uomini che non hanno alcuna intenzione di complicarsi la vita con una relazione,  di immigrati che sono strappati dai loro valori e cultura, è decisamente significativa. Questa società, che al contrario della nostra italica, funziona (accoglie, integra, provvede, razionalizza), svela una dimensione oscura.

L’impressione che avvolge lo spettatore è quella di essere in un film di fantascienza (sembra di vedere certi film per la televisione degli anni ’70) dove si descrive una società utopica e irrealizzabile. Invece è realtà  in Svezia. Ma di più. Con chiarezza si  riconoscono le direzioni che taluni dibattiti anche nostrani, consapevolmente o meno, vogliono imprimere alla società.

Si comprende bene come la questione delle famiglie omosessuali, recentemente così dibattuta in Italia,  oppure la battaglia per la procreazione assistita, siano veramente un tassello di una vicenda ben diversa. Tant’è che anche un filosofo “allievo indipendente di Marx” e neohegeliano, come egli stesso si definisce, quale Diego Fusaro, ha preso decisa posizione in contrasto ai cosiddetti “nuovi diritti” (si vedano questi due video: video 1; video2), pur all’interno di una sua generale visione di contestazione radicale della società del capitale, quale società dell’ideologia, omologata e totalizzante, del mercato (in cui non c’è posto per la famiglia, ma solo per individui atomizzati).

Il film di Gandini ha il merito di traslare viete discussioni di basso profilo sul cuore della questione. Lo scontro tra cattolici tradizionalisti e laici progressisti, così come spesso si configura, non ha alcun senso di esistere e presenta in sostanza, quale esito coerente, un obiettivo nichilista, come ben descritto nei fotogrammi del documentario.  Due poli dialettici che non conoscono la vera battaglia in corso.

La vera battaglia è quella di una resistenza ad un individualismo fondato sul vuoto (autofondativo nelle intenzioni), che si configura come una scommessa errata sull’uomo, una deriva illusoria della libertà. Una prospettiva strisciante e apparentemente vincente, capace di avanzare all’interno dei vari fronti contrapposti, attraverso l’annientamento delle dimensioni più autentiche dell’uomo e che ha certamente come ignari alleati, più o meno zelanti propugnatori di diritti che diritti non sono, ma al contrario capestri in un cui rimanere imprigionati, come acutamente osserva Fusaro. È una lunga storia, che va avanti dai tempi del divorzio e dell’aborto.

Certamente nel film l’antagonismo a questa deriva, sembra non esistere, se non vagheggiando una società primordiale e naif, simbolo tuttavia di una inesorabile resistenza dell’uomo a progetti ideologici così massivi.

bauman
Il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman

Tuttavia il valore di provocazione del filmato è notevole, e l’intervento finale del filosofo Zygmunt Bauman ne segna la profondità. Dopo alcune analisi sulla vita online e offline, Bauman conclude: «La felicità non viene da una vita senza problemi, ma dal superamento delle difficoltà. L’indipendenza non è la felicità; alla fine porta ad una completa, assoluta, inimmaginabile noia.»

Tra le numerosi provocazioni e suggestioni, vorrei presentarne tuttavia una fortemente positiva che ho percepito con chiarezza, accanto alle altre, durante la visione del film.

Il progetto nichilista non vincerà.

Per quanto forti siano le spinte del potere, per quanto gravi le confusioni in cui è caduta la nostra società, con le sue sirene devastanti, la bellezza della famiglia e di rapporti solidi, il bisogno di comunione tra gli uomini, di impastarsi l’uno nell’altro (tutti valori che in qualche modo, talora assai imperfetto, la nostra società mediterranea ha sempre mantenuto vivi) non potranno non tornare ad affascinare l’uomo.

Nel film è palese. La società degli uomini soli è troppo brutta perché prevalga definitivamente, e soprattutto perché si possa realizzare da noi, sud dell’Europa, così immersi nella bellezza come siamo.

Nel frattempo tuttavia, ci aspettano tempi duri, in cui la buona battaglia sarà, ancor prima che innescare rabbiosi scontri contro  mulini a vento e falsi obiettivi,  dimostrare che si può vivere diversamente. Da subito.

La bellezza va inseguita ed amata. Questa è la nostra arma e la nostra vittoria contro il nichilismo.

In attesa del Meeting 2016

In questa situazione di confusione nazionale e internazionale, il Meeting di Rimini ancora una volta propone una miriade di incontri in cui si testimoniano pezzetti di realtà e di cultura che attestano che vivere, e non solo sopravvivere, è possibile.

Da quando è nato le polemiche non sono mai mancate e sono giunte da una miriade di fronti, interni ed esterni. Chi ama vivere sui media rimane fermo a questi dibattiti, generalmente  di basso respiro. Ma da quando è nato, chi vi ha partecipato ha visto altro. Appunto, ha visto che vivere è possibile.

In particolare in questa edizione il Meeting esplicita anche nel titolo, Tu sei un bene per me, la sua dimensione originaria (ricordiamo che la denominazione dell’iniziativa riminese è Meeting per l’amicizia fra i popoli). Il programma, come al solito è densissimo e spazia sui vari ambiti dell’esistenza umana (dall’economia alla cultura, alle scienze, all’arte, fino  giungere alla solidarietà, alla politica, all’ integrazione, ecc.).

Credo che per capire la novità che si rinnova ogni anno al Meeting, e che ancora una volta ci aspettiamo da dopodomani, sia assai utile leggere qui o visionare qui sotto l’intervista che Monica Mondo  ha fatto per TV2000 a Giorgio Vittadini, in cui legge il Meeting 2016 a partire dalla sua esperienza personale, in particolare il suo rapporto con don Giussani.

Altrettanto interessante è l’ intervista sul Corriere della Sera, più incentrata sul tema.

Ma senza quei tratti unici e personali, che qui potete percepire, non si capirebbe il Meeting. Tratti personali che tutti coloro che al Meeting stanno lavorando o lo seguiranno con coinvolgimento personale possono riconoscere, tratti personali che posso rigenerarsi in chiunque, tra pochi giorni, frequenterà i padiglioni della fiera.

Tratti unici e personali, che non implicano necessarie “conversioni”. Al Meeting partecipano ebrei, islamici e cristiani, insieme a laici agnostici e anche atei.

Tratti unici e personali significa che il proprio io rivive, consapevole di una strada comune. Magari identica, magari diversa (Non è forse vero che La libertà è il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini ? vedi Meeting 2005), ma misteriosamente comune.

Buon Meeting 2016!

 

 

Misericordia e perdono nella storia prendono carne: il contributo di Testori

Proseguendo la riflessione sulla centralità della Misericordia per rispondere al dramma affettivo, esistenziale ed intellettuale del nostro tempo (giacché non si tratta di questione pietistica ma primariamente di ragione, intesa come natura dell’uomo), mi imbatto di nuovo nella figura del grande Giovanni Testori.

Già in un mio precedente articolo, primo di questa serie (primo articolo –  secondo articolo), avevo riportato passi di Testori in cui egli stesso racconta la sua conversione in maniera estremamente pertinente al tempo attuale ed alla riflessione intrapresa.

Propongo qui questi due video appaiati.

Il primo è l’omelia di don Giussani alla sua morte (1993). La registrazione – purtroppo parziale ma probabilmente quasi integrale – parte con questa parola, perdono, quale chiave per comprendere la vita di Testori (“eri dominato da questa parola, perdono”). Le parole del Gius sembrano completamente immerse nell’attuale percorso della Chiesa e contemporanee all’uomo di oggi.

 

Il secondo è un servizio su di lui, in cui compare egli stesso mentre recita In Exitu. Realismo, bisogno, grido lancinante e urlo viscerale al destino, ma anche presenza di Uno che risponde: Cristo, il perdono realizzato e presente.

Credo che i due video si illuminino reciprocamente in maniera chiara e intensa.

 

Un solo respiro, quello della Misericordia: la carta d’identità di Dio (R. Brague), le viscere di Dio (Carron)

Prendo spunto dall’ascolto della video-intervista a Elisa Grimi, che Radio radicale ha realizzato ieri, domenica, dal salone del libro di Torino per tornare su di uno dei temi per me più intriganti  del momento storico che stiamo vivendo. Si parla del testo scritto da Remi Brague, con cui la stessa Grimi ha collaborato per la stesura, dal titolo  Contro il cristianismo e l’umanesimo. Il perdono dell’Occidente, ed. Cantagalli.

La riproponiamo qui, a fondo pagina, perché tocca tematiche (appena sfiorate invero in 30 minuti di trasmissione) che sono al cuore della storia, storia dell’umanità e storia di ognuno. Un “cuore” che diventa vicenda decisiva e che, sempre più chiaramente, emerge come in mano alla decisione responsabile e personale di ognuno. L’Europa, l’umanità, la chiesa, ma più in generale un bene per l’uomo, non nasceranno infatti da sistemi e da scelte politiche, ma dall’intrapresa di uomini nuovi, come comprendono in tanti ma a cui credono in pochi. Tra i pochi in cui realmente vi credono, vi è certamente il medico Alberto Reggiori, da me intervistato pochi giorni fa (davvero un piacevole incontro), che sabato sera, durante la stupenda serata musicale del Novelli dedicata ad AVSI, ha individuato il cuore dell’intera attività di AVSI, in questo: “puntiamo sulle persone che incontriamo, perché siano esse stesse protagoniste di una rinascita delle loro terre”.

È quanto richiamato continuamente dentro l’esperienza di chi segue don Carron, nei suoi ultimi anni di conduzione del movimento ecclesiale di CL (personalizzazione della fede). Come ai tempi di don Gius, semplicemente seguendo gesti di una comunità (alcuni proprio semplici, altri decisamente imponenti), ci si ritrova dentro il cuore della storia.

Avevo già scritto intorno alla univocità, nei differenti timbri espressivi, di personalità come Wojtyla, Ratzinger, Bergoglio ed anche tra quelle di Giussani e Carron. Agli esercizi è stata seguita proprio l’intervista a Benedetto XVI da cui traevo le mie riflessioni, in buona parte coincidenti con quanto poi delineato a Rimini, in particolare quando la misericordia è stata identificata con le “viscere stesse di Dio”.

Ma don Carron ha spinto ancor oltre, e genialmente, il discorso, mettendo in luce come don Giussani abbia raccolto la sfida contemporanea sul male, ovvero quel richiedere a Dio di giustificarsi per il male nel mondo dopo le tragedie del Novecento (alla radice dell’indifferentismo religioso), prendendola così sul serio da farla diventare metodo, accettando in questo modo pienamente la sfida che la realtà gli poneva innanzi. In lui è diventata la necessaria, e non opzionale, verifica nell’esperienza della fede («Una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe […] una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, […] dice l’opposto» – Il Rischio educativo-). Don Giussani ha contribuito in questo modo, in maniera originale (ed esistenzialmente decisiva per migliaia di giovani), al percorso fatto dalla Chiesa negli ultimi 40 anni, percorso tutto volto a rendere oggi, – in un mondo che è come è, senza pretesa né timore di evitarne la sfida – vivo ed esperibile il cuore del Cristianesimo, ovvero la Misericordia del Dio che si piega sull’umanità per sollevarla dall’atroce vuoto che si apre di fronte la domanda filosofica – ed esistenziale – cruciale. Quella che un mio alunno esprimeva un paio di settimane fa con forza a me e a un gruppetto di suoi coetanei, intenti a discutere – davanti a qualche pizza e piatto di sushi – di filosofia: “Ma stiamo ragionando di cose inessenziali. Io voglio sapere qual è la ragione per vivere. Ma voi perché vivete?”.

Il Cristianesimo intende essere semplicemente  la risposta, appassionata e commossa, dimessa e discreta, trepidante direi, di Dio stesso a questa domanda.  Non ha altro senso di esistere (non per costruire nuove Civitas, né per difendere diritti… il che è piuttosto imponderabile conseguenza)  se non nel porsi quale risposta a questa domanda.

Elisa Grimi, nell’intervista mette in luce qui lo scacco dell’ateismo (tesi portata avanti proprio da Remi Brague), citando Sartre. Un uomo che si stupisca di quale meraviglia sia uomo, è pur sempre un uomo. Dunque nulla da stupirsi che egli si celebri in siffatto modo. Obiezione che si ritrova tale e quale in Verità e Menzogna di Nietzsche, che descrive l’uomo come un essere patetico nell’universo, in quanto, destinato a scomparire dopo pochi attimi, si considera pur tuttavia al centro del cosmo. Ebbene, dice la Grimi seguendo Brague, questa posizione non può spiegare in alcun modo perché la vita sia un bene. Oggi non si può procedere, finita l’inerzia di una civitas oramai alle spalle,  senza rispondere a questa domanda, che poi è proprio quella che il mio alunno, acutamente, riproponeva, inconsapevole forse del fatto che aleggia dentro il dibattito filosofico oggi più serio e “di frontiera” (ovvero quello ben lontano dai festival filosofici a la page).

Se l’ateismo è stato tragicamente sconfitto, il cristianesimo non può evitare di confrontarsi con la stessa domanda, individuando nell’oggi, e non in una dottrina del passato, la risposta.

Siamo tutti dentro questa battaglia, appassionante e di portata epocale. Rifiutarla, per fermarsi a qualcosa di meno – sia un proprio particolare valore da sostenere, o un proprio personale punto di vista legato al passato, o altro ancora, sarebbe perdersi il meglio del nostro tormentato tempo.

 

P.S.:  questo articolo è un inno alla domanda – aperta e straziante, priva di risposte che non passino dalla propria unica e irripetibile esperienza personale, e dunque mai schematiche, mai ideologiche, né predefinite- dei miei studenti a cui va la mia più forte e viva gratitudine per averla posta e continuare a porla in ogni istante, pur in forme talora conturbanti!

 

Un cordone ombelicale che porta dentro al cuore del mondo

Un concerto per crescere nella bellezza. Crescere tutti. Sia chi è protagonista dell’evento, ovvero il grande coro di giovani e meno giovani, nato dall’amicizia del gruppo musicale Amarcanto con l’associazione dei ragazzi di Open e quella delle famiglie de Il Ponte sul Mare. Sia chi sarà al Teatro Novelli sabato 14 maggio (domani) alle ore 21 (entrata a offerta libera) per ascoltarli in concerto. Canta per il mondo, darà saggio del loro repertorio proveniente da tutte le tradizioni musicali del mondo. Ma potranno crescere immersi nella bellezza di un percorso educativo all’altezza della dignità della persona umana anche i 10 ragazzi dell’Uganda che riceveranno, grazie a quanto verrà raccolto durante la serata, la possibilità di iscriversi presso la scuola Luigi Giussani a Kampala.

È questo uno delle decine di progetti curati da AVSI e sostenuto dalle tradizionali campagne annuali di raccolta fondi, di cui il momento di sabato sera –  a cui non si può mancare – è un esempio nobile.

https://youtu.be/gra7ztp7eLw

Tre anni di concerti, in un Teatro Novelli pieno di gente ed entusiasmo, prove, lavoro, rapporti che già lasciano assaporare una novità possibile fin da subito, fin nell’oggi, e che subito si spalanca sul mondo intero fino ad arrivare a Kampala. E non solo per interposta persona. I ragazzi che avranno il sostegno di cui dicevamo sono stati incontrati via web dagli amici del coro, come rivela Buongiorno Rimini. Non sono anonime “situazioni di bisogno” ma persone vere e vive, ora amici, con cui stringere una relazione. E le relazioni,  se vere, cambiano le persone. Così i ragazzi ugandesi hanno risposto al grande coro riminese mettendo in piedi un loro coro, in un ribalzare di note, tra continenti, che ha dell’incredibile.

Ma a proposito di cambiare le persone, sabato sera ci sarà la possibilità di ascoltare anche la testimonianza di un protagonista di primo piano della straordinaria attività di AVSI. Si tratta del medico e scrittore Alberto Reggiori.

Lo abbiamo intervistato e le sue parole hanno fatto crescere in noi la curiosità di incontrarlo sabato sera.  Ecco l’intervista.

Nella foto al tavolo il dott. Alberto Reggiori in Uganda
 Al tavolo il dott. Alberto Reggiori in Uganda

Alberto ci spieghi come è nata la scelta di partire?
Eri sposato da soli due anni, immagino le cose da sistemare… e invece nel 1985  da Varese ti ritrovi in Uganda…

Tutto è nato dall’aver visto e incontrato alcuni medici missionari che in quegli anni spesso venivano a Varese a raccontare la loro esperienza. Poi ho visto partire miei amici e non ho potuto che provare una profonda invidia per loro. Testimoniavano una vita piena, vera, che ho desiderato vivere anche io. Quel desiderio, di cui mi chiedevo se fosse un mio pallino o qualcosa d più, è stato illuminato dalle parole di Giovanni Paolo II. Ad un’udienza (29 settembre 1984) che concesse alla Fraternità di Comunione e Liberazione,  ci disse “Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza e la pace, che si incontrano in Cristo Redentore”. Lì capii che quel mio desiderio era una cosa seria. Ne parlai subito con mia moglie che era del tutto d’accordo e partimmo per l’Uganda. Avevamo già un figlio…

E non ti sei più fermato…

La permanenza in Uganda fu di dieci anni circa, ma tutt’oggi uso le mie ferie per andare nei diversi luoghi dove AVSI ha bisogno. Sono stato in Sud Sudan, Iraq, Haiti, Albania, Messico…

Quale il contributo più importante che il tuo partire, ma anche il nostro ben più semplice aiuto, può offrire a queste persone? Qual è il valore di quanto si sta facendo?

Attraverso le opere che si realizzano, quello che veramente è importante, e che può dare frutti, è portare una stima e una coscienza del valore di chi si incontra. Attraverso parole e gesti concreti noi stiamo dicendo a quelle persone che valgono, che sono importanti, che le stimiamo per il loro grande valore. Si potrebbe dire oggi, nell’anno Santo, che ciò che conta è portare uno sguardo di misericordia che faccia capire all’altro che ha un valore e ha capacità di vivere. Questo è ciò che fa rinascere le persone e le fa diventare protagoniste esse stesse, in prima persona, di una ricostruzione della loro terra martoriata.

In questi anni hai incontrato situazioni difficile e dolore sconfinato. Immagino che sia impossibile reggere tutto questo senza un “ricevere”, un imparare… Che cosa hai ricevuto da questa esperienza? E quanto ricevuto là, è vivibile anche qui italia?

Ho verificato di persona che la vita è qualcosa che si guadagna dandola, spendendola. È scritto nel Vangelo, ma posso dire di averlo verificato. Ognuno può verificarlo nella sua esperienza quotidiana. Se la vita la vivi per te, la chiudi in te, il tempo te la porta via. Invece se la doni, ti ritorna molto più potente. Posso dirlo di averlo verificato in termini umani, in mille rapporti.

Tra questi l’incontro con Veronica

"La ragazza che guardava il cielo", il testo in cui Alberto Reggiori narra la storia di Veronica, madre bambina, po malata di AIDS, incontrata in Uganda
Alberto Reggiori narra la storia di Veronica, madre bambina, poi malata di AIDS, incontrata in Uganda

L’incontro con Veronica è uno di quelli che ci porteremo sempre dentro, uno di quelli in cui capisci cosa è l’essenziale. Lei ha cominciato a venire da noi quando si è ammalata di AIDS. Aveva una storia terrible alle spalle. Ha visto qualcosa di buono, ha desiderato stare sempre più con noi, fino a chiedere di essere battezzata. Dalla disperazione che viveva prima è nata in lei una speranza. E attorno a questi rapporti anche la mia vita è rifiorita, la mia e quella della mia famiglia, compresi i rapporti tra me e mia moglie, perché ovviamente ci sono stati momenti non semplici.

Quale il momento più difficile?

Quando arrivò la guerriglia, la situazione era diventata pericolosa per le famiglie. Erano nati altri miei figli là (ben tre nacquero in Uganda ndr) e non era sicuro rimanere per loro. Così -eravamo tre o quattro famiglie-  decidemmo di rimanere solo noi medici. Il distacco è stato duro per tutti.

Invece il momento più bello, più commovente?

Sicuramente la visita di Giovanni Paolo II. Quando venne in Uganda, per un caso fortuito potemmo anche dialogare con lui.

Qual è, in questo momento, la frontiera più delicata su cui operare? 

AVSI ha deciso di dedicare tutti i suoi sforzi quest’anno ai profughi, in particolare i cristiani perseguitati nel mondo. L’intervento è rivolto sia ad alleviare le condizioni di vita nelle loro terre, dove spesso hanno perso tutto, sia nei centri di accoglienza qui in Europa. Vi sono tantissime iniziative di aiuto sparse in tutta Italia. Questi uomini, nostri fratelli, hanno perso tutto per non perdere la loro fede.
La serata di sabato 14 si prefigura davvero interessante dunque. Alberto Reggiori, dicevamo, oltre che medico è un ottimo scrittore. Abbiamo già parlato de La ragazza che guardava il cielo (di cui vi proponiamo qui il video della presentazione fatta al Meeting di Rimini nel 2011 a cui partecipò anche Veronica – visualizzare a partire dall’ora  1,01).

 

Oltre a questo libro ha pubblicato Dottore è finito il diesel, dottore_1in cui narra la realtà in cui ha lavorato in Uganda e Fatti vivo, libro in cui si narrano vicende terribilmente personali.

Storie di sofferenze, riguardando i drammatici fatti che sono incorsi a suo figlio Giulio, per tanti versi così simili a quanto accaduto ad Antonio Socci con la propria figlia Caterina.

La prefazione Fatti vivoFatti-Vivo-Reggiori(1) è stata scritta proprio da Socci. Sofferenze che tuttavia vengono superate e travolte da una sorprendente e sovrabbondante luce.

Quella che desideriamo incontrare domani sera al Teatro Novelli.

Ci si vede lì!

 

 

P.S.

Alberto Reggiori ha tenuto diverse conferenze in Italia. Oltre alle due partecipazioni al Meeting (2005 e 2011) abbiamo ritrovato in rete, tra gli altri, anche questo incontro a Cesano Boscone. La registrazione è amatoriale, ma la testimonianza di Alberto è di alto profilo. La proponiamo qui a conclusione del nostro articolo.

 

La presenza di un uomo buono

don giuseppe maioliQuesta notte è tornato tra le braccia del Padre don Giuseppe Maioli. Raramente ho visto una persona come lui, testimone di un rapporto buono con le cose e soprattutto con le persone. Una bontà profonda, quasi insondabile, che colpiva subito, al primo udire la sua voce,  pacata e misurata ma piena di passione per tutto ciò che è bello, vero e buono.

Don Giuseppe era amante della bellezza come pochi. Celebre la sua cura maniacale nell’insegnarci, a noi giovani studenti affascinati dal carisma ecclesiale di Giussani,  i canti di montagna o il gregoriano. Ne usciva alla fine, dopo quarti d’ora di prove e ripetizioni – e correzioni minute- un canto (talora in centinaia radunati in saloni o sulle cime in montagna) di una bellezza unica, che ti portavi dentro per sempre.

Don Giuseppe era responsabile di Gioventù studentesca di Rimini, quando io vi entrai. Se il mio riferimento primo, e per me decisivo, era don Mario Vannini, docente di religione al Serpieri, il mio liceo, don Giuseppe rappresentava l’immagine incarnata, immediata, semplice e spontanea, di questa accoglienza sconfinata del Mistero, di questa bontà segreta nascosta nelle pieghe della realtà.

Questo inverno, rivedendo con i miei studenti Le vite degli altri, ed ascoltando la  Sinfonia per un uomo buono (la musica che induce al cambiamento la spia della Stasi) non ho potuto non pensare immediatamente a lui, già gravemente malato.  Il brano musicale esprime bene l’idea di questa bontà non banale, di questa pace densa del tumulto dell’animo proprio di quegli uomini che sono in cerca dell’infinito.

Durante l’autunno l’avevo di nuovo incrociato più da vicino, per un’occasione speciale. Aveva amato moltissimo il libro Voglio tutto, contenente gli scritti di Marta che avevo curato. Volle presentarlo alla sua nuova Parrocchia. Disse che, per quel che stava vivendo, il libro gli aveva fatto molta compagnia.ebook voglio tutto

Era la compagnia non di un semplice libro, ma la compagnia del Mistero stesso, quello che in tanti giovani riminesi abbiamo proprio imparato da lui e che lui re-imparava continuamente da chi si era incamminato sulla stessa strada. Credo che questo sia la Chiesa. Credo che questo sia il cuore del movimento di Comunione e Liberazione in cui entrambi ci siamo ritrovati: un luogo dove si sperimenta inaspettatamente -anche attraverso la malattia- l’abbraccio del Padre.  Quell’abbraccio del Padre che per lui ora è definitivo.

Grazie di tutto don Beppe e continua a starci vicino come tu sai!

(Questa sera 14 aprile alle ore 21 vi sarà una veglia presso la parrocchia di S.Ermete, domani sera 15 aprile alle ore 21 presso la parrocchia della Riconciliazione e sabato mattina 16 aprile i funerali presso la Rinciliazione alle ore 9,30)

 

Il Canto che potete ascoltare qui sotto, raccolto da Marina Valmaggi, è stato composto da don Giuseppe mentre era un giovane seminarista (fine anni ’60). Uno dei tanti canti amati dalle comunità di CL e divenuto noto in tutta la Chiesa. Un giorno, ad una vacanza dei ragazzi di GS del giugno del 2011, ero in pulmino con lui e mi chiedeva di raccontargli gli esercizi spirituali nazionali dei ragazzi, che si erano svolti un paio di mesi prima a Rimini in Fiera (2011). Gli raccontai di un filmato sullo Tsunami in Giappone, e di come si prese spunto per interrogarsi su quale roccia poggiare la propria vita. Gli raccontai poi che subito dopo il video, terribile, si eseguì il suo canto, “Se il Signore non costruisce la città”. Con un sorriso, simile a quello di un bambino, esclamò sorpreso, “Ma davvero! Lo si canta ancora! Che bello!”  Era lieto. Semplicemente, puramente, totalmente lieto di poter servire in tutto la Chiesa. Anche con questo suo bellissimo canto.