La vittoria di Charlie Gard

Un paio di giorni fa Charlie Gard è volato in cielo. I genitori hanno rinunciato a procedere nella loro battaglia, riconoscendone l’impossibilità. L’ospedale ha proceduto secondo le proprie prerogative.

Non ci interessa, qui, proseguire una battaglia che è stata irta di malintesi e banalità, che abbiamo in parte documentato in due lunghi articoli (leggi il primo e il secondo). Malintesi e banalità che fan fuori una complessità che il dialogo con alcuni amici, tra cui medici e persone appassionate alla vita ed alla vicenda, ha confermato e che la Chiesa stessa riconosce in questi casi, come gli articoli del Catechismo voluto da Ratzinger attestano (si veda art. 2278 e 2279 del Catechismo), lasciando margini di azione terribilmente ampi, tutti in mano ai medici ed ai famigliari.

Vogliamo porre lo sguardo su quello che realmente e profondamente è accaduto.

Da una parte, ancora una volta, si è affermata la tragedia che riguarda ogni uomo. La sconfitta delle proprie aspirazioni, la prova fattuale che “non ce la possiamo fare”. La morte è il riscontro sicuro e oggettivo di questa impotenza a realizzare i propri desideri.

Con la vicenda di Charlie Gard si è visto, tuttavia, anche altro. Si è visto che il desiderio dell’uomo di vivere, di amare, di combattere è potente. È capace di stringere insieme migliaia e milioni di uomini. I genitori di Charlie sono stati la testimonianza di questa forza e in tantissimi ci siamo stretti attorno a loro (pur con diverse valutazioni sulle opportunità da seguire, sulle quali i medici stessi si sono trovati divisi, anche a causa del condizionamento mediatico), commossi per questa tenacia e questo amore al proprio figlio.

Viene in mente il Leopardi della Ginestra, il Leopardi del titanismo, che piega il suo pessimismo verso un volontaristico e imponente sforzo di compassione e un appello all’unione del genere umano per combattere contro la natura matrigna.

Ma resta la domanda. È una battaglia che può essere vincente? La risposta è chiara. No.

Vengono in mente i miti del Foscolo (unica consolazione per l’uomo, destinato al nulla), oppure, in tempi più recenti la bella canzone di Guccini, Le cinque anatre. Se anche una sola continuerà il suo volo, mentre le altre 4 cadono, questa sarebbe la prova che “si doveva volare”. Il problema è che neppure quell’unica anatra, nel nostro caso, può continuare il volo per raggiungere il suo Sud.

Ma allora che significato ha la tenacia dei genitori e la commozione del mondo intero (commozione capace di muovere perfino i potenti)?

A chi non si accontenta di miti, sia il mito pro-life (che cancella i dati della vicenda nella sua complessità – si veda da ultimo la dichiarazione del GOSH del 23 luglio per capire quanta demagogia si sia messa in campo) -, sia il mito dell’eliminazione del dolore e della morte (che non disturbi i passanti, per carità, che non susciti troppe domande), resta una sola soluzione.

La soluzione è quella di non deviare l’urgenza della domanda che Charlie testimonia: a che vale la vita?  Perché il grande spettacolo della vita, se poi ci viene improvvisante portato via?

Di qui  la necessità – di cui dicevamo a margine dei precedenti post – di poter sperimentare da subito scintille di resurrezione, ovvero di vittoria.

Costruire luoghi dove è possibile sperimentare da subito la vittoria sulla morte, dove tale vittoria è altrettanto quotidiana e reale quanto la presenza della morte che ci pervade, è la vera buona battaglia. Luoghi che diano senso e speranza anche alla tenera e cara vita di Charlie, e senso e speranza al dolore di quanti lo hanno amato così fortemente.

Lo ricordava don Giussani, nel 1982, come cifra risolutiva per la vita di ognuno.

« “Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede”. Questa è la vittoria che vince l’inesorabile degradazione verso la morte, la mortificazione della vita, l’anticipo del sepolcro che è l’abitudine: la fede, il riconoscimento di qualcosa che accade, di ciò che accade, del senso della vita che accade, di Cristo che viene tra noi». (don Giussani, Una strana compagnia).

La nostra fede, come reale riconoscimento di un avvenimento, e non miti (progressisti o conservatori, pragmatici o valoriali) creati da noi e che inesorabilmente saltano la realtà nella sua fattualità (rende in bianco e nero ciò che è pieno di sfumature). Quella realtà che dobbiamo imparare ad avere il coraggio di amare.

Per questo serve , oggi più che mai, l’intelligenza della fede, affinché si abbia finalmente il coraggio di guardare ciò che c’è, senza sogni e aggiustamenti.

Amare la complessità

Io non so niente
ma mi sembra che ogni cosa
nell’aria e nella luce
debba essere felice

Credo che se c’è una cosa che insegna la vicenda del piccolo Charlie, sia proprio questa: imparare ad amare la complessità.

Le semplificazioni e le battaglie in nome di certezze preventive hanno generato interventi in rete, ed anche sui giornali, di cui non si avvertiva onestamente il bisogno.
In una vicenda in cui i colpi di scena si avvicendano a cadenza quotidiana (tanto la vicenda medica e giuridica è intricata per chi non possieda la cartella clinica di Charlie), occorre prudenza e attenzione vigile. Ultimo, tra i colpi di scena, è la richiesta dei medici del Great Ormond, l’ospedale dove è in cura Charlie, di riaprire la questione, rivolgendosi all’Alta Corte inglese per riesaminare il proprio giudizio alla luce delle richieste dell’ospedale Bambin Gesù del Vaticano. (Si legga qui). E speriamo che si aprano davvero speranze, per quanto la luce sia flebile.

Bisognerà seguire la vicenda dunque, ora per ora, per capire di più e meglio.

È sempre più chiaro che la grossolana mole di certezze che, da una parte come dall’altra, ha caratterizzato il dibattito è veramente inappropriata e sbagliata come approccio.

E mi ci metto dentro anche io (che pur mi son preso del “Pilato”, “traditore” e quanto altro potete immaginare di bassissimo e nefando, per aver osato avere dubbi e cercare di riflettere). Malgrado il lunghissimo post di un paio di giorni fa, frutto di giorni di letture e riflessioni, ancora molto sfuggiva. Il post è stato però l’occasione, quale onesto tentativo di comprendere, per risposte e approfondimenti importanti, di cui ringrazio i lettori (e invito a leggere i commenti, preziosi in coda al precedente articolo).

Mi sfuggiva ad esempio la lunga intervista a Colombo che avevo letto e apprezzato ma non adeguatamente interiorizzato e fatta mia. Oggi molti amici si chiedono quali siano le coordinate (sia mediche, che etiche, che teologiche) della questione. Credo che l’intervento di Colombo dia il contesto giusto e vada preso come linea maestra per ogni successiva discussione. Bisogna avere la pazienza di leggerlo tutto fino in fondo (in particolare al punto “3” senza fretta. (Si legga qui)

Anche l’intervista al  dott. Cesana su Il Foglio, permette di comprendere  quanta prudenza occorra avere. Si rompono dunque anche schemi consolidati, nel panorama del “mondo cattolico” tra i cosiddetti “battaglieri”, e fedeli alla linea, e le “colombe” (categorie idiote per il mondo cattolico, dove la più grande battaglia è quella dell’agnello immolato, ovvero Cristo). E meno male che gli schemi si rompono.  (Si legga qui Cesana)

Il problema vero è riconoscere e dare credito a quelle “scintille di resurrezione” di cui parlavo nell’articolo precedente, vero aspetto interessante e pertinente (resurrezione da non ridurre a una “posizione per cui combattere”). Scintille presenti nell’attività di tanti medici, tra cui la dott.ssa Parravicini, ma attestata anche dalla bella lettera di Valeria Bertilaccio.

Ma perché questo accada occorre amare la complessità. Non ridurre la realtà al “già saputo”.

Ma a quale condizione è possibile amare la complessità?

C’è solo un modo per potersi addentrate nella realtà senza aver timore che questa ci porti via speranza, vita, valore. Occorre “credere” che la realtà sia densa di significato, comunque si ponga, in ogni suo aspetto. Un “credere” che diventa esperienza ragionevolmente fondata nell’incontro con Cristo, laddove si scopre che il Logos si è incarnato ed è la stoffa di cui è fatta la realtà (“la realtà invece è Cristo”, San Paolo).

Pertanto, se proprio all’interno di media cristiani si sono aperte battaglie grossolane (e tardive, ci ricordano amici che vivono a Londra), – magari da parte di tanti ingenuamente- è per poca fede e non per urgenza della fede. La battaglia che la realtà ci chiede, per uscire dal vortice del nulla, è un’altra.  È la domanda di esistenza, di vita, dell’esserci. È la preghiera perché Charlie  e la sua famiglia si salvino (dalla morte, prima che non dai tribunali).  Lo aveva capito perfettamente Giorgio Gaber, a cui ieri abbiamo dedicato, con gli amici del Centro culturale Il Portico del Vasaio, una serata conviviale di ascolto e di riflessione. In Io e le cose afferma “Io non so niente / ma mi sembra che ogni cosa / nell’aria e nella luce / debba essere felice.”

Per il resto, prima di brandire “casi” come armi per sostenere una propria idea, occorre passione per capire, certi che la realtà non tradisce.

E questa è la fede che ho imparato da Giussani che in fin di vita sostenne, “la realtà non mi ha mai tradito”.

I nuovi complessi problemi etici che si sono aperti da tempo, potranno generare nuove soluzioni di pensiero, solo a partire da questo, laico e di fede (ovvero pienamente razionale), approccio.

È per questo preziosa l’ “altra parte” del dibattito. Quella fatta di ricerca, richieste di chiarimento, lettura appassionata, attenzione ai dati. Una ricerca che ha portato a nuove e più consapevoli domande che oggi richiedono  risposte decisamente urgenti.

L’intensificazione di questo lavoro di “presa di coscienza” è sicuramente generativo di una nuova speranza.

https://youtu.be/trg8sx5J_HE

 

 

Charlie e quel mistero insondabile che è la (fine della) vita

La vicenda di Charlie Gard ha aperto ferite. Domande (molte) e risposte (poche, ma ne emerge una assolutamente decisiva e va guardata con reale interesse). Emerge una diversità di opinioni. Battaglie non esattamente sacrosante e battaglie invece profonde e vere, ma salvo alcuni casi soffocate da un senso di enorme, ed inerme, impotenza.

Senza dubbio la domanda più grave è il significato e il senso di tutto quanto è in gioco. Ha senso una sentenza che non accoglie la volontà dei genitori di tentare tutto perché il proprio figlio viva? Ha senso il precedente veto dei medici ad operare scelte da parte della famiglia per una nuova “cura”? Ha senso tuttavia perseguire una “cura” che si affermi come non produttiva se non di nuovi dolori (così dicono con diversi livelli di certezza)? Ma perché negarne la possibilità? E perché lottare così tanto per un figlio che “non ha futuro”? E poi, oggi terribilmente urgente, che cosa è eutanasia e cosa accanimento terapeutico?

E soprattuto dove consiste il valore di una vita?

Ad alcune di queste domande, risposte sono giunte, ad altre no.  Ci sono dati che, peraltro, il clamore mediatico non ha messo bene in rilievo. Tra l’altro ringrazio le obiezioni di alcuni miei alunni, ora studenti di medicina, e di alcuni colleghi, perché mi hanno aiutato ad andare più a fondo. Premetto che di tutta la vicenda e delle risposte che mi sono state date, c’è qualcosa che proprio non torna ancora. In sostanza ritengo che “staccare la spina”, di fatto,  non sia una risposta ma un cedimento. Necessario? Opportuno? Comunque un cedimento, una sconfitta di fronte a “quella battaglia che nessun uomo potrà mai vincere” (Springsteen). Occorre capire se ci sono margini di speranza su questa battaglia, che in fondo è quella di tutti. Solo così sarà possibile illuminare di una luce diversa anche la vicenda di Charlie. Occorrono scintille di resurrezione perché altrimenti non è fottuto solo Charlie, ma anche tutti noi.  Questa storia mette a nudo questa terribile verità. Siamo ingannati dalla vita o questa ha un senso (malgrado tutto, ma proprio tutto, anche malgrado, e dentro, drammi come quelli di Charlie)? L’amarezza della canzone di Springsteen fotografa la stessa amarezza che proviamo di fronte a Charlie. Ma questa è specchio della nostra vita, delle nostre giornate.

Senza arrivare a questo punto, si produce ingiustizia, anche sostenendo le idee giuste, È così ingiusto (moneta di segno opposto ma dello stessa natura di chi propaga la morte)  fare battaglie senza conoscere i dettagli e l’unicità di questo caso. Anzi l’unicità di tutti questi casi, avendo connotazioni veramente delicate, come dimostrano gli interventi di numerosi medici cattolici – anch’essi divisi nelle opinioni –  e come dimostra la pratica effettiva in tanti ospedali cattolici. A dimostrazione del fatto che il problema ha una sua delicatezza tutta particolare e che le questioni che si aprono sono nuove e prive di risposte pre-definite, pur entro l’alveo certo che ha chiarito il Papa:  si lotta per la vita, non per altro.

Alcune risposte, dal punto di vista giuridico, vengono da Ilaria Bertini che, da Londra, in questo non facile articolo chiarisce la complessità di come sia nato il “caso” giuridico, con passaggi sulla patria potestà e sulla posizione iniziale della famiglia, utili per capire meglio (ma non tutto viene ad essere illuminato) che nel concreto di questo caso non si tratta di compiere una divisione manichea tra “buoni” e “cattivi”. Il testo integrale della sentenza della Corte europea è poi stato pubblicato, in inglese, dall’amico Paolo Facciotto. Sempre da Londra, anzi dall’ Ormond Street Hospital, dove è accolto Charlie, proveniva una lettera di un’infermiera, Letizia Zuffellato, che sostanzialmente difendeva l’operato dei medici di un ospedale che – ricordiamolo – è considerato un’eccellenza, aprendo nuove e più ampie considerazioni (decisiva quella relativa all’impotenza di fronte al desiderio di tenere in vita un proprio figlio).

I due interventi hanno suscitato una marea di critiche, a volte virulente (veri e propri insulti), segno di quanto la vicenda sia importante e sentita, ma anche di una reattività, istintiva e violenta, a volte non comprensibile, sicuramente non tollerabile.

Se le due lettere sono state oggetto di una sorta di ostracismo, tuttavia, sul sito Vita.it, una realtà non esattamente anti-vita ovviamente, è ospitato l’intervento di Alessandra Rigoli, dottoressa cattolica, che si schiera con i medici londinesi, a partire dalla sua esperienza personale e spiegando perché non sarebbe in questo caso “eutanasia”.

Dall’altra parte si legge su Avvenire di un caso, definito analogo a quello di Charlie, in cui il bambino, anziché i pochi mesi di vita diagnosticati, ha già raggiunto i nove anni e la madre testimonia la positività della loro esistenza, pur segnata dall’inabilità totale.   Torna a parlare del caso italiano (il bimbo è soprannominato Mele) Il Sussidiario, con un articolo più ricco di dettagli. Si apprende che al momento in Italia non si sarebbe potuta creare la situazione inglese («In Italia la legge vieta l’interruzione delle cure nei bambini senza il permesso dei genitori. Questo diritto diventerebbe, anche da noi, molto più incerto se passasse la legge sulle DAT in discussione al Senato») e che una cura sperimentale negli USA in realtà è in atto, e dunque potrebbe essere un’opportunità. Dato che, invece, da altri (dai “tribunali” inglesi ed europei, ma anche da medici cattolici) viene del tutto negato.

Appare chiaro che forse non ci si stia intendendo su numerosi dettagli, ma forse non ci si intende su che significhi “vita” .

Mele, Emanuele Campostrini,  intanto, a dispetto della diagnosi delle prime settimane, va a scuola (vedi l’articolo integrale). La famiglia Gard e la famiglia Campostrini (che aveva inviato un video appello perché si lasciasse vivere Chiarlie) si sentono quotidianamente.

In rete si trovano numerosissimi altri articoli, espressione delle due direzioni di opinione.  Sempre Vita.it ricorda, intervistando Luca Manfredini, referente per la terapia del dolore e cure palliative dell’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova, che in Italia i bambini che necessitano di cure palliative (che non hanno speranza di guarigione) sono 35mila e solo il 15% ne può usufruire. Fatto di cui nessuno si occupa.  Cure palliative, non eutanasia. L’eutanasia non può mai essere contemplata – al contrario di come sembra affermare la legislazione belga, contro cui si è scagliato l’International Children’s Palliative Care Network (ICPCN) – come opzione percorribile in questi casi.

Ma è questo il caso di Charlie? Alla fine dell’articolo  si chiarisce la questione ricalcando la posizione della dott.ssa  Rigoli. (Si veda qui per intero l’articolo). Il finale tenta di chiarire uno dei grandi dilemmi: «nessun intervento medico è consentito a meno che i suoi vantaggi non superino i danni. Quando la cura non è più possibile, tali benefici e danni devono essere considerati in senso ampio, in un modo che comprende anche gli interessi emotivi, psicologici e spirituali così come quelli fisici. Poiché è la famiglia dei bambini che li conosce meglio, tale considerazione si basa sulle discussioni tra la famiglia e il team sanitario (e quando possibile, il bambino stesso) per stabilire se gli interventi sono equilibrati e nel migliore interesse del bambino. Quelli che non lo sono – cioè il cui danno supera i benefici – dovrebbero essere interrotti o evitati. Questo non costituisce eutanasia».

Come si vede la questione è estremamente complessa (ma sarebbe un errore grave avere paura della complessità) e non sono giustificate battaglie all’arma bianca, mentre risultano a dir poco sconsolanti i tentativi di far apparire silenti e assenti le istituzioni della Chiesa da parte di  “ultras cattolici”, tirandole per la giacchetta. In tal senso si veda il solito Socci che conclude il suo articolo con l’umile e  devota espressione, “un Papa vero non si comporta così”. In realtà già i vescovi inglesi erano intervenuti, così come mons. Paglia e lo stesso presidente della CEI Bassetti e mentre Socci si apprestava a pubblicare le sue parole di fuoco, il papa interveniva con un tweet a cui è seguito un comunicato tramite il suo portavoce (si veda qui). La posizione del papa è quella della difesa della vita e della relazione di Charlie con la propria famiglia (ma su questo pare che essi abbiano perso la patria potestà nel momento che sono entrati in contenzioso con l’ospedale, come prevede la legge inglese – vedi articolo Bertini-).

Intanto il fronte della certezza negativa sul destino di Charlie si rompe e, come riporta Il Sussidiario, “il presidente dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, Mariella Enoc, ha confermato la disponibilità ad accogliere Charlie Gard”. Vi sono contatti in corso per salvargli la vita e si è interessato persino il presidente americano Donald Trump. Anche il ministro Lorenzin si è complimentato con l’ospedale vaticano. Improvvisamente la questione sembra prendere un’altra luce. Sono così certe le prime evidenze mediche?

È certo che una cultura che avanza l’eutanasia come soluzione rapida e indolore ai drammi della vita esiste e intende porsi senza mezzi termini come risolutiva per tante situazioni delicate, dove la vita è più fragile.  Paolo Vites, il 28 giugno, ha riportato l’opinione dello scienziato ateo Dawkins, a riguardo dell’aborto. Dawkins sostiene che un feto umano è meno simile ad un uomo adulto che non un maiale adulto. Un modo di esprimersi che indica la presenza di una cultura che ha smarrito il valore della vita umana, il suo mistero, la sua preziosa unicità, e che va fortemente combattuta.

L’orrore che nasce da alcuni passaggi della vicenda di Charlie è il timore e l’impressione che si stia aggiungendo un tassello verso questa direzione, definendo e delineando quelle che sono considerate “vite indegne di essere vissute”. Un pensiero oggi diffuso nella mente di tanti, senza comprenderne la vera barbarie, del tutto analoga a quella nazista. In tal senso è assai significativa l’opposizione del vescovo di Munster, Von Galen, e di tutto il popolo della sua diocesi al programma di eutanasia di Hitler, il terribile programma AktionT4.

Le avvisaglie di questa “cultura di morte” sono state messe in luce da lungo tempo. In occasione del dibattito intorno al caso Eluana, l’associazione riminese Hannah Arednt invitò il dott. Mario Melazzini, malato di SLA. Durante la conferenza si espresse provocatoriamente, affermando che nella sua situazione non era preoccupato di “aver diritto a morire dignitosamente” (come allora si chiedeva da più parti alla legislazione italiana), bensì di aver diritto a vivere, poiché in tanti paesi, specie di cultura anglo-sassone, non si curano più i malati terminali; le loro cure sono ritenute costose e inutili, e li si lascia morire. Parole che paiono profetiche.

Melazzini, poi, sempre a Rimini, presentando un suo libro al Meeting, affermò “Quando mi hanno comunicato che avevo la Sla ho pensato che di questa malattia si muore. Ora mi rendo conto che il mio male mi ha dato più di quanto mi ha tolto ed è questo sguardo che voglio dall’infinito. Apprezzare con gioia la vita, ma con la consapevolezza del Mistero che ci circonda… anche su una sedia a rotelle non si smette mai di cercare”. Una cultura che non riconosce più il valore della vita, anche nella malattia, esiste e c’è chi la combatte mostrando che la vita c’è dove meno te l’aspetti.

Sarebbe invece grave prendere a pretesto questo caso, per innescare una presunta “battaglia di popolo”.  È una posizione rischiosa, perché prevale un progetto sulla presenza di una vita (una e irripetibile), che c’è ed è il vero punto di rinascita, il quale non potrà consistere in una nuova presunta cultura, nata sull’onda emotiva di un fatto così straziante, e non dalla reale presenza di vita rinnovata.  In tal senso occorre, in primo luogo, recuperare un reale senso del valore dell’esistenza. Non di una concezione dell’esistenza ma dell’esistenza stessa. Alcuni fatti sono d’aiuto a capire questo ultimo punto e la possibilità di una svolta in questo dibattito.

Il primo fatto è che se migliaia di persone si sono stracciate le vesti di fronte alla sorte di Charlie, un’amica che vive a Londra mi scrive un paio di giorni fa: “La cosa più triste per me è la solitudine dei genitori, su cui certo anche qualche medico ha le sue colpe, come poi è emerso dalla sentenza. (…) Non c’era nessuno davanti all’ospedale. Tutti su Facebook a fare crociate.”

Un’annotazione semplice ma di importanza capitale.

La comprendiamo meglio se leggiamo la bellissima lettera della dott.ssa Eugenia Parravicini, medico nel reparto di patologie neonatali, in un importante ospedale di New York. Una lettera che ha un tenore differente, vivo e positivo,  e che prende maggiore significato se letta alla luce dell’attività della dott.ssa Parravicini, che ben si può desumere da questo  video, che mostra cosa stia facendo a New York. Scintille di resurrezione.

 

 

È qui, su questo fronte del riappropriarsi della vita e del suo insondabile mistero, che si colloca la riflessione di Prosperi e del dott. Corsi, pubblicata , come lettera, qualche giorno fa sul sito di CL.

Evitando di considerare la storia di Charlie come un’arma da scagliare contro la “cultura della morte” (Charlie non è un’arma, Charlie è lui, è terribilmente malato e il suo destino è misterioso), offre i criteri per un giudizio (la difesa della vita e il valore della relazione con i genitori) ma soprattutto rilancia le domande che sono sottese da questa terribile vicenda. Domande sulla morte e sulla vita.  Domande che trovano una risposta in quello che la Parravicini ha costruito, esprimendo un’indomabile esperienza di vita. Che sperimenta concretamente che significhi sperare contro ogni speranza.

Senza questa esperienza, senza questi sprazzi di resurrezione, ogni battaglia è perduta in partenza. Avrebbe terribilmente ragione Springsteen, geniale laddove afferma che “c’è qualcosa che muore per strada questa notte. Quando la scommessa viene infranta, (…) questo ti ruba qualcosa dal profondo dell’anima. Come quando viene detta la verità e questa non fa alcuna differenza e qualcosa nel tuo cuore diventa di ghiaccio.”

Senza sprazzi di resurrezione saremmo di ghiaccio e privi di vita, già sconfitti, sia sul fronte pro-life che sul fronte di coloro che vogliono staccare la spina, anzi tante spine. Quelle spine che ci ricordano le parole del preconio pasquale: “Nessun vantaggio per noi essere nati, se Lui non ci avesse redenti”.

Come non diventare di ghiaccio di fronte ai duri colpi della vita e mantenere vivo il “sogno della giovinezza” (Giovanni XXIII)?

È la questione che solleva il dramma che sta vivendo Charlie. Un dramma che, nascosto tra le apparenze del quotidiano, è in realtà dentro ognuno di noi in ogni frangente delle nostre giornate.

 

“È Misericordia il senso ultimo del Mistero” (don Giussani)

Anche le recenti polemiche sui fatti di Manchester, in casa cattolica, possono aiutarci a capire meglio ciò per cui viviamo. Un’occasione per riflettere pacatamente e ripartire.

È senza dubbio con dispiacere che vedo, di fronte ad eventi così gravi come l’eccidio di Manchester, prevalere in alcune discussioni, il gusto della polemica e delle analisi, anziché sostare, almeno per un attimo, sul dramma che stiamo vivendo. Morti giovani, morti gratuite, il male orribile che si innalza sulla scena di quella che doveva essere vita  e invece diviene morte. Tutto questo può essere spunto per battaglie, giudizi, considerazioni polemiche su una battaglia culturale e di civiltà, rilanciando -come è stato fatto con ironia e una punta di disprezzo- il tema dello “scontro di civiltà”?

Per quanto possa essere sacrosanta la battaglia, è questo il momento, è questa l’ora? Non ci riduce al metodo proprio di un Saviano qualsiasi ? (si veda al link la polemica sulla liberalizzazione della droga).

Tutto si decide nel momento e nell’ora. Più che non nei nostri concetti.

Ha colto bene questo punto (il vero motivo delle irritazioni nate di fronte alla lettera di mons. Negri, a cui va dato atto di aver espresso in ogni caso il desiderio di non rimanere indifferente al male che accade), il giornalista Luigi Geninazzi che risponde in maniera sanguigna su Facebook ad un articolo di Riccardo Cascioli che lo attacca, perché non entra a far parte della sacra battaglia.  

“Caro Riccardo, nessun travisamento. Le parole di m. Negri sono chiarissime. E indecenti: “Avete vissuto male ma avrete un ottimo funerale”. Ti piace questo sarcasmo rivolto a bimbi e adolescenti morti a Manchester? Che ne sa mons. Negri di loro? Magari c’erano anche credenti. In ogni caso, dire che sono “vite sprecate” non consolerà certo i genitori e i nonni di quei ragazzi. Secondo te un simile giudizio avvicina la gente a Cristo? E non venirmi a citare Biffi, il giudizio sulla nostra società scristianizzata ecc ecc, tutte cose che condivido. Ma se questo si traduce nel “Avete vissuto come poveri coglioni e siete morti da coglioni ad opera di un coglione”, allora siamo decisamente fuori strada. Non cercare di difendere l’indifendibile, per favore.”

 Ma ancora di più si veda  Marina Corradi, che risponde ad un lettore su Avvenire.

Non è questione di essere più o meno misericordiosi, più o meno volti alla verità o alla bontà (che ben sappiamo non si possono distinguere),  ma è questione di chiarire ciò verso cui stiamo camminando, per cui anche questo doloroso fatto è un passo.

Quid est veritas? Est vir qui adest.  Fuori di questo nessuna speranza.

Perché accade che affermando vigorosamente “ragioni”, si affermi in realtà il contrario e si alimenti, pur con un volto differente, il medesimo vuoto (in un gioco dialettico che farebbe la felicità di un Hegel o di un Marx)? Possiamo uscire da questo circolo che  azzera l’unica risposta che – come cristiani e uomini –  abbiamo da offrire alle vittime e all’uomo di oggi (egli stesso vittima) di una logica di morte?

Guardando a come don Giussani  in situazioni analoghe reagiva, occorre innanzi tutto osservare che il contraccolpo immediato era del tutto differente. Un silenzio attonito – salvo poche e ben poco autorevoli voci – permeava il sentire comune, anche di chi pure partiva da posizioni del tutto lontane. Mi riferisco al Giussani maturo, capace di rompere il silenzio mediatico in cui era confinata la Chiesa con incredibile forza comunicativa, priva di ogni ombra di contrapposizioni artificiose.  Si prenda ad esempio, il discorso diffuso sul tg2 in occasione della strage di Nassirya. Merita di essere riascoltato.

Quel che emerge in quelle parole è commozione per la miserevole condizione umana (di tutti) e la parola misericordia risuona in più passaggi  Lo spunto sono le parole della vedova Coletta, che perdonò gli assassini del marito carabiniere.

Ma proprio pochi giorni fa abbiamo postato su questo blog il video con le parole di una donna, vedova per l’attentato in Egitto ai cristiani copti. Stesso impeto e autorevolezza.

Si ricorderanno anche le parole di don Giussani, dopo la tragedia delle Torri gemelle, al responsabile di CL degli Stati Uniti che le trascrive e diffonde agli amici. “Noi dobbiamo tener saldo il nostro giudizio e paragonare tutto con quello che ci è successo, in questo momento grave e grande… Dobbiamo ripetere questo giudizio prima di tutto a noi stessi. Questo momento è almeno grave quanto la distruzione di Gerusalemme. E’ totalmente dentro il Mistero di Dio… Tutto è segno…Preghiamo la Madonna…L’ultima definizione della realtà è che essa è positiva e la misericordia di Dio è la più grande parola. Questo è certo, occorre rimanere saldi nella speranza. Grazie a ognuno, uno a uno, per essere là”.  E successivamente il telegramma a Bush, in cui assicura che tutti i membri di CL sono “vicini a Lei in un momento così doloroso per tutta la Nazione – e quindi per tutti gli uomini – per i tragici fatti di New York e di Washington DC, terribile affronto alla dignità dell’uomo”. Ed assicura la preghiera “per la Sua persona e per il Suo popolo affinchè insieme possiate raggiungere quella giustizia pacificante di cui avete sete e di cui tutto il mondo ha bisogno, dato il compito storico che gli Stati Uniti d’America hanno nei confronti di tutti”. E poi la frase posta sulla copertina di Tracce di settembre,  dettata da Giussani:  “Dio salvi il mondo. Se si mette Dio di fronte a tutti i peccati della Terra, sembra ovvio dire: “chi potrà sussistere? Nessuno si può salvare” E invece Dio muore per un mondo così, diventa uomo e muore per gli uomini. È misericordia il senso ultimo del Mistero: una positività che vince la presunzione e la disperazione”. E il Tracce di novembre riporta questa ulteriore frase di Giussani “Se altri giungono fino al terrorismo, noi dobbiamo giungere fino a una coscienza che sopporta le estreme conseguenze della vita che il Signore ha creato. Questo è il contributo che i cristiani portano dentro il tante volte incomprensibile marasma del mondo:  l’affermazione di una inesorabile positività per cui si può sempre ricominciare nella vita” .  (Testi tratti da A. Savorana, Vita di Giussani).

Una forza che sbaraglia, ammutolisce, non genera alcuna polemica, non implica alcuna reazione dialettica. Semplicemente lascia ammutolito chiunque, qualunque idea abbia.

Ciò che genera questo giudizio, che ha i tratti di una novità e di una forza assoluta, si trova in quel sentirsi “come anfora vuota alla fonte” che Giussani ci ha insegnato in maniera continua e insistente. È questo senso, e sgomento, dell’esser nulla di fronte al tutto  che eventi come quello dell’altro giorno rinnovano drammaticamente. E, in questo ritrovarsi nulla di fronte al tutto, scopriamo di essere assieme -per un attimo-  a quel mondo così apparentemente lontano. È l’esperienza della povertà suprema, unica condizione per un incontro (oggi, non ieri, né domani) con il volto carnale di Cristo.

Una povertà che troviamo continuamente nelle parole del Gius e che trova sintesi potente nel verso di una canzone sui carnefici di Auschwitz di Claudio Chieffo:  “non è difficile essere come loro”. Una canzone che ho imparato quando avevo più o meno l’età dei ragazzi morti a Manchester e che sicuramente sarebbe stato bello che anche loro conoscessero -più che non altre parole e canzoni-, ma che impone l’azzeramento di tanti pensieri. Per un attimo. Per un momento.

Per questo il volantino della comunità inglese di CL  ha colto duplicemente nel segno. Da una parte il riconoscimento di una Pietà che in situazioni come questa finalmente riemerge dal fumo di una società confusa. E che non può che trovarci in una posizione simpatetica, prima ancora che farci tuffare nel mare dei distinguo (che potranno senza dubbio arrivare, che potranno e dovranno essere messi a punto, a tempo debito nel frangente opportuno e con grande attenzione a non cancellare quel poco di bene emerso).

L’altra questione è che non sarà una visione della storia e dell’uomo a salvarci.

“La Resurrezione non è un sogno, è un fatto, che è all’origine della nostra speranza in questi tempi bui. All’origine della nostra certezza che la vita di quei ragazzi non è andata sprecata. È quello che vogliamo testimoniare ai nostri amati compagni, uomini e donne.”

Nel Gius, il “donna non piangere” del nazareno  era evidente nei toni, nella forza, nella magnanimità (la grandezza dell’animo che abbraccia tutto di te). Il volantino segue le tracce di questo giudizio, esprime l’esperienza di questo abbraccio e lo porta al mondo.

In questo momento di sgomento, mentre il mondo si ferma e dimostra la sua fragilità prima di riprendere le litanie consuete di questa vita dimentica dell’umano, occorre fermarsi insieme ai nostri compagni di cammino, riconoscendo lo sgomento e il dolore. Riconoscendo di essere “anfore vuote alla fonte”, tesi a rintracciare quell’abbraccio che, unico, può salvare (ed ecco il richiamo di don Giussani alla croce ed alla educazione del popolo – non certo per difesa di una civiltà che egli sapeva non esistere più-).

il dott. Alfonso Fossà

Ci ha dato lezione di questo, proprio qui a Rimini, il dott. Fossà, medico AVSI nelle terre dello “scontro di civiltà”. Nel suo intervento di sabato sera e nell’intervista Skype realizzata,  ha risposto senza saperlo – non era ancora accaduto – a quanto si è poi udito, con quel suo vivere le cose, che ho definito “quasi mistico” per come riusciva a leggere il significato degli eventi, oltre le contingenze.

C’è una forza nell’umano che non si rassegna. In cui – sono sempre parole del dott. Fossà – soffia lo Spirito che dà vita (e che è irriducibile). I cristiani hanno un compito decisivo nella presa di coscienza di cosa esso sia.

Questa forza fa sì che un popolo – in cui ci si aiuta reciprocamente a riconoscere quel Volto, ovvero in cui si lavora per educarsi alla vita –  si possa ritrovare in poche ore, rispondendo ad un appello del pomeriggio. E così, da pomeriggio a sera, possa gremire una chiesa per un rosario (pregare è il gesto più razionale, sempre!). E in quell’occasione sono d’aiuto a spazzar via qualsiasi ambiguità  le parole del sacerdote, laddove afferma “siamo qui non per affermare Cristo contro il male, ma per lasciarci guardare da Lui, nel cui sguardo è salvato tutto, anche il male” (cito senza pretesa di essere testuale). Affermazione che fotografa perfettamente la posizione dei cristiani in medio oriente, del tutto lontani dai nostri scontri di civiltà ma capaci di vivere da uomini in mezzo alle condizioni più avverse (sempre il dott. Fossà riferendosi ai campi profughi di Erbil e a Damasco: “in loro non un segno di rabbia, non una polemica, non un lamento, ma una inspiegabile letizia. Non sapevamo spiegarci come fosse possibile.”).

La carezza del nazareno è ciò di cui ha bisogno il mondo (e ognuno di noi)  per ripartire e costruire realmente la civiltà della verità e dell’amore. Ringrazio i tanti amici che già sono incamminati in quest’opera e che mi conducono quasi per mano.

Non un guerra contro i cristiani ma contro l’uomo stesso: sabato sera al Novelli il dott. Alfonso Fossà

Sabato sera, ad introdurre il concerto in favore di AVSI di cui abbiamo già ampiamente parlato, sarà presente il dott. Alfonso Fossà. Operatore di AVSI da tempo, è partito in missione già prima della nascita di questa eccezionale realtà.  Era il 1974, quando in forma un po’ avventurosa – ma sapientemente guidata -, si recava in Congo per costruire un ospedale. Quanto accadde fu ben di più, come ci racconta nella bella intervista che ci ha concesso e che vi proponiamo qui, a fondo pagina, in forma video, integralmente. Una intervista che fa nascere la voglia e la curiosità di ascoltarlo di persona sabato sera, 20 maggio, al teatro Novelli alle ore 21.

Trenta minuti di dialogo che aprono un mondo.

Per facilitarne la fruizione, per non perdere i passaggi salienti di quanto Alfonso ci ha raccontato,  l’abbiamo voluta anche descrivere con alcune parole, indicando i minuti. Infatti merita di essere ascoltata interamente e direttamente la voce del dott. Fossà, in alcuni passaggi commosso nel suo racconto. D’altro canto il tempo breve e frenetico del nostro vivere, impone che si mettano a fuoco alcuni punti per facilitare chiunque. La registrazione è del tutto artigianale, ma crediamo efficace. Ci scusiamo per due passaggi (ma non più di un paio) un poco disturbati.

L’intervista parte con il racconto,  più esteso, di come sia nato tutto. Abbiamo chiesto ad Alfonso perché (più di una volta) sia partito, cosa lo abbia spinto ad andare. Ci racconta così la scintilla che lo ha mosso e  come il progetto iniziale venne completamente trasformato dall’osservazione dei “segni” che la realtà suggeriva. Nasce così una sorta di ASL embrionale in un paese devastato e demoralizzato e poi un ospedale che fu costruito con risorse locali (in un paese privo di risorse!). L’esito fondamentale di questo lavoro è stata la responsabilizzazione degli uomini di quel luogo, l’infusione di una speranza capace di renderli costruttori.  (dall’inizio fino al minuto 14:30).

Poi abbiamo chiesto quale sia il “guadagno” del partire (dal minuto 14:30 al minuto 17:30). Qui il medico entra dentro quello che potremmo chiamare il senso del vivere, la grande incognita di una vita realizzata o meno. “Guardare i bisogni della realtà, fa scoprire – dice Alfonso rivolgendosi ai giovani – di quante risorse siete capaci, di quante energie siete in grado di dispiegare. Lasciate che la realtà provochi in voi una curiosità affettiva (…) Questo è quanto ho scoperto come guadagno.”

Abbiamo continuato chiedendo chiarimenti in merito ad un articolo scritto da lui stesso (“Non c’è disperazione qui, solo un’umanità nuova“), dov’egli dice che ad Erbil non c’era disperazione ma letizia. Un articolo quanto meno provocatorio. La risposta è la testimonianza di una positività che sembra impossibile, ma ancora viva negli occhi di Alfonso. Occhi che brillano, nel raccontare il coraggio e la fede di un popolo che ha accolto il doppio della popolazione già insediata nel quartiere cristiano di Erbil (40mila persone hanno accolto 60mila profughi, sfollati in una notte -un esodo biblico-) e che ha costruito in pochi giorni centri di accoglienza eccezionali (e che fanno impallidire di vergogna quanto sta accadendo nella ricca Italia e nella ricca Europa).  Una situazione dove non prevaleva la rabbia e il lamento, ma la letizia.  “Una pace, una pace nei campi profughi indescrivibile. (…) Non sapevamo darcene una ragione e incontriamo l’ex arcivescovo di Mosul… e abbiamo capito che lui imparava dalla sua gente.”  (ma occorre davvero sentire le parole di Fossà, dal minuto 17:30 al minuto 26,30).

Fossà nella prima risposta ci aveva  parlato anche dell’unità, in Congo, che era nata tra culture diverse (cattolici, protestanti, animisti, pagani). Così gli abbiamo chiesto come si configurasse il rapporto con l’Islam, che in quelle città (Erbil, Damasco) prendeva la forma di una violenza inaudita e volta contro i Cristiani in particolare.  Ancora una volta sorprendente la risposta tutta da ascoltare (dal minuto 26:30 alla fine).  Fossà qualifica l’ISIS come pseudo islamico (“… di religioso non hanno proprio nulla…”) e non volto contro i cristiani ma contro l’uomo in quanto tale,  e lo fa raccontando la convivenza a Damasco, in piena guerra, di persone di fede diversa così come nei campi profughi (50% cristiani, 50% islamici che convivono in armonia), persone che desiderano semplicemente vivere ed essere felici e che manifestano un’energia di vita che non può che essere espressione dello Spirito. Profondo, quasi mistico, il richiamo al Credo, (“lo spirito che da vita”), così come è ironico il riferimento alla polemica, da noi esploso in quei mesi, del Burkini, rispetto alla tolleranza e compresenza là di donne cristiane e islamiche (“le une tutte velate e le altre spogliate più che non a Rimini!”), fianco a fianco senza problemi.  Spazza via ogni ombra di scontro di religioni, a favore di una ricerca dell’umano, vera, reale, presente in quelle terre, e che persone, che prendono a pretesto la fede, vogliono cancellare per progetti ideologici o di potere.  La battaglia è aperta, ma non tra cristiani e mussulmani, bensì tra chi desidera vivere e una cultura di morte che serpeggia in forme diverse in tanti ambiti (e terre). (si veda al minuto 26,30 in particolare). Decisamente tutta da meditare la conclusione con una considerazione sull’anno della Misericordia: “là ho capito perché papa Francesco ci ha fatto meditare un anno sulla Misericordia. (…) La misericordia è senza limiti, è la condanna a vivere, a stare bene, senza limiti, (…) senza opporci a chi ci dà la vita. Mussulmani e noi stiamo soffrendo le medesime sofferenze. Non è vero che questa guerra è contro i cristiani  – come qui ci fa credere chi brandisce il cristianesimo come stendardo identitario – ma è una guerra contro l’uomo” (min.34) e infine l’affondo sulla vocazione dei cristiani e il senso della loro sofferenza e morte, dove torna una visione che va ben oltre la contingenza (e qui vi lasciamo alle parole di Alfonso).

Decisamente una persona da incontrare. Per cui appuntamento al teatro Novelli!

 

 

Unico orizzonte il mondo: torna il grande coro di Rimini

Torna il concerto dell’ormai famoso “corone”, nato ben quattro anni fa e da allora protagonista di magiche serate da tutto esaurito al Teatro Novelli di Rimini. Il concerto Canta per il mondo riproporrà anche quest’anno musiche e canti popolari con grandi sorprese nel corso della serata. Si svolgerà sabato 20 maggio alle ore 21, presso il Teatro Novelli di Rimini. Ingresso a offerta libera.

Protagonisti saranno sempre loro (ricordate? Ne parlammo lo scorso anno), ovvero l’associazione Il Ponte sul Mare e l’ Ensemble Amarcanto, che insieme ai ragazzi di quella che era stata l’associazione Open hanno iniziato questa straordinaria amicizia, capace di muovere risorse e tanta gente. L’obiettivo anche quest’anno è l’adozione di 13 ragazzi ugandesi, a cui –  grazie a quanto si potrà raccogliere – sarà permesso di studiare presso la scuola Luigi Giussani di Kampala, in Uganda.  Senza l’aiuto del “corone” questi ragazzi sarebbero destinati al degrado ed alla miseria. Invece, il contributo di ognuno, anche solo partecipando al concerto,  potrà accendere una speranza, confermando una strada intrapresa. Un bisogno di “accensione” che però riguarda un po’ tutti, come ci raccontano Ivana e Angela, tra le protagoniste di questa esperienza.

Con loro abbiamo voluto quest’anno capire meglio chi sono questi “pazzi” che ad ogni occasione non mancano di esprimere la loro esuberante passione per il canto (e per il mondo).  (Anno scorso fui invitato alla loro cena post concerto e guardate nella clip che succedeva!).

 

Ivana, Angela, ci raccontate come è nato tutto? Quale la storia e la ragione della nascita del “corone”?

Crediamo ci siano due passaggi fondamentali.

Il primo è che per molti di noi, crescendo, era sempre più vera questa esperienza: non ti concepisci da solo, sei dentro una realtà grande e dici a sì a qualcosa che ti accade intorno. Tutto quello che è nato, fino a giungere all’esperienza del coro, è stato un susseguirsi di fatti, di avvenimenti a cui abbiamo detto sì.

Il secondo, conseguenza del primo, è che nasce un desiderio fortissimo di incontrare gli altri, ovvero chi ha una vita diversa dalla tua. Questo perché concepirsi come costituiti da un Altro, rende famigliare l’alterità di ognuno, con i suoi bisogni, le problematiche, le contraddizioni.

Così noi, genitori che avevano dato vita a Ponte sul mare, circa una trentina di famiglie, per aiutarci e sostenerci nell’educazione dei figli – che prima di tante cose contingenti hanno bisogno di una grande compagnia in cui crescere – abbiamo incontrato Laura e Anna, che già guidavano l’Ensemble Amarcanto, gruppo di giovani, e meno giovani, appassionati del canto e che ci hanno proposto un gesto di carità mettendo  a disposizione il loro talento musicale.

Di qui l’amicizia, lo stringersi di rapporti e l’idea di preparare una serata per sostenere i progetti con cui AVSI sta aiutando situazioni di grandissima difficoltà nel mondo.

Infine, grazie ad AVSI, nasce la grande amicizia con i ragazzi della scuola Luigi Giussani di Kampala, fino ai “collegamenti”.

Spiegateci…

Il primo è stato anno scorso, ma quello più bello e commovente è stato pochi mesi fa. In sostanza da due anni, prima di iniziare il grande lavoro di prove per arrivare al concerto, ci colleghiamo via Skype con i ragazzi che sosteniamo. Quest’anno è stata la scoperta di ritrovarsi uniti in un bisogno: il bisogno loro di aiuto e il bisogno nostro di uscire dalla nostra situazione, di aprirci al mondo, di non soffocare dentro una vita già predeterminata.  Il loro, un bisogno urgente, perché senza la scuola, non hanno futuro. Il nostro, altrettanto intenso, perché non si può vivere solo di se stessi.

Il collegamento Skype con i ragazzi dell’Uganda

Ci hai parlato di grande intensità emotiva in questo collegamento via Skype, lo avete anche trascritto in una lettera (si veda qui)… Cosa ha suscitato questa emozione?

Dall’Italia all’Africa abbiamo fatto sentire i nostri canti a loro, e loro avevano imparato canti per noi. Sono stati bravissimi. Abbiamo visto il cammino che hanno fatto da anno scorso, ed è stato davvero notevole. Questo ce li ha fatti sentire vicini, veramente parte di noi. Bisogna tenere conto che la situazione là è davvero impossibile. Ci sono classi di 100 persone, ragazzi abbandonati, e loro erano riusciti persino a comporre musica e parole per noi.

Un cambiamento in atto…

Esatto. E non solo in loro. Noi abbiamo vissuto al nostro interno un fiorire. Una di noi, Manuela, al momento di laurearsi in sociologia, ha ricevuto la richiesta del suo prof. – che la sentiva raccontare di questa esperienza di aggregazione – di fare la tesi sull’esperienza nostra.

Altre foto del collegamento Skype con i ragazzi dell’ Uganda

Come vive l’esperienza del coro durante l’anno?

Come accennavo, si prova e si fa il concerto. E ad ogni serata di prove si vive questa esperienza dell’incontro. Ma poi gli incontri si moltiplicano e ci chiamano a cantare in varie occasioni.  Ad esempio quest’anno andremo a cantare nei paesi dei terremotati del centro Italia. Anche qui seguendo quel che succede: i ragazzi di Gioventù Studensca hanno costruito questa bellissima collaborazione e amicizia con alcuni abitanti di Sarnano e di altri paesi vicini. Ci hanno chiesto di andare a fare un concerto per loro che saranno in gita là il 4 giugno e per la popolazione, e noi abbiamo accettato subito. Seguiamo quanto di buono accade e ci è chiesto.

E la serata del 20 maggio? Che sorprese ci riserverà? Quale il tema?

Il grande tema è lo stesso che ha scelto quest’anno AVSI, ovvero i migranti. Avremo la testimonianza del medico Alfonso Fossa’ (presto proporremo la nostra intervista, realizzata per conoscerlo meglio -ndr). I canti seguiranno questo filo rosso  andando a toccare le tradizioni dei popoli in viaggio verso le nostre terre, sulla falsariga anche del bellissimo lavoro fatto da Amarcanto in alcuni suoi concerti di qualche mese fa. Non mancheranno sorprese e un finale esplosivo, che però non posso proprio rivelare!

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“Questa gente è fatta di una sostanza diversa!”

Dopo una serata passata con amici, leggendo un libro altrettanto amico e confrontandoci appassionatamente;

dopo aver in particolare ragionato sulla rilevanza della Chiesa nella vita quotidiana, approfondendo il portato, nell’esistenza concreta, della fede, guidati dalle sapienti, profonde e semplici ad un tempo (ma non facili), riflessioni di don Giussani e don Carron;

dopo una serata in cui abbiamo balbettato qualcosa su come la vita può divenire più umana grazie a Cristo, può diventare più sensata e razionale grazie al rapporto reso finalmente presente e percorribile con il Mistero;

oramai tornato a casa e messomi a lavorare ancora per un po’,

un amico presente all’incontro, (Roberto, che ringrazio), mi gira questo filmato che ho guardato attonito e stupito, decisamente ammirato,  un minuto fa. Una notizia il cui titolo avevo letto senza poter approfondire durante le giornate scorse.

Ebbene, fotografia perfettamente quanto stavamo cercando di comprendere su cosa sia il Cristianesimo: un modo più umano di vivere tutto, compreso il dolore e qui persino il torto più atroce subito.

Avevamo letto della rilevanza esistenziale dell’Incarnazione (Dio che si fa uomo) e specificamente questi passaggi: “Cristo risorto conclama che tutto nella storia è redimibile, che non si perde nulla nel vortice degli eventi.” Oppure, “La comunicazione di verità che il divino nella Chiesa fa arrivare agli uomini mostra la sua validità proprio nel non dimenticare nulla, nel valorizzare il bene e nel giudicare o trasformare il male.”

Parlandoci, abbiamo scoperto che anche per noi  queste espressioni sono diventate vere. Ma di fronte a questa testimonianza occorre mettersi in ginocchio ammirati.

È accaduto, dopo i terribili attentati, in una televisione egiziana, ed è riportato qui nella trasmissione di Tv2000.

Si comprende bene dove sia il punto di svolta, ancora oggi come duemila anni fa, per l’umanità intera.

 

http://https://youtu.be/rYaiLLm0t3o

 

La croce e la svastica

Inauguro con questo articolo, una serie di pubblicazioni che saranno a supporto delle mie lezioni. Rilevo da sempre che quanto nasce come dialogo con gli studenti sia di straordinaria attualità e interesse per tutti. Ecco dunque la sperimentazione di questi articoli “ibridi”: nascono dalla vita a scuola per giungere all’attenzione di tutti, nella speranza di avere tempo ed energia per moltiplicarli.  Potranno essere aggiornati e ripubblicati in date successive, a seconda delle esigenze delle mie lezioni, entro il cui contesto nascono.

Lo scorso anno, un’alunna – non di una mia classe-, in un momento di studio comune tra più studenti di varia provenienza, con estremo candore, esclamò: “Sì certo, il nazismo è nato in ambito cristiano ed anti-ebraico. È una espressione del cristianesimo”. Alle mie obiezioni, che si incentravano sul carattere neopagano del nazismo, come facilmente si evince dall’ideologia che il Fuhrer esprime nel Mein Kampf, le risposte della studentessa facevano leva su una chiara vulgata basata su elementi superficiali ma diffusi, ben propagandati e attestati anche nella scuola. Allora ci si lasciò con qualche domanda in più, ed è già tanto.

Eppure, nei due recenti viaggi,  Berlino e ad Auschwitz, le nostre guide – di diverse provenienza culturale  e in ogni ambito visitato (dal Museo ebraico alla Topografia del terrore, tanto al campo di concentramento di Auschwitz così come di fronte al totalitarismo rosso, ovvero al Museo della Stasi o alle carceri della Stasi) –  hanno sottolineato sempre come tra le prime vittime dell’intolleranza nazista vi fossero stati i sacerdoti.  “Sul campo”, le cose, i fatti, le questioni assumono i loro contorni completi.

Questa distanza – tra quanto raccontato in situazione e quanto recepito dai media a casa propria –  mette bene in luce come vi siano  distorsioni terrificanti in certe forme di esposizione storica.

Certo. Il concordato con Hitler, i silenzi imbarazzanti, il tentativo di evitare uno scontro diretto col regime (motivato dall’esigenza di evitare più profonde sofferenze al popolo stesso), posso essere letti come risposta errata della diplomazia vaticana ad una situazione di cui però si dovrà ammettere almeno la criticità. Arrivare invece a leggerne una collusione, anzi una coesione di carattere culturale, è decisamente una distorsione della prospettiva storica.

D’altro canto così si esprime il manuale (pur valido) in adozione nelle mie classi :

Il rapporto con le Chiese
Anche tra i cristiani vi furono degli oppositori ma soprattutto dopo il 1936. Nei primi
anni, infatti, il regime nazionalsocialista non incontrò difficoltà nei rapporti con le due Chiese tedesche, quella cattolica e quella protestante. (…). I cattolici in genere non manifestarono alcuna opposizione al regime, nonostante anche il partito cattolico del Zentrum fosse stato sciolto.

Una sintesi che può facilmente trarre in errore (solo in parte compendiata poi dalle righe successive). Fa infatti pensare ad un’adesione lineare, semplice, tranquilla da parte del popolo cattolico al regime, salvo qualche “testa calda”. Come vedremo più innanzi nel video che proponiamo – ricco di testimonianze dirette – le cose non stanno così.
Vi è chi vuol piegare il discorso tuttavia espressamente verso un’equazione decisamente antistorica e costoro, diciamolo pure, devono avere dalla loro parecchia forza economica.

Oliviero Toscani, nell’ideare il manifesto del film  Amen di Costa Gavras pensò nel 2002 ad un’immagine che accostava i due simboli, la svastica e la croce, unificandoli. Un chiaro messaggio che intelligentemente la ragazza di cui sopra, chissà da quali altre fonti analoghe, raccolse. L’efficacia mediatica di professionisti ben pagati funziona. Lo sappiamo bene. Una identificazione che d’altro canto serpeggia nel film, in parte basato su documentazione reale, in parte su personaggi inventati. Una tecnica, anche questa, ben diffusa da tempo (parziali verità sono assai funzionali nel costruire una menzogna più credibile).

Ma basta poco per capire l’esatta entità -e complessità- delle cose.

Infatti il Nazismo è evidentemente un neo paganesimo che si ispira ad una ideologia irrazionalistica e vitalistica (e dunque contraria a tutta la tradizione teologica cattolica, nonché europea) e che pesca in miti pre-cristiani.

Così si esprime L. Poliakov in  Il nazismo e lo stermino degli Ebrei, Torino 1961

Hitler sognava di estirpare la religione cristiana e di sostituirla con un nuovo culto e una nuova morale, “una fede forte ed eroica…in un invisibile Iddio del destino e del sangue”.  Stavano a disposizione del “grande semplificatore” tutte le dottrine pangermaniste, le teorie razziste, le semplici credenze popolari che proliferavano in Germania; da esse egli trasse la materie prima per facili e accessibili dogmi. (…) …L’anima della razza, il sangue, il Volk, oggetti di sacra reverenza, resterebbero nozioni vaghe e fluide se non fossero rese tangibili agli occhi dei fedeli opponendo ad esse un’antirazza, un antipopolo.

Antirazza e antipopolo rintracciati per l’appunto negli ebrei. D’altro canto Albert Einstein, ebreo, così ebbe modo di esprimersi:

“Essendo un amante della libertà, quando avvenne la rivoluzione nazista in Germania, guardai con fiducia alle università sapendo che queste si erano sempre vantate della loro devozione alla causa della verità. Ma le università vennero zittite, e non protestarono. Allora guardai ai grandi editori dei quotidiani che in ardenti editoriali proclamavano il loro amore per la libertà. Ma anche loro, come le università vennero ridotti al silenzio, soffocati nell’arco di poche settimane, e non protestarono. Solo la Chiesa rimase ferma in piedi a sbarrare la strada alle campagne di Hitler per sopprimere la verità. Io non ho mai provato nessun interesse o stima particolare per la Chiesa prima, ma ora provo nei suoi confronti grande affetto e ammirazione, perché la Chiesa da sola ha avuto il coraggio e l’ostinazione per sostenere la verità intellettuale e la libertà morale. Devo confessare che ciò che io una volta disprezzavo, ora lodo incondizionatamente”.
(da Intervista di Albert Einstein, Time magazine, 23 dicembre 1940)

L’espressione di Einstein fu da lui successivamente confermata, seppure moderata, come si desume da una lettera (1943) che  conferma questo suo pensiero seppure in forma più blanda e sebbene successivamente affermi che non coincida con la sua posizione di fondo rispetto alla Chiesa.  Rimane che egli sapeva della pubblica e che non venga richiesta al giornale alcuna smentita.
Interessante peraltro la recensione al testo di Luciano Garibaldi, O la Croce o la Svastica,  che troviamo sul sito di IBS, in cui si riportano alcune ulteriori testimonianze (poi ovviamente reperibili dentro il testo in maniera estesa).

Il primo religioso tedesco a finire in un lager fu il gesuita Josef Spieker. In una predica a Colonia, nel 1934, aveva esclamato: “La Germania ha un solo Führer ed è Cristo!”. Il primo a essere eliminato dai nazisti fu monsignor Bernhard Lichtenberg, arciprete della cattedrale di Berlino: aveva pregato assieme a un gruppo di ebrei. Non fu che l’inizio di una sfida che si concluse con il sacrificio di quattromila sacerdoti e religiosi cattolici. Il presente libro racconta la storia dei rapporti tra la Chiesa e il Nazismo chiudendo la disputa sui presunti silenzi di Pio XII, il papa che Reinhard Heydrich – il promotore della “soluzione finale del problema ebraico” – in un rapporto segreto definì “schierato a favore degli ebrei, nemico mortale della Germania e complice delle potenze occidentali”. Sono molte le vicende ricostruite da Luciano Garibaldi in queste pagine: a cominciare dalla testimonianza del generale Karl Wolff che ricevette da Hitler l’ordine di arrestare Pio XII, ma riuscì a vanificare quel progetto, meritandosi l’assoluzione a Norimberga. E poi i due enigmi che ancora accompagnano Claus Von Stauffenberg, l’ufficiale che il 20 luglio 1944 tentò di uccidere il Führer: se cioè sia vero che il colonnello prima di collocare la bomba si confessò dal vescovo di Berlino, ne ottenne l’assoluzione e si comunicò; e se si possa affermare che il Vaticano fu preventivamente informato dell’Operazione Valchiria.

Ben nota d’altro canto è l’esperienza dei ragazzi della  Rosa bianca, a cui è dedicato un film (Sofie Scholl) che descrive con cura filologica gli ultimi giorni di vita di questa interessantissima esperienza di opposizione al nazismo in nome della bellezza, della ragione e della fede, e sulle cui singole figure venne editata una mostra che si può scaricare in rete a questo indirizzo (scaricabili i file zippati  ai link in fondo pagina).

A mettere in chiaro la situazione secondo canoni equilibrati,  contribuisce una pregevole ed ampia documentazione storica, raccolta nella trasmissione del ciclo La Grande Storia di Rai 3.

Mettendo a disposizione anche filmati inediti, descrivendo il quadro dello sviluppo del regime in maniera complessa ed estesa, permette di superare sintesi divulgative, contraddittorie con la natura dei due fenomeni: la fede cristiana ed il nazismo. Il tutto, pur non omettendo tutti i passaggi più critici, tra cui il tentato compromesso (peraltro fallito, a dispetto del Concordato), inserendoli però nel loro contesto completo.

È davvero una visione preziosa per capire meglio ed acquisire una più precisa conoscenza di quel che il regime nazista fu nelle sue radici ideologiche, troppo spesso ridotte a un generico “fascismo” (che fu cosa ben definita e tutta italiana, con sue specifiche criticità) o ad un autoritarismo di destra, perdendosi invece il carattere quasi mistico e millenaristico che lo contraddistinse, rendendolo un fenomeno unico e terrificante nella sua macabra identità ideologica.

Una identità chiaramente anti europea ed anti cristiana. Aspetto che va detto chiaro e tondo, senza alcuna ombra e mistificante semplificazione.

Riproponiamo il documentario nella sua visione integrale dal sito Daily motion in questi due link.

La Croce e la svastica 1^ parte

La Croce e la svastica 2^ parte

A che vale il mondo intero… A che vale la tua vita…

Oggi DjFabo è morto. La sua vita era assai complicata da tempo. Cieco e paraplegico dopo un incidente, di cui ci fornisce qualche dettaglio questo articolo.  Una vita che era diventata un inferno, come lui stesso sosteneva. Il Corriere della Sera titola con una sua frase, “qui senza l’aiuto del mio Stato”. D’altro canto, se non ci pensa l’Italia si vola in Svizzera.  In Svizzera la “morte dolce” ha la forma del “suicidio assistito”, ovvero la morte che viene indotta senza intervento diretto del medico, invece previsto nel caso dell’eutanasia (non ammessa neppure in Svizzera). E tuttavia, Fabiano (questo il suo vero nome) non poteva assumere da sé il cocktail di farmaci che lo ha portato alla morte. E così ci ha pensato, non la sua compagna di vita, Valeria che pure lo ha sostenuto in questa scelta, bensì Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni.

C’è una immediata distorsione che balza agli occhi. Una stonatura evidente tra il dramma che si è consumato, – la duplice morte di un uomo, quella durante l’incidente e quella di oggi – e la battaglia perché lo Stato intervenga. Che Fabiano ci sia o non ci sia, così come il dramma che lo ha colpito anni fa (l’incidente e la perdita della sua precedente vita), è sostituito mediaticamente da una battaglia civile affinché “ognuno possa decidere come meglio crede della propria vita”.  Interviene anche la signora Welby (moglie di Piergiorgio, che visse un’altra vicenda dai toni simili) affermando “non possono continuare a infliggere ad altri quello che loro non vorrebbero, quello che dal loro punto di vista è più giusto”.

Ma quanti si vedono infliggere dalla vita – e non semplicemente dalla politica-  ciò che non si ritiene affatto giusto?

Chi può decidere “come meglio crede” della propria vita?  Forse che noi, che non siamo colpiti da situazioni così evidenti e drammatiche, possiamo deciderlo?  Nel dire questo non intendiamo imputare nulla a Fabiano, ma stiamo riflettendo su di noi stessi. Se riflettiamo sul serio, possiamo davvero dire che noi della nostra vita possiamo decidere “come meglio crediamo”?

Il dramma sollevato da questa vicenda è ben più grande di quello di una disposizione di legge. Morire in Italia, anziché in Svizzera non toglie infatti di una briciola il dramma nascosto nella storia di Fabiano. E, in fin dei conti, in quella di ognuno di noi.

Qui non c’è in ballo una legge dello Stato, ma una legge intrinseca della vita (e dunque terribilmente insuperabile), che va compresa e imparata a dovere. Compresa, per capire – una volta per tutte – se è una cattiva legge oppure no. E la risposta diventa decisiva rispetto al compito che ogni uomo avverte ogni mattina: un giorno in più da sopportare terribilmente, oppure la costruzione di un nuovo tassello di una splendida opera, qual è la nostra vita (così come è)?

Personalmente non credo di avere ancora capito del tutto cosa significhi questa scommessa, questa partita che siamo chiamati inesorabilmente a giocare, senza che vi siano chance per evitarla. Ma da un po’ di tempo, da un bel po’ di tempo, è fonte di meditazione e di rivisitazione di tante certezze (vecchie e nuove). E questo è fonte di speranza.

Tra i fatti  meno recenti che obbligano a riflettere, occorre ricordare la vicenda di Eluana Englaro e la vicinanza al suo dramma da parte di chi era pure contrario alla scelta della dolce morte, come si evince da  un semplice ma chiaro volantino, oppure quello sguardo profondo di Enzo Jannacci, in quella sorprendente intervista al Corriere, dove  dichiarò “la vita è importante anche quando è inerme e indifesa. Fosse mio figlio mi basterebbe un battito di ciglio”, fino a chiudere l’intervista con quella espressione che era quasi una preghiera laica, “ci vorrebbe una carezza del Nazareno”.

Ma oltre Eluana, ho presente la vita di tanti amici colpiti da gravi malattie o eventi drammatici, fatti che tuttavia diventano qualcosa di inaspettato, ovvero opportunità prima non rivelate.

E poi l’aver avuto l’opportunità di curare la pubblicazione della storia di una ragazza, Marta Bellavista, che a 27 anni muore di tumore, dopo aver vissuto una iniziale guarigione e dunque con tutta la rinascita di aspettative e sentimenti che ognuno può ben immaginare, e che però afferma il valore di ogni secondo del suo respirare. E lo afferma in modo tale che la vita diventa del tutto “altro” da quanto immaginato. Secondo dopo secondo, un guadagno.

Tutte queste storie, tutte queste vicende, insieme ad altre storie difficili, dove il “tutto consueto”, che possediamo e che rimane,  non sembra sanare l’insoddisfazione, l’inferno, le atrocità di un vivere che pare non avere senso (quante storie così segnate, quanti amici, quante persone care che vivono l’inferno di un presunto “nulla” che coabita nel presunto “pieno” di tante cose: salute, soldi, affetti -poi infranti da noi stessi), mi portano a pensare che si debba andare ben più a fondo. Ancora più a fondo di quanto scrivevo ai tempi di Eluana (vedi il mio vecchio blog, in data febbraio 2009).

In questo andare più a fondo,  emerge il punto di discrimine che svela l’insufficienza di quel titolo del Corriere e di quanto lo stesso djFabo ha sostenuto in questi giorni. L’insufficienza di uno sguardo. La stessa insufficienza che non ci fa capire la vita, neppure quando siamo nel pieno delle nostre forze. Così come quando sembra sparire dai nostri orizzonti.

Sovviene alla mente quanto lo scrittore Saviano ha scritto sul caso del ragazzo sedicenne suicidatosi perché trovato con qualche grammo di hascisc e vittima di una perquisizione in casa. Si è suicidato davanti alla madre. Saviano scrive che tale morte non ci sarebbe stata se le leggi avessero liberalizzato l’uso della droga. Come se il dramma così potesse scomparire. Come se sballarsi non fosse già il dramma. Il dramma di una vita che non conosce la capacità di reggere il duro mestiere di vivere. La notizia, poi, che fu la stessa madre a chiamare gli agenti, le parole di lei, e il risvolto drammatico che tutto questo apre (in qualsiasi direzione lo si voglia guardare), fanno capire l’insufficienza e la portata riduttiva (perfino violenta nella sua banalità) di quanto detto da Saviano. Il quale su facebook non ha mancato di far sentire la sua voce anche su djFabo, andando a scomodare Cristo e la religione, ed incentivando una corsa alla ricerca del nemico (allo Stato è stato aggiunto l’italico popolo di falsa religione. Complimenti Saviano! Di fronte a un uomo che muore si sente proprio il bisogno di nuovi nemici!).

Occorre uscire da questa riduzione, che riguarda la morte di Fabiano e di Eluana, così come la vita di ognuno di noi.

In tal senso ci aiutano due articoli, apparsi in questi giorni.

Il primo è di Benedetta Frigerio. Ci fa vedere che esistono storie diverse. Svela anche lo stile di vita di Fabiano, dedita allo “sballo”, uno sballo non estraneo, ella sostiene, all’incidente in auto. Possiamo sentire insopportabile tale giudizio di Benedetta, e forse lo è, tuttavia è un aspetto che non può essere sottaciuto.  Ma soprattutto non possiamo non spostare la nostra attenzione sulla seconda parte dell’articolo, dove si parla di un altro dj, Andrea, che vive una situazione analoga a quella di Fabiano, ma afferma: “questa malattia mi ha tolto quasi tutto, ma mi consente di cogliere il valore di ciò che prima sottovalutavo”. Da leggere.

Il secondo articolo, di Lucia Bellaspiga,  presenta un quadro ancora più sorprendente. È l’appello, purtroppo inascoltato, di un ragazzo costretto a vivere senza movimenti da sempre (“può solo pensare”) a Fabiano perché eviti quel gesto, perché eviti di farla finita. Qui si svelano le infinite possibilità che la vita presenta, gli incredibili risvolti che l’esistenza possiede e le opportunità che offre a chi non la rinchiuda in uno schema (come, pur in forme “lievi”, facciamo noi tutti quotidianamente). Matteo, 19 anni, 25 chili, inchiodato ad una carrozzella, non può muoversi, non può parlare. Ma a partire dai 6 anni ha imparato a usare una tavoletta per comunicare ed ora frequenta il liceo, dove quest’anno si maturerà. Certo, gli insegnanti vanno a casa sua (come prevedono progetti di inclusione ampiamente sperimentati per casi meno gravi) e i sacrifici non mancano. Eppure la sua ironia spiazza, ci mette tutti contro un muro, perché capiamo che non abbiamo capito nulla della vita. Quella vita fatta consistere, così spesso, in quello che pensiamo e progettiamo di essa, considerato irrinunciabile, e che invece può essere tolto in un secondo.

Ma cosa è l’essenziale, che nessuno ci può portare via?

Matteo -la cui malattia è dovuta ad un errore dei medici al momento della nascita- ce lo ricorda in un paio di battute fulminanti. Rimando alla lettura dell’intero articolo (imperdibile, per le parole di Matteo stesso).

Il pensiero, poi, vola subito al dott. Melazzini (ammalato di SLA e assessore in Regione Lombardia), ma anche a esperienze vicine, più prossime, come i vecchi amici “handicappati” (oggi non si può più dire così, ma quanta ipocrisia!)  della Luce sul Mare di Igea Marina  con cui insieme ad alcuni amici, da giovane, passavo la domenica pomeriggio, e balza alla memoria  quella loro gioia nello spendere due ore assieme.  E come non pensare a chi soffre perché ha perso tutto, magari non l’uso del corpo ma il tutto di una esistenza intera  (per terremoto, malattia, anzianità devastanti)…

Storie differenti certo, ma che portano un inferno dentro che fa immediatamente gridare che “non è più vita”. C’è pure chi cade in irrimediabili tunnel, per la perdita del lavoro, della famiglia, e i suicidi di questi tempi di crisi sono lì ad attestare che è ben difficile misurare l’inferno che è nel cuore di ognuno.

E penso di nuovo a lei, a Marta, che insegna in ogni riga del suo diario, che la vita è altro da quello che noi decidiamo che sia. Appunto. Qui si avvicina la radice del problema.

Le ultime parole di Fabiano sono un ringraziamento. “Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato. Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore, di dolore, di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e lo ringraziero’ fino alla morte. Grazie Marco. Grazie mille”.

Alla fine del libro Voglio tutto (dove sono raccolti gli scritti di Marta), abbiamo posto il ringraziamento di Marta (sono le ultime parole proferite nel suo ultimo giorno di vita) a Francesco, l’amico con cui ha imparato che la vita è nelle mani di un Altro (il Nazareno di cui parla Jannacci). Ormai sedata si è tirata su e ha detto a lui che stava uscendo: “Grazie, grazie, grazie”. Poco dopo, la malattia la porterà via ai suoi cari.

Fabiano ripete per tre volte la parola dolore. Marta per tre volte la parola grazie. Ed era provata da quattro anni di un tumore che l’aveva ridotta a zero nel corpo.  Entrambi ringraziano. Ma per motivi opposti. Quello di Marta è un grazie per ogni istante vissuto, ogni dolore attraversato, ogni pezzetto di cammino, lieve o atroce che fosse, mentre l’altro è un grazie liberatorio per una vita insopportabile.

Siamo tutti di fronte a questo bivio. La nostra giornata è un bene, oppure è, e resta, in fondo, insopportabile, un dramma da cui essere anestetizzati? Magari con una vita da sballo, o parallela, oppure ridotta ai fine settimana o a serate come quelle cantate da J-Ax in Gente che spera, (“cercando qualcosa di più, in fondo alla sera”).

La vita è qualcosa in cui entrare, comunque sia, oppure da cui fuggire?

Qui si nasconde il vero dramma che Fabiano ci ricorda e che nessuna legge (bella o brutta) potrà eliminare: che cosa rende “sopportabile” l’esistenza? Una risposta che ognuno di noi deve imparare a dare. Possibilmente da subito. Perché la vita incalza.

La risposta di Marta è una bella canche. La sua strada rende vere, e non semplicemente sentimentali, le parole della canzone di Fiorella Mannoia. Che sia benedetta la vita.  Sempre.

Chi non vorrebbe poter imparare a dirlo, con forza, di fronte a ogni dramma?

È l’unica chance che abbiamo per toglierci l’inferno che ci abita nel cuore. In Svizzera o in Italia, a questo punto non importa più.

 

https://www.youtube.com/watch?v=IUE61h0DaRU

 

Quell’esperienza della croce, a noi sconosciuta

Silence è un capolavoro. Due ore e quaranta incollati allo schermo, senza accorgersi del tempo che passa. Un alternarsi di immagini e volti che scavano nell’anima. Perché nel film non solo é  immortalata la storia dei padri Gesuiti in missione nel Giappone del 1600 e quella del loro popolo – commovente per dignità e statura, nella semplicità e devastazione delle persecuzioni – ma la storia di ognuno di noi. Di ogni spettatore.

Protagonista del film, infatti, é il traditore Kichijiro, fedele fino all’ultimo e traditore fino all’ultimo. Lui, così spregevole, è l’immagine dell’uomo nella sua più profonda e terribile verità. Così, la vita di ogni personaggio del film è sempre sul filo della caduta, del non saper che fare e che scegliere, del non sapere dove sia il bene e il male, del vuoto che sembra sostituire il pieno che Dio ha promesso e lasciato intuire con inaudita certezza.

Si parla del dramma di ogni uomo impegnato seriamente con la propria esistenza.

Lo spettatore, dunque, anche colui che non sperimenti una vita cristiana, si trova pienamente espresso in quelle pur lontane situazioni. E ne prova un fascino infinito.

Raramente mi é capitato di vedere un film più mio, più espressione del dramma della mia e nostra esistenza. D’altro canto la persecuzione, così crudamente descritta, é il nostro futuro, e forse anche un po’ il nostro presente. Ma su questo torneremo a parlarne  più innanzi.

Occorre affrettarsi al cinema, per non perdere questa straordinaria metafora della vita che, non a

Padre Spadaro, a destra, e Martin Scorsese mentre dialogano intorno al film Silence. Nell’intervista Scorsese racconta come questo film sia stato una Grazia per lui

caso, è frutto di una riflessione lunga una vita, come Scorsese chiarisce nella lunga ma bellissima intervista al gesuita Antonio Spadaro.

Provo a costringere l’infinita gamma di sfumature e di spunti che il film suscita in alcuni pochi passaggi che mi sembra meritino di non essere perduti e che credo siano decisivi per l’uomo di oggi.

Occorre dire che, così come amici mi hanno saggiamente consigliato, è decisamente opportuno lasciarsi perturbare privi di qualsiasi condizionamento dal film, nella sua inquietante e fascinosa “ambivalenza” (così la croce pare a noi, “cristiani da pasticceria” – parole del papa che mi ha ricordato un’altra amica dopo la visione del film).  Per questo è consigliabile non leggere le pagine che seguono, se si è prossimi a vedere il film. Una volta visto il film è interessante il confronto, assai più che con queste parole, con la breve ed efficace recensione di Autieri, per le chiavi di lettura suggerite, e con un bell’articolo  sulla rivista mensile Tracce (articolo purtroppo non disponibile online)  per i riferimenti alla storia della chiesa in Giappone, di un tempo e di oggi, espressi intervistando il gesuita De Luca. Uma chiesa, come egli dice “che si mantenne viva, segretamente, benché non ci fossero né chiese, né preti”. Saranno i missionari francesi, nell’Ottocento, a scoprire le comunità segrete dei kakure kirishitan (“cristiani nascosti”). Uno sguardo alla storia della Chiesa cattolica in Giappone, anche solo sulla consueta wikipedia, è decisamente interessante.

Proviamo allora a fissare alcuni punti, consapevoli che potrebbero essere infiniti…

1) Dio parla nel silenzio. É notevole come il protagonista del film sia il cuore dell’uomo di ogni tempo. Un cuore che desidera l’infinito e che lo tradisce ad ogni passo. L’abiura non é solo quella continuativa di Kichijiro, o di padre Ferreira, o degli  altri padri. Ma é anche quella di chi, come padre Garupe, inizialmente identifica con la forma del martirio la propria fede, ridotta a rabbioso tentativo di coerenza. Una riduzione che nasce dalla fragilità di padre Garupe rispetto al più sereno e “forte” padre Rodriguez, che tuttavia, in una sorta di ribaltamento di posizioni, subirà anch’egli prove impossibili per un uomo. L’amore, pacato e sofferto, per quella gente -corpo di Cristo, chiesa nascente- di padre  Rodriguez é esemplare e supera perfino la “forma” del martirio, suggerendo perfino ai kirishitan  di accettare la formale abiura, mentre Garrupe, rabbioso e disperato, grida che non abiurino. La fede non ha forme predefinite. Nemmeno la forma suprema: il martirio.

2) E tuttavia è evidente che il progetto di  potere dell’inquisitore giapponese è quello di estirpare nell’uomo qualsiasi speranza, spingendo all’accettazione di una natura che sembra non risparmiare l’orrido orizzonte della morte ad ogni uomo (come attesta il vecchierel bianco di leopardiana memoria ). L’inquisitore afferma, con cinico distacco, che in Giappone non può crescere nulla di nuovo, che non vale la pena portare una fede per cui le persone saranno destinate a dare la vita, che nella palude di quella tera nulla può mettere radice. Anche la chiesa nascente, pur ricca e feconda (300mila persona in pochi decenni) sarà fatta scomparire.

L’inquisitore

È una cultura della morte, ma ordinata e dotata di un senso compiuto, circolare, che non si apre a nulla nel rischio che spezzi il ciclo della natura. Il Cristianesimo deve sparire perché accende la speranza di rompere questo cerchio e dunque è ancor più pericoloso di Portoghesi, Spagnoli, Olandesi, con i loro interessi economici. Il potere comprende che deve distruggere quel principio di speranza, se vuol mantenere se stesso così inossidabile e rassicurante, capace di organizzare la disperazione.

3) È incredibile l’efficacia della raffigurazione dei padri dopo l’abiura. Non c’è traccia di umanità nei loro volti e nelle loro parole. Freddi, distaccati. Anche infervorati nel difendere le proprie posizioni ma sfuggenti negli sguardi.  L’abiura é terribile, costringe l’uomo a soffocare se stesso, ovvero il desiderio più autentico del proprio cuore, acceso dalla fede cristiana. È una forma di martirio essa stessa. Fiorisce il corpo, ripulito, disteso, e nei volti non c’è più alcun dramma. Ma l’io è morto.

4) Eppure il cuore dell’uomo grida, afferma, quel Dio tradito e, al di là di ogni situazione, Dio parla, opera,  pur misteriosamente e nell’apparente sconfitta. Padre Ferreira (nella verità storica poi si ricrede e viene accolto nuovamente tra i Gesuiti) nomina inavvertitamente il nome di Dio. Se ne avvede padre Rodriguez, ma lui nega. Anche l’abiura, il tradimento e la zelante opera di collaborazione con l’inquisitore giapponese, scientificamente alimentata da una impeccabile strategia da parte del potere, non riesce a cancellare l’azione misericordiosa di Dio, resa particolarmente vivida e presente dal desiderio di pentimento  da parte del peccatore Kichijiro.  Malgrado l’abiura e la nuova vita padre Rodriguez resta padre, è “costretto” ad essere padre.

Scorsese con papa Francesco

E Scorsese ha voluto aggiungere al libro da cui il film è tratto (il romanzo di Shusako Endo, che Scorsese ha letto nel 1988 e che ha scavato nella sua vita) una sorpresa sconcertante, proprio nella scena che descrive la fine dell’esistenza di padre Rodriguez. Una geniale aggiunta di Scorsese che conferma le parole già da espresse  da Rodriguez , “nel silenzio ho sentito la tua voce”.

É misterioso e vertiginoso come Dio possa parlare anche nel fondo del peccato e del tradimento, nell’oscurità della Sua sconfitta. Ma non é forse questa la fede cristiana nella sua intima essenza, quella fede invincibile per il mondo, ovvero la fede nella croce? La “pace che il mondo irride ma che rapir non può?” (Manzoni).

La certezza che nulla è abbandonato – neppure l’abbandono più terribile e infamante – dall’abbraccio di Dio è il grande tema che il film ripropone (senza la pretesa di essere un impeccabile trattato teologico) e che oggi ci conviene guardare con grande attenzione.

Si aprono tempi, infatti, in cui sarà chiesto ad ognuno di prendere posizione a fronte di una società in cui tutto, ma proprio tutto, è contro il cristianesimo. Non ci saranno, presumiamo, le fantasiose torture giapponesi. Tuttavia una forma di ostracismo e rinuncia a pezzi di potere, a pezzi di prestigio sociale,  in nome della fede – nuda, pura – già è richiesta oggi. E continuamente la Chiesa sta richiamando la giusta battaglia per il cristiano di oggi, correggendo sottolineature sciagurate che vanno in direzioni apparentemente ragionevoli.  In tal senso è sufficiente rileggere le Ultime conversazioni di Benedetto XVI, dove il papa emerito si dichiara  preoccupato non per il calo di fedeli o di vocazioni, ma per la perdita della fede.

Ma cosa è questa fede, questo unico punto che conta per la chiesa universale?  Non forme predefinite (né intimistiche, né di militanza esteriore), ma il riconoscimento (fisico, reale, in luoghi che aiutino tale coscienza) del Dio che ci abbraccia ora e sempre, e dunque la possibilità di una vita nuova da subito, anche nella più devastata e lontana situazione che possiamo vivere. Anche in questo inferno interiore di cui siamo terribilmente protagonisti e artefici noi uomini dell’Europa del XXI secolo. Un inferno che, per certi aspetti,  ha poco da invidiare alla vita di fango e di stenti dei kirishitan giapponesi del 1.600.